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Posts written by fra roberto

view post Posted: 17/5/2015, 09:00 LA PICCOLA ARABA - Santi e testimoni
SANTA MARIAM BAOUARDY - LA PICCOLA ARABA
TRATTA DAI RITRATTI DI SANTI DI ANTONIO SICARI - JACA BOOK
(che se li acquistate fate un piacere a voi stessi)

Ci sono poi epoche storiche particolari in cui gli uomini aggrediscono proprio la fede nella potenza miracolosa di Dio: la deridono, ammirano le proprie opere, le proprie conquiste, le proprie “invenzioni” vantandole come cose mirabili, e negano che Dio c'entri con la vita e ancor più che egli possa regalarci i suoi miracoli.
Allora è come se Dio decidesse di mostrarci tutta la sua divina fantasia: i miracoli e i doni più eccezionali non solo accadono a confortare l'esperienza di qualche Santo, ma sembra che questo viva proprio per permettere a Dio di operare prodigi, e per essere strumento della sua azione divina.
Ci sono Santi davanti ai quali gli increduli possono solo negare, negare, negare e basta: contro ogni evidenza, contro decine e centinaia di testimoni oculari. Perché accettare anche solo la possibilità di quel che viene raccontato scardina ogni loro scientifica certezza.
Così accadde in quella seconda metà del secolo XIX in cui molti falsi profeti sostenevano che “il futuro apparteneva oramai alla scienza”.
Ernest Renan nel suo Avénir de la Science affermava con incredibile sicumera: “Non è solo da un ragionamento, ma da tutto l'insieme delle scienze moderne che scaturisce questa importantissima conclusione: il soprannaturale non esiste”.
E Jules Simon rincarava: “La scienza poggia sulla stabilità delle leggi della natura. Dio non può nulla contro di essa. Se egli esiste non può che somigliare a un satellite che ruota attorno al cosmo, senza alcun influsso”.
Per ambedue, e molti altri con loro, la Scienza era la nuova Religione che intendevano offrire all'umanità, e potevano anche documentarne i vantaggi.
Basta pensare che tutte le “invenzioni” che hanno reso comoda la nostra esistenza, in quest'ultimo secolo, fiorirono a ritmo serrato in quegli anni: dalla bicicletta all'automobile, dal tram elettrico all'aereo, dal telefono alla radio, dal frigorifero all'ascensore, dalla lampadina alla macchina fotografica …. e si potrebbe continuare ancora per molto.
Intanto, proprio in quegli stessi anni, i “maestri” che avrebbero sradicato la fede di interi popoli e intere generazioni (Marx, Freud, Nietzsche) elaboravano le loro ideologie materialistiche e dichiaratamente anticristiane.
A Dio restava dunque solo la risposta dei Santi.
La risposta conclusiva, più travolgente e geniale, Egli la darà per mezzo di Teresa di Lisieux, con il messaggio del “ritorno all'infanzia”. Come ha scritto Jean Guitton: “Non l'infanzia che sta all'inizio della vita ed è soltanto una immagine della meta, ma l'infanzia che indica la semplicità del compimento ...quella specie di ritorno dell'essere maturo verso la sua fonte”..., un ritorno realizzato con il più totale e amoroso e commovente abbandono nelle mani di Dio Padre, in ogni circostanza della vita.
Ma la risposta della carmelitana di Lisieux – proprio perché affidata alla sua assoluta semplicità e a una “quotidianità” vissuta nell'amore, senza manifestazioni straordinarie – avrebbe lasciata impregiudicata la questione dei miracoli, cioè del diritto di Dio di mostrarci tutta la fantasia del soprannaturale.
Per questa così caratteristica risposta venne scelta un'altra Carmelitana, vissuta solo qualche decennio prima (quando ella muore, Teresa ha poco più di cinque anni): Mariam Baouardy di origine araba, che passò i suoi trentatré anni di vita tra la Palestina, l'Egitto, la Siria, la Francia, l'India e poi di nuovo la Palestina.
Un'orientale dunque, dotata anche psicologicamente e naturalmente per il compito fantasioso a cui Egli la destinava, e non intaccata da nessun influsso cosiddetto culturale, dato che non imparò mai né a leggere né a scrivere, e in monastero si dedicò solo ai lavori pesanti delle “suore converse”.
Proprio con lei, che si definiva “un piccolo nulla” , Dio decise di meravigliare il mondo.
Insistiamo su questo perché, se non si comprende ciò, la narrazione può sembrare perfino troppo strana e incredibile.
Il titolo della prima biografia che le fu dedicata fu significativamente questo: Vita meravigliosa di Suor Maria di Gesù Crocifisso.
E René Schwob, uno scrittore francese di origine ebraica, le dedicò un libro dal titolo: Legenda aurea al di là del mare, in cui definisce la vita di Mariam “una delle vite più meravigliose della storia del Cattolicesimo”, e lascia questo conclusivo commento: “Ci sia permesso auspicare che questa piccola illetterata, quando sarà avvenuta la sua canonizzazione, divenga la patrona degli intellettuali. E' ben qualificata per liberarli dall'orgoglio”.
Un altro celebre poeta romanziere – quel Francis Jammes che si proclamava sempre “entusiasta del miracolo dell'universo” - scrisse di lei: “Era una vera figlia di oriente, che cantava le lodi del Creatore servendosi di immagini belle, “ingenue”, e l'ammirò tanto da spingersi fino a scrivere al Papa per chiederne la canonizzazione.
La stessa ammirazione ebbero Léon Bloy, Jacques Maritain, Julien Green: tutti d'accordo con la definizione che diede di Mariam Baouardy la sua prima maestra di noviziato:
“E' un miracolo della grazia di Dio”.
Era dunque il 1846. Ad Abellin, villaggio a metà strada tra Haifa e Nazaret, vive una famiglia araba di religione cristiana.
E' una buona famiglia, di veri credenti, ma triste, perché i figli che vengono al mondo non riescono proprio a sopravvivere: ben dieci maschietti muoiono tutti in tenera età. Il padre si chiama Giorgio e il cognome che porta, Baouardy, l'ha preso dal mestiere che esercita: il polveraio. Come lui, molti nel paese guadagnano qualche soldo preparando la polvere da sparo nel mortaio di pietra. Sua moglie è una donna amata nel villaggio per la grande bontà e per la operosa solidarietà che dimostra con chiunque sia nel bisogno. Un giorno uno dei due coniugi così duramente provati si mettono in cammino verso Betlemme: un pellegrinaggio a piedi di 170 chilometri per andare a pregare sulla culla di Gesù Bambino e chiedere alla Vergine Santa la grazia di una figlia. Promettono di chiamarla Mariam.
E la bambina nasce nove mesi dopo e viene battezzata e cresimata secondo il Rito Greco-Melchita. L'anno dopo nasce anche un maschietto: Paolo.
Tutto sembra andare per il meglio. Ma ecco che, quando Mariam non ha ancora 3 anni, sono i genitori ad andarsene: prima muore il papà e dopo alcuni giorni muore la mamma di crepacuore. La bambina restò con il ricordo del gesto profetico, pieno d'amore, compiuto dal papà negli ultimi giorni di vita. Sentendosi venir meno, egli aveva preso in braccio la sua piccola e l'aveva alzata verso un'immagine del buon San Giuseppe invocandolo:
“Grande Santo, guarda la mia piccina! La Madonna è sua Madre, sii Tu suo Padre! Veglia su di lei!”.
Alla morte dei genitori, secondo l'uso orientale, i bambini furono portati tra i parenti: Paolo fu adottato da una zia materna che abitava in un vicino villaggio, Mariam venne adottata da uno zio paterno di agiata condizione, che, dopo qualche anno, si trasferirà ad Alessandria d'Egitto. E i due fratellini non si rivedranno mai più. Dell'infanzia di Mariam non sappiamo quasi nulla, solo qualche ricordo che lei stessa racconterà più tardi, da cui traspare sempre una particolare protezione celeste.
L'episodio più delicato e intimo fu certamente quello che le accadde in occasione di un piccolo incidente domestico. Alla piccina avevano regalato alcuni uccellini in gabbia. Lei aveva voluto accudirli, ma non era stata capace: si era premurata di far loro il bagnetto, come si fa con i bambini piccoli, e gli uccellini erano morti.
Mentre li seppelliva si era sentita stringere il cuore dal dispiacere, ma una vocina dentro le aveva detto: “Vedi, tutto passa! Ma se tu vuoi dare a me il tuo cuore, io resterò con te per sempre”.
Era ancora piccola, ma quella voce non la dimenticò più. Un'altra volta, un venerando pellegrino si era presentato in casa ed era stato ospitato secondo l'uso, ed ecco che, al vedere la piccina, quegli era stato preso da una strana emozione e aveva implorato: “Custodite questa bambina, ve ne prego, custodite questa bambina!" .
Quando racconterà il fatto, dopo molti anni, Mariam nella sua sconfinata umiltà spiegherà: “Forse quel sant'uomo, prevedendo i miei peccati, era tanto preoccupato per la salvezza della mia anima!”.
In realtà cresceva come un angelo e il suo più grande desiderio era ricevere la prima Comunione. Riuscì a farla alcuni anni prima del tempo fissato perché, a forza di insistere con il prete, riuscì a strappargli un giorno un sì distratto al quale la piccola, di quasi otto anni, obbedì prontissimamente.
Quando Mariam raggiunse la pubertà – ed era già fidanzata con un lontano parente, secondo l'uso, senza neppure saperlo – le dissero che il momento di contrarre matrimonio era giunto: venne il fidanzato portando ricchi gioielli e la famiglia preparò vesti sontuose e ricamate. Mariam non si dava pace: a quella voce che aveva sentito da bambina (“Se vuoi dare a me il tuo cuore, io resterò con te per sempre”) lei aveva già risposto di sì, ed ora che aveva tredici anni non poteva pronunciare un altro sì.
I parenti non capivano, pensavano a uno di quei capricci da cui ogni tanto si lasciano afferrare le ragazzine. Chiamarono il prete e perfino il Vescovo della comunità perché spiegassero alla fanciulla il dovere di obbedire ai genitori adottivi in materia tanto grave. Il giorno in cui lo sposo si presentò per la cerimonia, e tutti aspettavano che Mariam uscisse dalla sua camera adorna di vesti preziose e di gioielli, ella si presentò con i lunghi capelli tagliati deposti su un vassoio e sui capelli c'erano i gioielli d'oro.
L'ira dello zio fu tale che la ragazza venne cacciata in cucina tra le schiave di casa e assoggettata alle loro angherie. E il confessore – che non capiva – giunse a negarle l'assoluzione e proibirle la Santa Comunione.
Dopo tre mesi di sofferenze, Mariam si ricordò del fratello Paolo rimasto in Palestina e tentò di mettersi in contatto con lui. Si fece scrivere una lettera e la sera, di nascosto, si recò a portarla a un servo musulmano che aveva conosciuto a casa dello zio e che era in procinto di recarsi a Nazaret. Il servo conosceva le traversie e i patimenti della ragazza: quando ella giunse piena d'affanno, la famiglia stava per mettersi a cena. La moglie e la madre di lui insistettero perché si fermasse a cena, la trattarono con cortesia, le fecero raccontare gli ultimi avvenimenti. L'uomo si incolleriva sempre di più: diceva che i cristiani erano senza cuore, esortava la ragazza ad abbandonare i suoi correligionari, le offriva la sua casa. Allora gli odi religiosi erano violenti e pronti a scoppiare per un nonnulla. Mariam reagì: «Musulmana io? Mai! Sono figlia della Chiesa cattolica e spero di restare tale per tutta la vita».
La risposta fu un calcio dell'uomo che la fece stramazzare a terra; poi costui, ormai accecato dall'ira, sguainò la sua scimitarra e le tagliò la gola. Per disfarsi del cadavere, lo avvolsero in un lenzuolo e lo gettarono in una buia viuzza fuori mano.
Era il 7 settembre 1858.
Che cosa sia poi accaduto lo sappiamo solo da ciò che Mariam narrò molti anni dopo, quando era già diventata una santa monaca carmelitana di clausura: raccontò che le era sembrato di entrare in Paradiso, d'aver visto la Vergine e i santi e i suoi genitori, e la gloriosa Trinità. Poi una voce le aveva detto: «II tuo libro non è ancora tutto scritto» e si era trovata in una grotta, per giorni e giorni, in preda alla febbre, assistita da una giovane donna, simile a una suora, che portava un velo azzurro: costei la nutriva, la assisteva, e la faceva lungamente dormire. Dopo circa quattro settimane quella suora l'aveva condotta alla chiesa dei francescani, e lì l'aveva lasciata.
Di solito Mariam non diceva che era stata assistita dalla Vergine Santa; mostrava solo la cicatrice di dieci centimetri di lunghezza che le attraversava il collo.
Sedici anni dopo il fatto, un celebre medico ateo che la visiterà in Francia, a Marsiglia, constatando che le mancano alcuni anelli della trachea, dirà: «Un Dio ci deve essere, perché nessuno al mondo, senza un miracolo, potrebbe vivere dopo una simile ferita».
Solo durante un'estasi avvenuta il 7 settembre 1874 la si udrà esclamare: «Oggi era con me la Madre mia. Oggi io le ho consacrato tutta la vita... La sera mi avevano tagliato la gola, e il giorno dopo già Maria mi aveva presa con sé».
La famiglia adottiva di Mariam s'era ormai convinta della fuga di quella figlia strana e disobbediente, e Mariam non li cercò mai più.
Aveva appena tredici anni. Divenne una povera serva, prima ad Alessandria, poi a Gerusalemme, poi a Beyruth. Di preferenza sceglieva famiglie povere, e finì per prendersi cura di una famigliola malata e ridotta in miseria, per la quale lei stessa si ridusse a mendicare. Non le mancarono traversie, pericoli, umiliazioni, ma sembrava che qualcuno sempre la proteggesse.
Nel 1863 accettò di entrare a servizio della famiglia Nadjar, siriana, che si trasferiva a Marsiglia. Aveva ormai diciassette anni ed era analfabeta. Continuò a servire in tutta umiltà, ma era già afferrata da una attrazione irresistibile verso il mondo soprannaturale.
A diciannove anni riuscì ad entrare nel noviziato delle suore di San Giuseppe, anche se non aveva altro da offrire che il suo amore per Dio e la sua disponibilità per i lavori più umili. Si offriva con gioia per tutti i lavori più pesanti. «Fare io questo, perché io avere tempo», diceva nel suo francese approssimativo, mentre si sforzava di anticipare le compagne nella fatica.
Se la correggevano diceva: «Perdono, io molto cattiva. Tu pregare per me». Dava del «tu» a tutti: consorelle, superiore, vescovi e cardinali. E questa rimase la sua caratteristica per sempre.
La maggior parte del tempo la passava in cucina o in lavanderia.
Ma tra i fornelli e il bucato spesso cadeva in estasi, e aveva visioni. Dal giovedì al venerdì, sulle mani e sui piedi, le apparivano stimmate sanguinanti, ma credeva che si trattasse di una malattia e nascondeva le ferite con ogni cura: se ne vergognava.
Siccome in Palestina aveva conosciuto dei lebbrosi, credeva di aver contratto la lebbra e diceva alla sua supcriora: «Madre, stanimi lontana, altrimenti prenderai la mia malattia!». E questa, davanti a tanta ingenua umiltà, ribatteva: «Stai tranquilla figlia mia, non è molto probabile che io la prenda!».
Il mercoledì chiedeva di prolungare il lavoro, perché doveva recuperare il tempo che avrebbe perduto «nei due giorni di malattia»: «Madre», diceva alla supcriora, «vuoi darmi qualche suora per aiutarmi a finire il bucato, perché il giovedì e il venerdì sono malata, e vorrei finire adesso?».
Ma nel 1867—in assenza della Madre Generale che la capiva e la proteggeva—venne dimessa dal Consiglio dell'Istituto, perché ciò che le accadeva turbava troppo la comunità.
Le consigliarono di entrare in un Carmelo, pensando che la clausura l'avrebbe meglio protetta dalla curiosità del mondo.
Giunse così al Carmelo di Pau, nei Bassi Pirenei, presentata dalla sua vecchia maestra di noviziato con l'assicurazione che «quella piccola araba era obbediente fino al miracolo». Prese il nome di suor Maria di Gesù Crocifìsso.
L'Apostolo Paolo non aveva forse scritto «di non volere sapere nient'altro se non Gesù crocifisso»? Ebbene, per suor Mariam questo fu vero alla lettera: non sapeva nient'altro.
Aveva ventun anni e ne dimostrava dodici, talmente era minuta. Sapeva solo fare dei lavori materiali: la cucina e il bucato e la cura dell'orto erano i suoi compiti abituali.
Il resto però era un tessuto di cose prodigiose.
Le estasi continuavano, ma bastava che la maestra di noviziato la richiamasse «per obbedienza» che ogni fenomeno straordinario si interrompeva immediatamente. D'altra parte lei se ne vergognava, era convinta di cedere al sonno e l'angustiava il fatto di non sapere resistere. A volte si accusava di non saper pregare.
Diceva alla priora: «Nella preghiera non ho distrazioni, ma non riesco a concludere nemmeno la preghiera più corta. Comincio il Padre nostro e mi fermo su queste due parole senza riuscire a continuare. Penso: 'O mio Dio, tu così grande, così potente, tu sei nostro Padre! Tu che sei in ciclo, mentre noi siamo piccoli vermiciattoli, polvere e cenere... Eppure noi abbiamo il coraggio di offenderti! O mio Dio, abbi pietà di noi...'. E poi mi perdo, e mi addormento».
E continuava: «Se poi recito VAve Maria, e comincio a dire alla Madonna: 'Sei così buona tu, così buona, o Madre mia!, Tu Madre di Dio e Madre degli uomini! E noi poveri peccatori!...', e poi mi perdo, e mi addormento: impossibile continuare... Come devo confessarmi per il fatto che non riesco a continuare?».
Le stimmate riprendevano sempre a sanguinare nel giorno in cui si commemorava la passione del Signore, anzi le si era aperta una piaga sul costato simile a quella di Cristo ferito in Croce. Le mettevano sopra dei piccoli panni bianchi per asciugare il sangue, e sul panno la macchia di sangue da sola prendeva la forma di un cuore sormontato da una croce e a volte si leggevano anche le iniziali di «Gesù Salvatore». Sono reliquie che esistono ancora.
Provava uno straordinario affetto per papa Pio IX che chiamava «Mio Padre» e sembrava conoscere non si sa come tutte le sofferenze che attanagliavano la Chiesa nelle diverse parti del mondo, e prevedeva perfino certi pericoli materiali che minacciavano le persone vicine al pontefice.
Nel 1868, dopo la preghiera, fece avvertire per tre volte il Santo Padre che la caserma più vicina al Vaticano era stata minata. Nessuno le diede ascolto e il 23 ottobre di quello stesso anno la Caserma Serristori di Borgo vecchio saltò in aria in pieno giorno.
Da allora a Roma cominciarono ad ascoltare con attenzione i messaggi che venivano dalla novizia di Pau. Così riuscirono per tre volte ad evitare dei disastri, quando l'anno successivo fece avvertire che, durante la celebrazione del Concilio Vaticano I, tre edifici sacri erano stati minati.
Fu così che il papa e il cardinale segretario di Stato presero a interessarsi di lei, e in seguito Mariam ne approfitterà per ottenere direttamente dal Santo Padre il permesso di fondare due monasteri in Palestina, permesso che la curia romana continuava ripetutamente a negare.
Ciò che colpiva in lei era il candore: proprio il candore di una bambina che non conosce malizia alcuna, al quale univa una generosità senza limiti: non sapeva preservarsi, quando c'era bisogno di lei; la mortificazione le sembrava naturale.
Interiormente invece era come provata da forze disgregatrici. Diceva di sentirsi «un piccolo nulla», ma c'era una lotta costante in lei e Dio la permetteva.
Così il demonio si sforzava in ogni modo di convincerla del suo peccato, della sua indegnità, della sua infedeltà, della sua vocazione mancata, la spingeva fino alla disperazione, a volte la costringeva a comportamenti strani cui non era abituata: allora era un nulla nel senso più umiliante del termine.
Si scatenavano in lei durissime battaglie che duravano alcuni mesi, lotte durante le quali il demonio, infliggendole sofferenze atroci, cercava di strapparle di bocca qualche lamento nei riguardi di Dio, e Mariam ribatteva ostinatamente: «O Gesù, rimpiango di non soffrire abbastanza per te».
E dovettero sottoporla ad esorcismi, durante i quali la piccola araba sembrava abbandonata in preda al demonio che tuttavia non riusciva mai a sopraffarla.
Una volta, si udì Satana gridare con sarcasmo: «Ma sì, informate la veste bianca perché venga a canonizzarla!».
Durante l'ultima e decisiva battaglia, i presenti vedevano solo Mariam, ma udivano questo dialogo, dato che il demonio parlava dal di dentro di lei con voce terribile e lei rispondeva soffrendo, ma con gioia e certezza. Satana gridava: «Dio non c'è!».
E Mariam reagiva: «Ma io lo vedo nella creazione, vedo come crescono gli alberelli...».
«Non c'è alcuna Chiesa!».
«Ma io vedo la sua immagine in ogni frutto. Se apro il frutto c'è il seme. Se apro il tabernacolo c'è Gesù nell'Eucaristia».
«Non c'è amore!».
«Ma io vedo la legge dell'amore in tutti gli animali... Vedo la chioccia che raccoglie i pulcini sotto le ali...».
Non era un gioco, era l'antica lotta tra Satana e Dio, che coinvolgeva questa figlia d'Oriente (come un tempo il vecchio Giobbe) ed ella—senza cultura, semplice come una bambina—rispondeva col suo più facile catechismo: quello della natura e quello dei sacramenti.
Poi, dopo la lotta, Dio la cullava come una bambina.
Mariam diceva allora: «II pensiero che io sono un niente mi fa trasalire di gioia. È così bello essere un nulla... L'umiltà è felice di essere un nulla, non si attacca a niente, non si infastidisce mai. È contenta, felice, ovunque felice, soddisfatta di tutto... Beati i piccoli».
La chiamavano spontaneamente così: «la piccola araba».
A volte aveva ripetutamente questa visione: vedeva una bambina di tre anni adagiata tra le braccia di Gesù, una bambina simile a lei, ma anche completamente diversa, e Mariam diceva a Gesù: «Come è felice questa piccina, tu l'ami tanto!». E Gesù rispondeva: «Sì, l'amo, guarda come la tengo tra le braccia, ma lei non lo sa». «Lei non lo sa», riprendeva Mariam. «Ah, se fossi io, ti prometto che lo sentirei e sarei felice». Poi raccontava alla maestra con un senso di invidia: «Quella piccina nemmeno mi vedeva. Non guardava nessuno all'infuori di Gesù. E Gesù la guardava sempre!».
Era il modo con cui Gesù le spiegava l'evangelico «se non diventerete come bambini...».
Ella aveva inoltre una devozione struggente per lo Spirito Santo, cosa a quei tempi piuttosto rara. Usava anche una preghiera tutta sua, molto bella, che le era nata in cuore durante la meditazione: «Spirito Santo ispiratemi / Amore di Dio consumatemi / Nella vera via conducetemi / Maria Madre di Dio guardatemi / Con Gesù beneditemi / Da ogni male e da ogni illusione / Da ogni pericolo preservatemi». E diceva che il mondo andava male perché i cristiani da tanto tempo non pregavano più lo Spirito Santo. E anche i preti sembravano essersene dimenticati!
Il 21 agosto 1870, assieme a un piccolo gruppo di altre cinque consorelle, Mariam fu inviata in India per fondare in quello sterminato paese il primo monastero carmelitano, a Mangalore.
Due monache morirono durante il lungo viaggio. Poi, a Calcutta, morì anche colei che era stata designata come priora. Delle tre superstiti, Mariam era ancora novizia e ottenne di poter ridiventare «conversa», cioè addetta ai lavori più pesanti, incapace com'era anche solo di leggere in coro il breviario!
Le sue straordinarie esperienze continuavano con lo stesso ritmo e la stessa intensità, ma ciò non le impediva di affrontare tutti i travagli che sono sempre legati a una nuova fondazione, soprattutto quando ci si trova in una poverissima regione.
In cucina, quando la vedevano col volto raggiante tutte capivano che era, come usava dire, «in compagnia con Colui che ha creato il ciclo e la terra».
Durante le estasi continuava a partecipare in spirito a ciò che accadeva nella Chiesa: Mariam era spiritualmente là dove scoppiavano persecuzioni, dove certi missionari venivano uccisi (in Cina, ad esempio), ed ella descriveva, come se fosse presente, gli avvenimenti più dolorosi che trovavano perfetta corrispondenza nelle notizie che i giornali riferivano alcuni mesi dopo.
Ma vennero le incomprensioni: sia la supcriora che il vescovo cominciarono a dubitare di questa sorella che alternava manifestazioni straordinarie di grazia a momenti in cui si aveva l'impressione che il demonio prendesse possesso di lei: un'alternanza che Dio permetteva per purificarla completamente, e mantenerla nella piena coscienza del suo nulla. L'accusarono di essere una visionaria, di procurarsi le stimmate da sé ferendosi con un coltello, di avere una troppo fervida immaginazione orientale, di non essere abbastanza trasparente con la supcriora. Il vescovo maturò la convinzione che certamente non era una santa. E forse era soltanto una indemoniata.
Ed era vero che spesso il demonio tornava a tormentarla, quasi per costringerla a rinnegare Dio mentre Dio era certo dell'amore della sua figlia. Satana le faceva commettere, ma solo esteriormente, serie mancanze contro la Regola, proprio a lei che era sempre un prodigio di obbedienza.
A Mariam, Gesù diceva in anticipo: «Io ti vedo e basta. Rimani lì senza dir nulla».
Le sembrava allora di esser tuffata in un lago circondato da serpenti, e anche la Madonna le diceva: «Io sono tua Madre. Ti metto io in quest'acqua. Non ti muovere. Tu non mi vedrai, ma io veglierò su di te».
Sempre, quando sentono parlare di queste possessioni diaboliche, i credenti sono turbati, anche perché ai nostri tempi si è diffuso il sospetto che si tratti solo di proiezioni dei turbamenti psichici di chi si crede posseduto.
Ma poi si scopre con orrore, e sempre più frequentemente, che non mancano uomini che volontariamente servono Satana con riti di impressionante malvagità, e invocano l'esplosione malvagia e distruttiva della sua demoniaca potenza.
Allora si capisce perché Dio chieda a volte a qualcuno dei suoi santi di combattere faccia a faccia contro questo potere che cerca sempre di affermarsi in odio a Dio e agli uomini. E spesso questi santi devono subire non solo i tormenti provocati dal demonio, ma anche quelli inflitti dai benpensanti che credono di aver capito tutto in anticipo, e tutto vogliono spiegare con il loro preteso realismo.
Così Mariam venne rimandata nel suo Carmelo d'origine, in Francia. Tornò umilissima nel monastero di Pau; sapeva che Dio aveva i suoi misteriosi disegni.
Riprese la sua semplice vita di conversa, fatta di tanto lavoro e inframmezzata da episodi prodigiosi.
Amava la natura e ne sentiva talmente l'incanto che a volte, in estasi, lei illetterata componeva bellissime poesie alla maniera orientale, e inventava anche strane e dolci melodie per cantarle.
Una mattina prestissimo, il 28 giugno 1873, la priora la trova in estasi, seduta su un panchettino davanti a una finestra aperta: «Madre», le dice suor Maria, «tutti dormono e nessuno pensa a Dio che è così pieno di bontà, così grande... Nessuno ci pensa. Guarda, la natura lo loda, il ciclo, le stelle, gli alberi, le erbe, tutto lo loda e l'uomo, che conosce i suoi benefici e dovrebbe lodarlo, dorme! Andiamo a svegliare l'universo!... Gesù non è conosciuto, Gesù non è amato!...».
Quand'era triste per la lontananza di Dio, la udivano pronunciare preghiere che sembravano salmi biblici, con lo stesso ritmo, con la stessa bellezza, ma a comporli era lei, che non sapeva né leggere né scrivere.
Ecco alcuni versi di un lungo «salmo penitenziale» da lei composto di getto:
«Signore, la mia terra è arida e bruciata,
inviami la tua rugiada.
La mia carne cade in corruzione,
i miei piedi non possono più portarmi,
e le mie mani non sanno più muoversi.
I miei nervi sono rattratti,
le mie ossa sono disseccate,
il midollo delle mie ossa è come fumo marcito.
Ed ecco un salmo di contemplazione:
«A chi assomiglio io, Signore?
Agli uccelletti implumi nel loro nido.
Se il padre e la madre non portano loro il cibo
muoiono di fame.
Così è l'anima mia,
senza di te, o Signore.
Non ha sostegno,
non può vivere.
A chi assomiglio io, Signore?
A un piccolo chicco di grano sepolto nella terra.
Se la rugiada non lo abbevera,
se il sole non lo riscalda,
il chicco avvizzisce e muore.
Ma se tu doni
la dolcezza della tua rugiada,
l'ardore del tuo Sole,
il piccolo seme,
rigonfio di linfa e di vigore,
emetterà radici
e germoglierà uno stelo
rigoglioso di frutti abbondanti.
A chi assomiglio io, Signore?
A una rosa recisa
che nella mano subito appassisce,
e perde il profumo.
Ma se resta sul suo stelo
rimane fresca e smagliante,
intatta nel suo profumo.
Custodiscimi in te, Signore,
per donarmi la vita!
A chi assomigli Tu, Signore?
Alla colomba che dona il cibo ai suoi piccoli,
a una tenera madre
che nutre la sua piccola creatura».
Dei letterati esperti hanno detto che Mariam sembra diventare, nelle sue poesie, «un abbagliante giocoliere di immagini».
Aveva una vita che grondava da ogni parte di fenomeni straordinari, eppure lei a chiunque raccomandava: «Dio ci liberi da questi stati straordinari, la fede ci basta; nella fede non c'è orgoglio. Stimo più la grazia di essere povera ignorante, perché questo mi fa intendere la bontà, la misericordia di Dio, il quale, sebbene grande, vuole occuparsi di me. Mi sembra che se fossi in uno stato straordinario non vorrei rimanere tre mesi nella stessa città, percorrerei tutto il mondo per non essere conosciuta».
A un vescovo che si mostrava molto curioso di fenomeni eccezionali, disse:
«Monsignore, Gesù mi incarica di dirti: non fermarti allo straordinario.
Se vengono a dirti: la Santa Vergine appare qui o là, in quel luogo c'è un'anima straordinaria... non andarci, non metterti in pena...
Il Signore ti dice: attaccati alla Fede, alla Chiesa, al Vangelo... Ma se vai a consultare qua e là lo straordinario, la tua fede si indebolirà. Io ti dico da parte del Signore: se ti attieni alla Fede, al Vangelo, Lui sarà sempre con te e non ti abbandonerà mai...».
Per conto suo Mariam. non parlò mai di estasi e di visioni, parlava di «sonno» e di «segni», e se ne scusava come di una colpa.
Lottava contro le sue estasi e diceva con semplicità: «Gesù mi tira da una parte e io tiro dall'altra per non lasciarmi andare al sonno».
E ciò le accadeva mentre lavava i piatti, mentre mangiava, durante le ricreazioni, mentre lavava i panni: «Allora si vedeva», raccontò una consorella, «la biancheria che ella strofinava diventare candida a vista d'occhio tra le sue mani».
E qui entriamo in vicende così meravigliose che non possono essere spiegate in alcun modo se non con la volontà di Dio di divertirsi della nostra incredulità, della pretesa che gli uomini hanno a volte di dirgli ciò che può fare e ciò che non può fare, ciò che è possibile e ciò che non deve essere possibile.
Il 22 giugno 1873 le consorelle non vedono Mariam a cena.
La cercano: non è in cella, né nei chiostri, né in giardino.
La odono cantare in alto un canto d'amore a Dio. Alzano gli occhi: è sulla cima di un gigantesco tiglio, alto più di quindici metri, sugli ultimi rami così fragili che non avrebbero potuto sostenere alcun peso. La priora le comanda per obbedienza di scendere, ed ella scende lentamente, senza farsi male, con semplicità e grande compostezza, poggiando semplicemente i piedi di ramo in ramo e continuando a cantare.
L'ascensione si ripete sotto gli occhi di vari testimoni il 9, 19, 25, 27, 31 luglio e 3 agosto del 1873: non sono favole tramandate da tempi antichissimi: sono testimonianze giurate da testimoni oculari, in un'epoca in cui imperano il positivismo e lo scientismo.
La priora la interroga. Lei risponde che Gesù le tende le mani e lei deve salire. Di fatto il fenomeno si produce così: lei tocca con una mano le foglioline ai margini del tiglio, su ramoscelli che si sarebbero piegati sotto il peso di un uccellino, e in breve viene sollevata in alto, quasi scivolando sulla superficie esteriore dell'albero.
Solo una volta accade che, quando la priora le comanda di scendere, lei indugi un po' su un ramo—quasi dispiaciuta di doversi allontanare—e da quel momento deve scendere con le sue forze e con grandi paure e precauzioni, mentre dice con un sospiro: «Se ne è andato. Mi lascia scendere sola».
A volte il fenomeno durava tre o quattro ore: quando finiva l'estasi, lei non ricordava più nulla. Si svegliava ai piedi del tiglio. A volte i suoi sandali o la lunga corona che portava alla cintura restavano appesi, impigliati, ai più alti rami (quasi segno visibile a tutti di ciò che era avvenuto) e lei si inquietava perché non li trovava più. Le sembrava strano che le facessero trovare ai piedi del tiglio un paio di sandali nuovi, ma ogni sorella per obbedienza taceva, e lei non seppe mai nulla di queste ascensioni che avvenivano quando Gesù la faceva sognare.
Sembrava di vivere in un mondo di favola.
Intanto sentì piano piano nascerle in cuore il desiderio di fondare un monastero a Betlemme, proprio là dove Gesù era nato, e dove la mamma sua aveva impetrato la grazia della sua nascita.
Le difficoltà sembravano insormontabili sia per le esitazioni del patriarca di Gerusalemme che per l'opposizione decisa della Congregazione di Propaganda Fide, ma Mariam poteva contare sull'amicizia del pontefice. La partenza delle monache per la Terra Santa fu autorizzata di persona dallo stesso Pio IX.
Nel 1875 Mariam partì per Betlemme dove giunse con otto consorelle. Fu lei a improvvisarsi architetto e direttrice dei lavori di costruzione del monastero: scelse il sito, acquistò i terreni, tracciò il disegno dell'edificio, diresse gli operai, trattò con i fornitori. Era d'altronde l'unica a parlare la lingua del luogo. Ma c'era senza dubbio una guida intcriore che la ispirava.
Già nel novembre del 1876 l'edificio, costruito sulla collina di Davide, fu inaugurato, e iniziò la vita monastica.
Le prove, quelle celesti e quelle inflitte da Satana, continuavano. Il suo padre spirituale diceva che Mariam soffriva «la malattia del ciclo».
A volte il demonio la provava insinuandole i più atroci dubbi di fede, ed ella sembrava struggersi di dolore.
Confidava nel 1876: «Io dicevo: non vedere mai Dio, mai, mai. Non posso rassegnarmici. È un tormento che mi arroventa fin nelle ossa... Allora mi alzo di buon mattino. Comincio a fare il bucato (di tutto il monastero) da me sola. Non so quello che avrei fatto del mio corpo: avrei trasportato le montagne, avrei attinto tutta l'acqua della cisterna, avrei lavato tutta la casa dall'alto in basso, senza accorger-mene, tanto era grande il mio tormento a pensare che non avrei mai veduto Dio.
Ecco chi mi ha consolato: abbiamo un cane da guardia; ha commesso una colpa e l'ho percosso, ed egli abbassava un poco di più la testa. Dopo vado al refettorio e il cane mi segue. Lo scaccio e torna. Lo scaccio di nuovo e si accuccia alla porta, e guardandomi in modo che mi fa tenerezza. Allora gli ho dato un pezzo di pane. E subito sono stata colpita al pensiero della bontà di Dio per l'anima che torna a lui come il cane tornava a me.
E sento che a Dio gli è ancora più impossibile non avere compassione di noi. Allora il mio cuore si strugge, le mie pene spariscono. Restai come in agonia, ma tutto era finito».
La maestra delle novizie del monastero di Betlemme racconta che a volte Mariam le sembrava «la vittima dell'umanità», quasi che Dio le chiedesse di espiare i peccati del mondo intero, come Gesù:
«Noi non possiamo farci un'idea di quanto soffre per certe impressioni soprannaturali che l'afferrano e l'annegano, corpo e anima, soprattutto l'anima, in un mare di amarezza. Ella soffre per ogni nazione che deve soffrire, per ogni individuo, è perfino sensibile a quello che devono soffrire e soffriranno le bestie. In un certo senso ancora compiange la terra troppo arida o troppo bagnata, gli alberi e le piante che risentono in qualche modo il castigo della giustizia divina».
Ciò che in certi grandi poeti è sensibilità verso le lacrime e le sofferenze della natura, in lei era vera sofferenza di espiazione, estesa perfino al mondo animale, vegetale, e alla stessa materia.
Presentiva, soffrendo incredibilmente, guerre che stavano per scoppiare, carestie, stragi. E a volte soffriva perfino la ripulsa che tanti uomini provano verso Dio, il loro rifiuto, le loro bestemmie.
Mariam ormai trentatreenne si sentiva sempre più «perseguitata dall'amore», come diceva.
Viveva addossandosi, come d'abitudine, i lavori più duri, e già co-miniciava a progettare la fondazione di un altro monastero a Nazaret. Ottenne, con nuove fatiche, i relativi permessi e si mise in viaggio per esplorare le possibilità di costruzione.
Fu durante questo viaggio che diede un'altra e più strana prova dei doni particolari di cui era dotata.
Era l'aprile del 1878. La carovana avanzava verso Nazaret, ed era giunta nei pressi di Latroun-Amwas. Quando il carro si ferma per il cambio dei cavalli, si vede la piccola araba correre affannosamente, farsi strada tra le erbacce e le spine, e raggiungere uno spiazzo da cui affiorano delle macerie. La sentono esclamare: «Qui, è questo il luogo dove il mio Signore ha mangiato con i suoi discepoli!». Insomma: sostiene che proprio in quel luogo è avvenuta la cena con i discepoli di Emmaus. A quel tempo gli archeologi avevano identificato altrove il villaggio di cui parla il Vangelo.
Parlano i fatti: un'amica di Mariam compra il terreno, per fedeltà alla parola di lei. Quasi cinquant'anni dopo, nel 1924-25, gli archeologi domenicani cominceranno gli scavi nel luogo indicato dalla piccola araba, e scopriranno i resti di due basiliche bizantine e una successiva basilica crociata che obbligano gli studiosi a rivedere le loro convinzioni su Emmaus: Mariam aveva ragione!
Ma il sogno di costruire un monastero a Nazaret, Mariam non lo potè realizzare personalmente.
Si sentiva sempre più attratta da Dio. Pregava: «Non posso più vivere, o Dio, non posso più vivere. Chiamami a te!».
Il 22 agosto 1878 trascinava per un sentiero scosceso dell'orto due secchi d'acqua per portare da bere ai muratori addetti alla manutenzione del monastero. Cadde tre volte, l'ultima su una cassetta di gerani fioriti, e si ruppe il braccio in più punti tra il polso e il gomito.
Il giorno seguente s'era già sviluppata la cancrena.
Diceva: «Sono sulla via del ciclo. Sto per andare da Gesù».
Soffrì tutto il giorno. Alle cinque del mattino seguente le sembrò di soffocare. Venne chiamata la comunità. Le suggerirono l'ultima preghiera: «Gesù mio, misericordia!». Disse. «Sì, misericordia», e morì baciando il Crocifisso.
Proclamandola beata nel 1983, anno in cui si celebrava il giubileo della Redenzione, Giovanni Paolo II disse: «L'amore di suor Mariam per Gesù Crocifisso era forte come la morte. Le più dure prove non poterono spegnere questo amore. Piuttosto lo hanno purificato e rafforzato. Ella ha dato tutto per questo amore»; e il pontefice faceva notare che la nuova beata apparteneva a tutti e tre quei popoli d'Oriente che ancora si combattono nella terra di Gesù, e che hanno bisogno di pace.
Ad Abellin oggi la venerano cristiani e musulmani: per tutti ella è «la Kedise», la santa; e tanti devoti raccontano miracoli, da lei ottenuti, all'antica maniera biblica.
Ma anche agli occidentali Mariam ha molto da ricordare.
Julien Green ci ha lasciato nel suo Diario questa significativa annotazione: «In un'opera avuta in prestito ho letto la storia di una giovane palestinese che considera con molto dolore degli uccellini morti, uccisi da lei, senza volerlo, immergendoli nell'acqua per un bagno. È cristiana. Sente una voce che le dice: 'Tutto passa così. Vuoi che resti con te per sempre? Vuoi darmi il tuo cuore?'. Questa voce l'ha portata al Carmelo.
Qualcuno di noi ha udito questa stessa voce e non l'ha ascoltata; c'è di che colmare di tristezza una vita intera. Leggo con avidità la storia di questa predestinata» (Diario 1928-1958, pp. 1074- 75).
view post Posted: 14/4/2015, 16:37 Il Pranzo di Babette - Cinema Spettacolare
Il Pranzo di Babette

Titolo originale: Babette’s Feast.
Regia: Gabriel Axel.
Soggetto: da un racconto di Karen Blixen
Sceneggiatura: Annemarie Aaes.
Fotografia: (colore) Bierger Bohm.
Montaggio: Gabriel Axel.
Musica: Kobenhavns Kammertrio.
Produzione: Danimarca, 1987, Just Betzer.
Durata: 100’.
Interpreti: Stéphane Audran (Babette), Birgitte Federspiel (Martina), Bodil Kjer (Filippa). Premi: Oscar 1987, miglior film straniero.

Danimarca, costiera dello Jutland, 1883. In un piccolo paese vive una setta protestante, di pochi membri e rigidissimi costumi. A guidarla sono le figlie ormai anziane del pastore fondatore, Martina e Filippa. Da giovani erano state di una bellezza radiosa, ma il padre aveva sempre rspinto ogni corteggiatore. Tra questi, il giovane ufficiale Löwenhielm che, dovendo rinunciare a Martina, si era dedicato esclusivamente alla carriera. Stessa sorte era toccata a Papin, celebre tenore francese, conquistato dalla voce sublime di Filippa, ma messo alla porta dall’austero genitore. Dopo i tragici fatti della Comune di Parigi, Martina e Filippa avevano accolto come governante una profuga francese, Babette Hersant. In occasione del centenario della nascita del Pastore, Babette decide di impiegare i diecimila franchi vinti alla lotteria per offrire alla comunità “un vrai diner français”, preparato con l’abilità e la classe della grande chef che era stata un tempo, a Parigi.

Una possibile lettura

È possibile leggere il film di Gabriel Axel come metafora del banchetto eucaristico e del dono di sé che Gesù fa per amore.
Il Vangelo di Giovanni non riporta l’istituzione dell’Eucaristia come i sinottici, ma racconta la stessa ultima sera con alcuni elementi particolari, introdotti da una frase che è la chiave di volta: «Dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine» (Gv 13,1). È proprio da queste parole che si può partire per rileggere l’esperienza di Babette e riconoscere in filigrana il volto di Cristo. Anche lei dona la vita per quelli che ama, dona tutto di sé, tutto ciò che ha perché altri abbiano la vita. Investe tutte le possibilità di futuro che le si aprono davanti con la vincita alla lotteria, per realizzare un banchetto specialissimo che non è solo una sinfonia di cibi d’alta classe, ma è prima di tutto un atto d’amore. Non trattiene nulla per sé, tutto è gratuito.
Un banchetto è il luogo in cui Gesù si rivela come Maestro e Signore, ed a Emmaus è ancora una cena l’occasione per manifestarsi risorto: l’identità di Babette si svela nella medesima occasione. Il regista suggerisce l’identificazione tra Babette e Gesù con diversi dettagli: il crocifisso che la donna porta sempre al collo e che, nel momento della decisione di realizzare la cena, ella stringe forte nella mano. Quando sta per iniziare a cucinare, c’è l’inquadratura prolungata di un quadro che rappresenta Gesù nel Getzemani: anche Babette sta per donarsi, allacciandosi il grembiule, gesto che ci rimanda a Gesù che si mette a servire i suoi con la lavanda dei piedi, proprio durante l’Ultima Cena.

Nella celebrazione Eucaristica confluiscono due ascolti: l’ascolto della Parola di Dio e l’ascolto del grido dell’umanità. Babette vive entrambe le dimensioni: va di fronte al mare, in atteggiamento di preghiera e si pone in ascolto dei bisogni della “sua” comunità. Poi chiede il permesso a Martina e Filippa di far loro questo regalo: l’amore non s’impone, non mette nessuno con le spalle al muro, non obbliga ad accettare: si offre.
Babette dà il meglio di sé per preparare la cena, stila con cura la lista dei cibi e si assenta per alcuni giorni per far arrivare gli ingredienti dalla Francia. A cena ormai conclusa spiegherà lei stessa che quel pasto è stato un modo di manifestare la sua interiorità. Con quel dono ha comunicato la sua identità, ha rivelato chi essa è veramente: «Per tutto il mondo risuona un lungo grido che esce dal cuore dell’artista: consentitemi di dare tutto il meglio di me!».
Vedendola all’opera in cucina, possiamo comprendere quanto sia stato grande il sacrificio che si è imposta nei lunghi anni a servizio delle due sorelle, mortificando la sua abilità, la sua creatività di vera artista, per farsi come loro: da chef si è fatta serva, imparando a preparare l’umile zuppa di birra e pan secco. Così Babette adotta la logica dell’Incarnazione, di un Dio che si abbassa a farsi uomo come noi. E sceglie il nascondimento, infatti gli ospiti non la vedranno nemmeno: rimane sempre dietro le porta della cucina, ma raggiunge ugualmente ciascuno con il suo dono.

Libera di esprimersi, si impegna senza risparmio nella cura dei minimi dettagli: non prepara solo le pietanze, ma anche l’ambiente, perché l’amore non è mai sciatto o superficiale. La sua è una vera liturgia e tutti i paramenti sono disposti con rispetto: le stoviglie pregiate, i candelabri, la tovaglia stirata direttamente sul tavolo perché sia perfetta. Spiega lei stessa: «Potevo renderli felici quando davo tutto il meglio di me». Mentre lavora, sudando tra i fornelli, Babette non viene meno alla sua grazia abituale nei modi e nel sorriso. Anche indaffarata, è serena, sorridente, canticchia tra sé e si rallegra del risultato. Il suo banchetto, come l’Eucaristia, è per tutti: gli ultimi sono trattati come i principi, così il vecchio cocchiere, che ha trovato rifugio in cucina, viene reso partecipe del pasto succulento e dei vini pregiati. È l’ospite d’onore, quasi, poiché è l’unico che ha il piacere di vedere le abili mani di Babette creare i cibi deliziosi al gusto ma anche alla vista, per l’eleganza con cui vengono disposti nei piatti. Sarà proprio il cocchiere il primo a ringraziarla, al termine della serata. Babette è generosa senza misura: il generale chiede un secondo bicchiere di Clos Vougeot e lei invita il giovane cameriere: «Lasciagli l’intera bottiglia!».
I commensali si erano seduti a tavola sospettosi e pieni di reciproci rancori. Dopo il pasto sono trasformati: i loro volti sono sereni e si scambiano il perdono. Gli sguardi si incontrano senza amarezza, le mani si intrecciano, ci si riconcilia con il proprio passato. La comunità ritrova attorno alla mensa la comunione e l’armonia: chiamiamo abitualmente il banchetto eucaristico “comunione”, proprio perché ci fa crescere in questa dimensione, verso il Signore e i fratelli, così come accade agli ospiti di Babette. La celebrazione Eucaristica è vera quando è vissuta disponendoci interiormente alla comunione autentica e lasciando che essa si accresca fra tutti coloro che vi partecipano. Quanti ci nutriamo di Eucaristia siamo chiamati ad essere segno credibile di comunione: «da questo tutti sapranno che siete miei discepoli»
(Gv 13,35).

[email protected] (tratto dal sito delle Suore Paoline)

Nel dono di sé che Babette compie imbandendo una cena squisita, quali significati possiamo richiamare? Si può riconoscere, in filigrana, l’offerta di Gesù nell’ultima cena?


Quali sono i dettagli che caratterizzano lo stile di Babette a servizio presso Martina e Filippa?


Quali aspetti evidenzia il regista, durante e dopo la cena, per sottolineare il cambiamento interiore dei membri della comunità?
view post Posted: 23/3/2015, 18:55 Letture francescane - Testi tosti
Giovedì dopo le Ceneri
Una bellissima vergine aveva cinque fratelli e tutti erano molto poveri; ed essa aveva una pietra preziosa di grande valore. Di questi suoi fratelli uno era citaredo, un altro pittore, un altro cuoco, un altro speziale e un altro ruffiano. Venne dunque il primo a sua sorella e le disse: “Tu vedi che io sono povero; ti prego di darmi la tua pietra preziosa”. Ma essa rispose: “Non te la voglio dare, perché la voglio per me”. Ed egli: “Voglio comprartela”. Ed ella rispose: “Che cosa mi vuoi dare?”. Ed egli: “Ti farò un bellissimo suono con il mio strumento”. Allora ella a lui: “Che cosa farò poi, passato il suono? Di che vivrò io? Non te la darò per tal prezzo. Anzi voglio, grazie ad essa, sposarmi e vivere onestamente e onoratamente”.
Poi venne il secondo, chiedendo similmente a lei la pietra; e, negandola ella, disse di volerla comprare, offrendo come prezzo una pittura. Il terzo poi offriva come prezzo un pasticcio. Il quarto una buona spezieria. Il quinto diceva che l’avrebbe condotta per i lupanari. Nello stesso modo si comportarono tutti, prima chiedendo in dono, poi offrendo i detti prezzi, ed essa nello stesso modo rispose a tutti, e come buona e sapiente li lasciò andar via tutti e conservò per sé la pietra preziosa. Dopo ciò venne a lei un re magnifico e le chiese la pietra. Ed ella rispose: “Non ho altro che questa pietra. Che cosa me ne darai?”. Rispose il re: “Per questa pietra ti prenderò come mia sposa e ti farò grande regina e ti darò la vita eterna e abbondanza di tutti i beni che la tua anima ha desiderati”. Ed ella: “Signore, è tanta la vostra magnificanza, che non posso negarvi la pietra: volentierissimo ve la dono”. E gliela diede. Questa vergine è l’anima, la pietra che ha, è la volontà, o consenso del libero arbitrio. I cinque fratelli sono i cinque sensi del corpo: il primo, che è citaredo, è l’udito; il secondo, che è pittore, è la vista; il terzo, che è speziale, è l’odorato; il quarto, che cuoco, è il gusto; il quinto, che è ruffiano, è il tatto e poiché in esso ha più forza la sensualità, più per esso si abbassa l’anima ad opera illecita.
Come dunque sarebbe stata stoltissima quella vergine, se per qualcuno di quei prezzi tanto vili avesse dato una pietra preziosa, così senza paragone stoltissima è l’anima che si lascia condurre a qualche consenso illecito da qualche senso del corpo; ma piuttosto deve astenersi con ogni sforzo da quel piccolo diletto che potrebbe ricevere attraverso i sensi del corpo, e conservare il suo consenso, costanza e virtù con grande gratitudine al sommo Re, che l’ha fatta sua sposa e l’ha resa così grande. (fra Jacopone da Todi)

Venerdì dopo le Ceneri
Ogni anima che possiede la fede può vedere e conocere quanto sia piccola e modesta la mortificazione rispetto alla colpa umana e alla pena meritata, e a confronto del premio sperato e della gloria promessa. La nostra colpa fu ed è infinita, come infinita è la maestà di Dio offesa, per cui il castigo deve corrispondere alla colpa. Ma la maestà divina, volendo richiamare l’anima alla sua misericordia, riduce la pena infinita, dicendole: «Fa’ penitenza, così che tu possa giungere fino a me; fanne tanta quanto io, Figlio di Dio, ne feci in questo mondo per salvarti. Allora cancellerò le tue offese, perdonerò le tue colpe e ti libererò da ogni pena». Si tratta di un patto di incomparabile importanza che la bontà di Dio stringe con l’anima: «Tu non devi fare altro per me, se non quello che io ho fatto per te. Però non sei tu che soffri per la mia colpa, ma sono io che soffro per la tua: io senza speranza di ricevere da te alcun bene, tu con la speranza di avere da me un bene infinito». Se vuoi conoscere la piccola, modesta e limitata mortificazione che Dio vuole da te, o anima, ti dirò: «Tanta egli ne chiede quanta facilmente ne puoi fare. E vuole che questa tua mortificazione duri finché tu viva sulla terra, non di più. Se vivi un’ora, fa’ penitenza un’ora; se vivi di più, fanne di più, perché Dio vuole giustamente che tu ti mortifichi tanto quanto vivi, non di più». L’esempio, il modo e la forma della penitenza dell’anima sono insegnati veramente e perfettamente dalla stessa vita di Cristo, dalla sua mortificazione e dalla compagnia che egli si scelse durante tutta l’esistenza terrena. Infatti, dall’istante in cui l’anima di Cristo fu creata e infusa nel sacro corpo, in seno alla sua santissima Madre, fino all’ultimo momento in cui quell’anima uscì dal corpo per la spietata morte di croce, mai si staccò da quella compagnia: una compagnia che non gli mancò mai in questo mondo, ciò che non accadde invece agli apostoli, né ad alcuno dei suoi discepoli. Quale fu questa compagnia così fedelmente vicina a lui, così costante, così piena d’amore? Credo che si tratti appunto di quella che Dio Padre volle che il Figlio avesse nel corso di tutta la sua vita, la compagnia cioè della perfetta, perseverante e somma povertà, la compagnia del perfetto, permanente e sommo disprezzo e la compagnia del perfetto, ininterrotto, altissimo dolore. Questa fu la compagnia da cui Cristo fu sempre seguito nella sua continua penitenza; una mortificazione che durò proprio in tutta la sua vita nel mondo; per essa egli salì al cielo nella sua umanità. Sulla stessa strada l’anima può e deve camminare verso Dio e in Dio e al di fuori di essa non ce n’è un’altra. Bisogna infatti che la via percorsa dal Capo, sia percorsa anche dalle membra e che la compagnia che seguì lui, accompagni anche le sue membra (S. Angela da Foligno)

Sabato dopo le Ceneri
Vi è un tempo in cui la grazia domina l’anima e un tempo in cui l’anima domina la grazia. La grazia domina l’anima, quando l’anima è molto avida di cercare consolazioni e doni e così via. Invece l’anima domina la grazia, allorché viene in tanta libertà che non si cura di tali cose. Poiché, considerandosi fatta ad immagine di Dio, creatore di tutte le cose, non si contenta di nessuna creatura, non solo di quei doni e sentimenti, che sono creature, ma neppure degli angeli o dei santi, per trasferirsi con purezza nel Creatore stesso. E con tanta confidenza allora gioca con Dio, che quando vuole, riceve i doni offertile, e quando non vuole, li disprezza e respinge e cerca solo lui. E per questo viene a tanto amore, che poi ama dieci volte di più di prima non solo gli angeli e i santi, ma anche qualsiasi piccola creatura, e abbraccerebbe e bacerebbe con tutti i visceri tutte le creature anche insensibili, non per esse, ma per amore del Creatore, che vede in ogni creatura.
Duplice è il rinnegamento, cioè corporale e spirituale. Rinnegamento corporale è il disprezzare per Dio tutte le cose che sono del mondo, cioè tutte le cose corporali. Rinnegamento spirituale è il disprezzare tutte le cose spirituali, cioè le consolazioni proprie e il sentire, anche questo per Dio. È ciò fa l’anima quando con purezza ama Dio. Vi è infatti un tempo in cui l’anima ama Dio per se stessa, cioè per la dolcezza che ne prende, e per le consolazioni che ne riceve, e perciò lo cerca. Infatti tali consolazioni e doni sono nell’anima come un mondo spirituale, che essa molto ama. E vi è un tempo in cui l’anima ama Dio con purezza e allora si rinnega in tutte queste cose e disprezza tutto, per far con purezza e interamente la sua volontà e per amare con purezza lui per se stesso, perché è buono, anche se non riceve nessun compenso nella vita presente e nella futura (fra Jacopone da Todi).

Lunedì I settimana di Quaresima
Ero tutta protesa nella volontà di liberarmi da ogni altro pensiero, per meditare con assoluto raccoglimento la passione e la morte di Cristo. E mentre me ne stavo così, all’improvviso sentii una voce che mi disse: «Non ti ho amato per scherzo». Queste parole mi colpirono come una ferita di dolore e subito gli occhi della mia anima si aprirono e compresi com’erano vere quelle parole e vidi quanto aveva fatto il Figlio di Dio per manifestarmi il suo amore. Scorgevo tutte le prove che questo Dio-uomo sofferente aveva sostenuto in vita e in morte per quel suo indicibile e smisurato amore. E vedendo in lui tutti i segni del vero amore, comprendevo anche l’assoluta verità di quelle parole, poiché Gesù mi amò non per scherzo [inganno], ma con amore perfetto e totale. Dall’altra parte vedevo che in me c’era tutto il contrario, perché non lo amavo che per scherzo e con poca verità. E questa constatazione mi era divenuta una pena mortale, così intollerabile che mi pareva proprio di morire. Poi mi furono dette altre parole che aumentarono ancora di più il mio dolore.
Dopo quel “non ti ho amato per scherzo” che mi fece capire che l’affermazione era vera per lui, ma non per me, tanto da restare afflitta quasi da morirne, egli aggiunse: «Non ti ho servita per simulazione»; poi: «Non ti ho conosciuta standomene lontano». In quel momento — ricordo — la mia pena e il mio dolore raggiunsero il massimo e la mia anima gridò: «Maestro, quanto dici che in te non si trova è invece tutto in me, poiché io non ho saputo amarti che per scherzo e con finzione, e mai ho voluto avvicinarmi a te nella verità, per sentire un po’ dei dolori che tu hai sofferto e sopportato per me, e mai ti ho servito se non per simulazione e non veracemente». Vedevo che mi aveva amato con verità, scorgevo in lui tutti i segni e le opere dell’amore vero: come si era immolato totalmente per servirmi, come si era avvicinato a me fino a farsi uomo per portare veramente sulle sue spalle i miei dolori. E riconoscevo che in me era avvenuto tutto l’opposto, tanto che per la pena di questo, mi pareva di morire, e per un simile dolore sentivo che le costole del petto si disgiungevano e mi sembrava che il cuore stesse per spaccarsi in due. Mentre ripensavo a quelle sue parole: «Non ti ho conosciuta standomene lontano», egli disse: «Sono più intimo alla tua anima di quanto la tua anima non lo sia a se stessa». Ma ciò accresceva il mio dolore, perché, quanto più vedevo che egli era diventato intimo a me, tanto più non potevo non riconoscere che io me ne ero rimasta lontana da lui. Poi aggiunse altre espressioni che mi manifestarono il suo immenso amore. E disse: «Se ci fosse qualcuno che volesse sentirmi nella sua anima, non mi sottrarrei; e se ci fosse qualcuno che volesse vedermi, gli concederei con gioia di potermi vedere; e se ci fosse qualcuno che volesse parlare con me, con grande letizia gli parlerei». Tali parole suscitarono il desiderio di non voler sentire, né vedere, né parlare di cosa alcuna nella quale potesse esserci offesa a Dio. Ed è questo che Dio chiede in modo speciale ai suoi figli: poiché sono stati chiamati da lui ed eletti a vederlo, sentirlo e parlargli, esige che si guardino da tutte quelle cose che sono contrarie a questo. (S. Angela da Foligno)


Martedì I settimana di Quaresima
Miei figlioli, padri e fratelli, - ci disse la Beata Angela - cercate di amarvi a vicenda e di avere veramente l’amore divino, perché attraverso l’amore reciproco l’anima merita in eredità i beni celesti. Io non faccio altro testamento che quello di raccomandarvi l’amore vicendevole e vi lascio tutta la mia eredità, cioè la vita di Cristo, vale a dire la povertà, il dolore e il disprezzo».
Poi impose le mani sul capo di ciascuno, proseguendo: «Siate benedetti da Dio e da me, figlioli miei, voi e tutti gli altri che non sono presenti. Come mi è stata manifestata e indicata da Cristo questa benedizione eterna, così la concedo e la do con tutto il cuore a voi presenti e anche assenti. Cristo stesso ve la impartisce con la mano trafitta dai chiodi sulla croce. Coloro che avranno questa eredità, cioè la vita di Cristo, e saranno veri figli della preghiera, senza dubbio avranno in eredità la vita eterna.
In ciò che affermo, io non c’entro, ma è tutta opera di Dio. Infatti, piacque alla divina bontà di darmi la preoccupazione e la cura dei suoi figli e delle sue figlie che sono nel mondo [...]. Io li ho custoditi, per loro mi sono addolorata e le mie sofferenze sono state più di quante ne conoscete.
O mio Dio, ora li consegno a te, perché tu li custodisca e difenda da ogni male. Voi, figlioli miei, cercate di avere l’amore per tutti gli uomini, perché veramente la mia anima ha ricevuto più da Dio quando ho pianto e provato dolore con tutto il cuore per i peccati del prossimo, che quando ho versato lacrime per i miei. Davvero non c’è amore più grande sulla terra che provare dolore per i peccati del prossimo.
Il mondo si burla di questo, perché il fatto che uno possa addolorarsi e piangere per i peccati del prossimo come o più che per i suoi sembra essere contro natura, ma l’amore che lo fa fare non è di questo mondo.
Figlioli miei, cercate di avere questo amore e non giudicate nessuno, anche se lo vedete peccare mortalmente. Non dico che non vi deve dispiacere il peccato e che non dovete abolirlo, ma solo che non dovete emettere giudizi nei confronti di quelli che peccano, perché non conoscete i giudizi di Dio...
Sono in grado di affermare che per alcuni, che avete disprezzato e che vanno rovinando le opere buone iniziate, ho sicura speranza che Dio li ricondurrà sulla sua strada». (Il Libro, Istruzione XXXVI)

Mercoledì I settimana di Quaresima
- Le strade per le quali l’Amico cerca il suo Amato sono lunghe, pericolose, cosparse di meditazioni, sospiri e pianti, e illuminate dall’amore (Beato Raimondo Lullo, 2).
- Chiesero all’Amico dov’era il suo Amato. Rispose: Lo troverete nella dimora più nobile tra tutte le cose nobili create; lo troverete nel mio amore, nei miei desideri e nei miei pianti (RL, 24).
- Dissero all’Amico: Dove vai? Vado dal mio Amato. Da dove vieni? Vengo dal mio Amato. Quando tornerai? Starò con il mio Amato. Quando starai con il tuo Amato? Fino a quando staranno in lui i miei pensieri” (RL, 25).
- Le strade dell’amore sono lunghe e brevi perchè l’amore è limpido, puro, trasparente, vero, accorto, semplice, forte, perseverante, luminoso, traboccante di pensieri nuovi e di antichi ricordi (RL, 70)
- Dimmi, folle Amico: se il tuo Amato non t’amasse più, che cosa faresti? Rispose che amerebbe per non morire, poiché non amare è morte e l’amore è vita.
- L’Amico diceva al suo Amato: Tu sei tutto, per tutto, in tutto e con tutto. Tutto io ti voglio, perché io ti abbia e sia tutto me. Rispose l’Amato: Non puoi avermi tutto, se tu non sei mio. E l’Amico disse: Possiedimi tutto, e che io ti abbia tutto. Rispose l’Amato: E che avrà tuo figlio, tuo fratello e tuo padre? Disse l’Amico: Talmente tutto tu sei, che puoi essere tutto per chiunque si offre tutto a te (RL, 68).
- Chiesero all’Amico quali erano i frutti dell’amore. Rispose: Gioie, meditazioni, desideri, sospiri, ansie, tribolazioni, pericoli, tormenti, pene. Senza questi frutti, l’amore non si lascia toccare dai suoi servitori (RL 71)

Giovedì I settimana di Quaresima
Ecco Gesù di nuovo di fronte a Pilato. Con sfrontatezza e testardaggine oltre misura, continuano a martellarlo d’accuse. Ma Pilato, che non trova un capo d’accusa sufficiente per condannarlo a morte, cerca di rimetterlo in libertà. Dice pertanto: «Gli darò una lezione, e poi lo libererò».
O Pilato! Pilato! Tu dai una punizione al tuo Signore? Ma tu agisci da incosciente, perché non merita né morte né staffilate! Faresti meglio, come lui vorrebbe, a cambiar vita tu!
Ordina pertanto che venga flagellato. E Gesù viene spogliato, legato a una colonna e crudelmente flagellato. E’ lì piedi, nudo di fronte a tutti, giovane dal corpo armonioso e riservato, lui, il più bello degli uomini. Quella sua carne innocente, delicata, pura e bella oltre ogni dire viene segna da violenti e lancinanti colpi di frusta da parte di due sporchi delinquenti. Il fiore più bello di ogni carne e di tutta la specie umana viene coperto di lividi e di ferite. Ogni parte del suo corpo schizza tutt’intorno sangue vivo. Le frestate piovono, a ripetizione; livido si aggiunge a livido, lacerazione a lacerazione. Finché tutti quanti, boia e spettatori ormai stanchi, si dà ordine di slegarlo.
Si avvera così quanto aveva detto Isaia: «L’abbiamo visto: non aveva più alcuna bellezza e l’abbiamo preso quasi per un lebbroso che Dio aveva umiliato».
Gesù, mio Signore, chi è stato quello sfacciato temerario che ti ha spogliato? Chi sono stati quegli sfacciatissimi che ti hanno legato? E quelli più temerari ancora che ti hanno flagellato con tanta violenza? È che tu, Sole di giustizia, non li hai più illuminati con i tuoi raggi, e loro sono stati ridotti a tenebra, col potere delle tenebre. Tutti sono più potenti di te!
Il Signore, slegato dalla colonna, nudo com’è e lacerato nella carne, viene trascinato per casa a raccattare i vestiti buttati qua e là da chi lo aveva spogliato. Osservalo bene mentre sfinito trema dal freddo.
Mentre Gesù sta per rivestirsi qualcuno dei più perfidi va da Pilato a dirgli: «Eccellenza, costui s’è fatto re, e allora vestiamolo noi e incoroniamolo come un re». Prendono di fatto un mantello di seta rossa e glielo mettono addosso, e lo incoronano con un fascio di spini. Gesù si lascia vestire di porpora, porta sul capo quella corona di spini, tiene in mano la canna; e mentre quelli lo salutano come un re inginocchiandosi, non apre bocca. E’ la pazienza fatta silenzio. (Giovanni de Caulibus)

Venerdì I settimana di Quaresima
Abbiamo bisogno di te, di te solo, e di nessun altro. Tu solamente, che ci ami, puoi sentire per noi tutti che soffriamo la pietà che ciascun di noi sente per sè stesso. Tu solo puoi sentire quanto è grande, immisurabilmente grande, il bisogno che c’è di te, in questo mondo, in questa ora del mondo. Nessun altro, nessuno dei tanti che vivono, nessuno di quelli che dormono nella mota della gloria, può dare, a noi bisognosi, riversi nell’atroce penuria, nella miseria più tremenda di tutte, quella dell’anima, il bene che salva. Tutti hanno bisogno di te, anche quelli che non lo sanno, e quelli che non lo sanno assai più di quelli che sanno. L’affamato s’immagina di cercare il pane e ha fame di te; l’assetato crede di voler l’acqua e ha sete di te; il malato s’illude di agognare la salute e il suo male è l’assenza di te. Chi ricerca la bellezza nel mondo cerca, senza accorgersene, te che sei la bellezza intera e perfetta; chi persegue nei pensieri la verità, desidera, senza volere, te che sei l’unica verità degna d’esser saputa ; e chi s’affanna dietro la pace cerca te, sola pace dove possono riposare i cuori più inquieti. Essi ti chiamano senza sapere che ti chiamano e il loro grido è inesprimibilmente più doloroso del nostro. Noi non gridiamo verso di te per la vanità di poterti vedere come ti videro Galilei e Giudei, né per la gioia di guardare una volta i tuoi occhi, né per l’orgoglio matto di vincerti colla nostra supplicazione. Non chiediamo, noi, la grande discesa nella gloria dei cieli, né il fulgore della Trasfigurazione, né gli squilli degli angeli e tutta la sublime liturgia dell’ultima Venuta. C’è tanta umiltà, tu lo sai, nella nostra irrompente tracotanza! Noi vogliamo soltanto te, la tua persona, il tuo povero corpo trivellato e ferito, colla sua povera camicia d’operaio povero; vogliamo veder quegli occhi che passano la parete del petto e la carne del cuore, e guariscono quando feriscono collo sdegno, e fanno sanguinare quando guardano con tenerezza. E vogliamo udire la tua voce che sbigottisce i demoni da quanto è dolce e incanta i bambini da quanto è forte. Tu sai quanto sia grande, proprio in questo tempo, il bisogno del tuo sguardo e della tua parola. Tu lo sai bene che un tuo sguardo può stravolgere e mutare le nostre anime, che la tua voce ci può trarre dallo stabbio della nostra infinita miseria ; tu sai meglio di noi, tanto più profondamente di noi, che la tua presenza è urgente e indifferibile in questa età che non ti conosce. Sei venuto, la prima volta, per salvare ; nascesti per salvare parlasti per salvare; ti facesti crocifiggere per salvare la tua arte, la tua opera, la tua missione, la tua vita è di salvare. E noi abbiamo, oggi, in questi giorni grigi e maligni, in questi anni che sono un condensamento, un accrescimento incomportabile d’orrore e dolore, abbiamo bisogno, senza ritardi, d’esser salvati ! Se tu fossi un Dio geloso e acrimonioso, un Dio che tiene il rancore, un Dio vendicativo, un Dio solamente giusto, allora non daresti ascolto alla nostra preghiera. Perché tutto quello che gli uomini potevan farti di male, anche dopo la tua morte, e più dopo la morte che in vita, gli uomini l’hanno fatto; noi tutti, quello stesso che ti parla insieme agli altri, l’abbiamo fatto. Milioni di Giuda ti hanno baciato dopo averti venduto, e non per trenta denari soli, e neppure una volta sola; legioni di Farisei, sciami di Caifa ti hanno sentenziato malfattore, degno d’esse rinchiodato; e milioni di volte, col pensiero e la volontà ti hanno crocifisso; e migliaia di Pilati, vestiti di nero o di vermiglio, usciti appena dal bagno, profumati d’unguenti, ben pettinati e rasati, ti hanno consegnato migliaia di volte agl’ impiccatori dopo averti riconosciuto innocente. Ma tu hai perdonato tutto e sempre. (Giovanni Papini)

Sabato I settimana di Quaresima
Gesu, oggi i più degli uomini non vogliono, non sanno trovarti. Se non fai sentire la tua mano sopra il loro capo e la tua voce nei loro cuori seguiteranno a cercare solamente sé stessi, senza trovarsi, perché nessuno si possiede se non ti possiede. Noi ti preghiamo dunque, Cristo, noi, i rinnegatori, i colpevoli, i nati fuori di tempo, noi che ci rammentiamo ancora di te, e ci sforziamo di viver con te, ma sempre troppo lontani da te, noi, gli ultimi, i disperati, i reduci dai precipizi, noi ti preghiamo che tu ritorni ancora una volta fra gli uomini che ti uccisero, fra gli uomini che seguitano a ucciderti, per ridare a tutti noi, assassini nel buio, la luce della vita vera. Più d’una volta sei apparso, dopo la Resurrezione, ai viventi. A quelli che credevan d’odiarti, a quelli che ti avrebbero amato anche se tu non fossi figliolo di Dio, hai mostrato il tuo viso ed hai parlato con la tua voce. Gli asceti nascosti tra le ripe e le sabbie, i monaci nelle lunghe notti dei cenobi, i santi sulle montagne, ti videro e ti udirono e da quel giorno non chiesero che la grazia della morte per riunirsi con te. Tu eri luce e parola sulla strada di Paolo, fuoco e sangue nello speco di Francesco, amore disperato e perfetto nelle celle di Caterina e di Teresa. Se tornasti per uno perché non torni, una volta, per tutti ? Se quelli meritavano di vederti per i diritti dell’appassionata speranza, noi possiamo invocare i diritti della nostra deserta disperazione. Quell’anime ti evocarono col potere dell’ innocenza ; le nostre ti chiamano dal fondo della debolezza e dell’avvilimento. Se appagasti l’estasi dei Santi perché non dovresti accorrere al pianto dei Dannati? Non dicesti d’esser venuto per gli infermi e non per i sani, per quello che si è perduto e non per quelli che sono rimasti ? Ed ecco tu vedi che tutti gli uomini sono appestati e febbricitanti e che ognuno di noi cercando sé, s’è smarrito e ti ha perso. Mai come oggi il tuo Messaggio è stato necessario e mai come oggi fu dimenticato o spregiato. Il Regno di Satana è giunto ormai alla piena maturazione e la salvezza che tutti cercano brancolando non può esser che nel tuo Regno. La grande esperienza volge alla fine. Gli uomini, allontanandosi dall’Evangelo, hanno trovato la desolazione e la morte. Più d’una promessa e d’una minaccia s’è avverata. Ormai non abbiamo, noi disperati, che la speranza d’un tuo ritorno. Noi, gli Ultimi, ti aspettiamo, Ti aspetteremo, ogni giorno, a dispetto della nostra indegnità e d’ogni impossibile. E tutto l’amore che potremo torchiare dai nostri cuori devastati sarà per te, Crocifisso, che fosti tormentato per amor nostro e ora ci tormenti con tutta la potenza del tuo implacabile amore (Giovanni Papini)

Lunedì II settimana di Quaresima
Scriverò solo qualche parola, così come essa mi esce dal cuore. Scrivo con le mani legate, ma è meglio così che se fosse incatenata la volontà. Talvolta Dio ci mostra apertamente la sua forza, che Egli dona agli uomini che lo amano e non preferiscono la terra al cielo. Né il carcere, né le catene e neppure la morte possono separare un uomo dall’amore di Dio e rubargli la sua libera volontà. La potenza di Dio è invincibile.
«Siate ubbidienti e sottomettetevi alle autorità»: queste parole vi arrivano oggi da ogni parte, anche da persone che non credono quasi per nulla in Dio e alle Sacre scritture. Se ci si dedicasse con la stessa assiduità con cui si è tentato di salvarmi dalla morte terrena a mettere in guardia ciascun uomo contro il peccato mortale, e perciò contro la morte eterna, ci sarebbe davvero già il paradiso in terra. C’è sempre chi tenta di opprimerti la coscienza ricordandoti la sposa e i figli. Forse le azioni che si compiono diventano giuste solo perché si è sposati e si hanno figli? O forse l’azione è migliore o peggiore solo perché la compiono anche altre migliaia di cattolici? Forse anche fumare è diventato una virtù perché lo fanno migliaia di cattolici? Si può allora anche mentire perché abbiamo moglie e figli e per di più giustificarsi attraverso un giuramento? Cristo stesso non ha forse detto: “Chi ama la moglie, la madre e i figli più di me non è degno di me”? Per quale motivo preghiamo Dio e i sette doni dello Spirito santo, se dobbiamo comunque prestare in ogni caso cieca obbedienza? A che pro Dio ha fornito agli uomini un intelletto e una libera volontà se non ci è neppure concesso, come alcuni dicono, di giudicare se questa guerra che la Germania sta conducendo sia giusta o ingiusta? A cosa serve allora saper distinguere tra bene e male? Io credo che si possa anche prestare cieca obbedienza, ma solo se così facendo non si danneggia nessuno. Se al giorno d’oggi gli uomini fossero un po’ più sinceri ci dovrebbe essere, credo, anche qualche cattolico che dice: “Sì, mi rendo conto che quello che stiamo compiendo non è bene, tuttavia non mi sento ancora pronto a morire”. Se Dio non mi avesse dato la grazia e la forza di morire, se necessario, per difendere la mia fede, forse farei semplicemente ciò che fa la maggior parte della gente. Dio può infatti concedere la propria grazia a ciascuno come Egli vuole. Se altri avessero ricevuto le molte grazie che ho ricevuto io, forse avrebbero fatto cose molto migliori di me.
Un santo disse: “Anche se una sola menzogna detta per adeguarsi alle circostanze permettesse di spegnere tutto il fuoco dell’inferno, non bisognerebbe dirla perché mentendo, anche per necessità, si offende Dio”. Qualcuno potrà pensare che simili considerazioni nel XX secolo possono sembrare ridicole. Sì, è vero, noi uomini siamo cambiati in molte cose, ma Dio non ha tolto uno iota dai suoi comandamenti. Perché poi si vuole sempre cercare di rimandare la morte, come se non si sapesse che prima o poi dovrà arrivare? Forse i nostri santi si sono comportati così? Non credo proprio. O forse dubitiamo della misericordia di Dio, come se potesse davvero aspettarci l’inferno dopo la nostra morte. In realtà me lo sarei meritato, con i miei numerosi e gravi peccati, ma Cristo non è venuto nel mondo per i giusti, bensì per cercare ciò che era smarrito.
Se un nostro buon amico ci proponesse un lungo viaggio di piacere, naturalmente gratis e con trattamento di prima classe, cercheremmo di rimandarlo continuamente o addirittura lo terremmo in serbo per la vecchiaia? Non credo proprio. E cos’è dunque la morte: non si tratta anche in questo caso di un lungo viaggio che dovremo fare, anche se da questo non ritorneremo? Ma può esservi un momento più gioioso di quello nel quale ci accorgeremo di essere felicemente approdati sulle rive del paradiso? Naturalmente non dobbiamo dimenticare che prima ci dovremo purificare nel purgatorio, ma esso non dura in eterno e chi in vita si è sforzato di aiutare con le proprie preghiere le povere anime dei morti ed è stato devoto alla Madre di Cristo può essere sicuro di non doverci stare a lungo. Si potrebbe quasi svenire nel pensare alle gioie eterne del cielo! Come ci rende subito felici una piccola gioia che proviamo in questo mondo! Eppure che cosa sono le brevi gioie terrene rispetto a quelle che Gesù ci ha promesso nel suo regno? Nessun occhio ha mai visto, nessun orecchio ha mai udito e nessun cuore d’uomo ha mai conosciuto ciò che Dio ha preparato per coloro che lo amano.
Se dunque le gioie del Cielo sono così grandi, non dobbiamo disprezzare tutti i piaceri di questa terra? (beato Franz Jägerstätter, terziario francescano)

Martedì II settimana di Quaresima
Tre cose nella vita sono le più alte e le più utili. La prima è se sopporti in pace, con l’aiuto di Dio, ogni guaio che ti capita. L’altra, se di ogni cosa che fai e ricevi tu senti più che altro una maggiore umiltà. L’ultima, se mantieni in cuore la fedeltà a quei beni che l’occhio umano non può vedere.
Le cose più sbeffate e trascurate dalla gente del mondo, quelle sono tenute in grande onore da Dio e dai suoi santi. Le cose che più sono amate, abbracciate, riverite dalla gente del mondo, quelle sono più odiate, trascurate, sprezzate da Dio e dai suoi santi. La gente odia tutto ciò che deve essere amato e ama tutto ciò che deve essere odiato.
Che danno può fare un breve male a chi aspetta con certezza un bene grande ed eterno? E che cosa serve un breve bene a chi si deve aspettare un grande e interminabile male?
Tutti i sapienti e i santi antichi, di questo tempo e di quello a venire, hanno parlato o parleranno di Dio. Tuttavia non hanno detto né diranno mai di lui, a paragone di ciò che è veramente, se non quanto è la punta di un ago a paragone del cielo e della terra e di tutte le creature che sono contenute in essi. Difatti tutta la sacra Scrittura parla a noi quasi con rotte voci infantili, come fa la madre col bambino, perché questi non sa intendere in altro modo le parole.
Un peccatore non deve mai disperare della misericordia di Dio, fin tanto che vive. Non si trova quasi un tronco così ruvido e nocchieruto che gli uomini non lo possano sgrossare, spianare e lavorare. Molto più non esiste nel mondo un così gran peccatore che Dio non lo possa ornare di grazia e di virtù.
Quanto più uno godrà del bene del prossimo, tanto più ne sarà a parte. Se vuoi perciò essere a parte del bene di tutti, rallegrati del bene di tutti. Questa è una via di salvezza: rallegrarsi del bene del prossimo e dolersi del suo male, pensare degli altri bene e male di sé, onorare gli altri e disprezzare se stessi.
Guarda come i buffoni e i giocolieri esaltano in modi sperticati i signori che regalano a loro qualche straccio d’abito. E che cosa non dovremmo fare noi verso il Signore Dio nostro? Dovresti essere molto fedele ad amare Colui che ti vuole liberare da ogni male e ricolmare di ogni bene.
(Beato Egidio da Assisi)








Mercoledì II settimana di Quaresima
Il leone udì una volta che i frati avevano fatto capitolo e in esso si accusavano peccatori delle colpe commesse. Dice il leone: Oh! Se i frati fanno tale capitolo davanti al superiore, questo devono fare anche tutti gli animali davanti a me. E subito fece venire tutti gli animali davanti a sé. Si sedette. Fece sedere e cominciò: Noi non dobbiamo essere peggiori dei frati; perciò voglio che ciascuno dica a me i suoi peccati. Fu detto all’asino d’andare per primo. L’asino andò davanti al leone, si inginocchiò e disse: Misericordia! Gli dice il leone: Che hai fatto di male? Dillo! Dice l’asino: Messere il mio padrone mi carica troppo ed è tirchio; perciò spesso, a sua insaputa, gli mangio il fieno, che mi fa portare. Sentenzia il leone: Male! Sei un ladro! Caricatelo di bastonate! E così fu fatto. Dietro l’asino andò la volpe. Lamenta: Io con furbizia entro nel pollaio e rubo galline. Sentenzia il leone: Oh! Quanti scrupoli che hai! E’ naturale per una volpe fare questo! Questo non è peccato! Partita costei, vi andò il lupo: Signor mio, leone, io sbrano le pecore! Gli dice il leone: E’ naturale! Non darti pena! Continua pure così! E così, partito il lupo, vi andò la pecora, col capo basso, piangendo: Beh! Beh! Dice il leone: Che hai fatto, ipocrita? Ella risponde: Messer leone, spesso passando per strada, ho brucato l’erba sui cigli dei campi altrui, soprattutto se tenera. Allora sentenzia il leone: O maledetta ladra! Sei stata capace di così grande peccato! Vai dicendo: Beh! Beh! e intanto rubi per strada! Bastonatela per bene e lasciatela tre giorni senza mangiare!
Capito la morale? Quando sarà uno cattivo lupo o una volpe a far qualcosa, si copre, si copre, affinché non si vegga, come fa la gatta. Ma se è la pecoruccia o la capra a sbagliare, cioè la vedova, o un povaretto che dica o faccia una piccola cosa, eccolo bastonato e derubato così che non gli rimane nulla. Lupo e lupo non si mangiano insieme, ma mangiano l’altrui carne. E perciò vi dico: O tu che governi, non bastonare l’asino e la pecora per una piccola cosa, e non perdonare il lupo e la volpe per il grande errore. Che devi fare? Tèmpera il liuto con discrezione, discernendo difetto da difetto. (San Bernardino da Siena)

Giovedì II settimana di Quaresima
Un santo padre, pratico delle cose del mondo, avendo osservato che in esso non si poteva vivere in nessun modo contro chi voleva detrarre, disse a un suo monachetto: “Figliuolo, vieni con me e prendi il nostro asinello”. Il piccolo monaco ubbidiente prese l’asino. Il santo padre montò su e si avviò mentre il fanciulletto lo seguiva a piedi. Passando tra la gente in una strada molto fangosa, uno dice: “Guarda quanta crudeltà! Lascia andare a piedi quel monacuccio fra tanto fango, ed egli va a cavallo!”. Udita questa parola il santo padre scende e pone il fanciullo in groppa all’asino. “Come” dice un altro “guarda che stranezza: il vecchio va a piedi e lascia andare a cavallo questo fanciulletto che non si cura nè del fango nè della fatica dell’anziano! A parte il fatto che, se volessero, potrebbero andare entrambi su quell’asino”. E allora il santo padre monta su anche lui. “Guarda quei due” osserva ancora un altro “chissà che gran bene vorranno a quell’asino! Finiranno per scorticarlo vivo”. Udito questo, il santo padre smonta, fa scendere il fanciulletto e si avviano entrambi a piedi. “Ma che pazzia è questa di costoro?” dice infine un altro “ma come, hanno un asino e se ne vanno a piedi in mezzo a tanto fango?”. A questo punto il santo padre disse: “Basta, torniamo a casa”. Una volta a casa dice al monaco: “Hai capito, figliolo, la morale di questa novella?”.
“Quale novella?” risponde il fanciullino. E il santo padre: “Non hai visto che in ogni modo noi siamo andati, se n’è detto male? Figliolo mio, impara questo: sappi che chi sta nel mondo facendo quanto bene egli può fare, e si ingegna di farne quanto a lui è possibile, non può fare a meno che non sia detto male di lui. (San Bernardino da Siena)

Venerdì II settimana di Quaresima
I filosofi sbarbatelli dei nostri tempi raccontano, scrivono e stampano moltissime «novità»; anzi, si autodefinisce addirittura «progressista» colui che pronuncia affermazioni tanto «sagge» come: «Dio non esiste», «l’intelligenza dell’uomo è al di sopra di tutto» e via dicendo.
Questo potrebbe sembrare realmente una novità. Invece non lo è affatto. È vecchio quanto il mondo, anzi più vecchio ancora. Ancora non esisteva l’uomo sulla terra e già il ribelle Lucifero affermava: «Salirò in cielo... sarò simile all’Altissimo» (Is 14, 13-14). «Io, dunque, io stesso salirò fino al cielo e sarò... Dio».
La stessa cosa accadde ai nostri progenitori nel paradiso terrestre. Avendo ascoltato dal tentatore la promessa: «Sarete come dei» (Gen 3, 5), si lasciarono sedurre, commisero un peccato di disobbedienza e introdussero l’infelicità nel mondo.
Anche i nostri sapientoni sono convinti, o piuttosto vorrebbero convincersi, di avere, proprio loro, l’aureola della sapienza, perciò sono già dei semidei, se non addirittura dei per intero. L’intelligenza divinizzata, questa nostra intelligenza limitata, si è ritrovata, infatti, perfino su un altare durante la rivoluzione francese, personificata in una donnaccia spudorata. Ma a Dio preferirebbero non pensare, non parlare di Lui; meglio ripetere come degli automi: «Dio non esiste», poiché... se esistesse, beh, allora... bisognerebbe vivere in modo tutto diverso. Dove sta la causa di questa decadenza?
E’ forse immorale e irragionevole lo stesso desiderio di grandezza e l’aspirazione verso di essa? No, poiché ognuno di noi sente in se stesso questo desiderio e tende ad esso in ogni azione che compie. Si tratta, quindi, di un desiderio innato, naturale. La nostra natura è tutta protesa verso un perfezionamento sempre maggiore, verso la grandezza... e addirittura, in un certo senso di questo termine, alla divinizzazione.
Anche i libri sacri esortano espressamente a imitare Dio, a rendersi simili a Dio. In che cosa consiste, dunque, la colpa?
Dio è verità infinita; di conseguenza, non può soffrire la menzogna, la falsità. D’altra parte, però, l’uomo, questa creatura chiamata dal nulla all’esistenza, è di per se stesso un nulla, un nulla assoluto. Perciò, tutto quello che ha e che può lo ha ricevuto da Dio, o piuttosto lo riceve in ogni istante della vita, poiché perdurare nell’essere vuol dire ricevere l’esistenza in ogni istante, a meno che uno non l’abbia da se stesso, come Dio. E tutta la possibilità di progresso e le perfezioni acquisite, tutto questo, tutto senza la minima eccezione, proviene da questa Fonte di esistenza. Ammesso ciò, che figura fa, dunque, quel pazzo che ardisce affermare che continuerà a perfezionarsi da solo, senza l’aiuto di Dio, anzi che raggiungerà il massimo grado di perfezione?!. E quale intelligenza, accorgendosi di essere da se stessa un nulla, di ricevere ogni cosa dal di fuori, può pronunciare la frase: «Dio non esiste»???!!! (San Massimiliano Maria Kolbe)

Sabato II settimana di Quaresima
Una saggia e buona matrona di Roma, la quale essendo rimasta vedova, giovana e ricca, avendo fermo il pensiero di non voler condurre vita disonesta, poiché era giovana e bella, temeva, dicendo in cuor suo: “Io non so se io potrò restare vedova.” E si diceva tra sé: «Se io piglio marito, che si dirà di me? Si dirà che io non sia potuta stare senza.” E pure desiderando nel suo animo di prender marito, volle prima provare la fantasia del popolo, e fece in questo modo. Fece scorticare un cavallo, e disse a uno suo familiare: “Monta su questo cavallo, e va’ per tutta Roma, e poni mente a quello che si fa o si dice di questo cavallo.” Il parente, subito montato a cavallo, va per Roma. Beato colui che poteva correre a vedere questo cavallo scorticato! E così la sera egli tornò a casa. La donna domandò: “Che s’è detto di questo cavallo per Roma?” Egli rispose: “Oh!! tutta Roma correva per vederlo, e ognuno diceva: Che meraviglia è questa? Pareva che fosse beato colui che lo poteva vedere, tanta era la gente!” Costei il giorno dopo ne fece scorticare un altro, e lo diede di nuovo a costui, dicendogli che facesse quello che aveva fatto il giorno prima. Costui andò di nuovo per Roma cavalcando questo cavallo, e non tanta gente corse a vederlo, come aveva fatto con l’altro cavallo. E ritornato la sera, la donna gli domandò come era andata. Egli rispose: “Poca gente è corsa a vederlo rispetto a ieri.”
Di nuovo il dì seguente ne fece scorticare un altro, e similmente mandò questo parente per Roma e quasi nessuno andava a vedere questo cavallo. Tornato la sera a casa, ella domandò: “Che s’è detto per Roma di questo cavallo?” Egli rispose: “Quasi nessuno è venuto a vederlo, e poco si parla di ciò.” Allora la donna disse: “O, io posso pigliar marito; che se pure la gente vorrà parlare di me, parleranno poco tempo, perché alla fine si stancaranno: dopo pochi giorni non vi sarà più nessuno che parli dei fatti miei. E come pensava così fece: prese marito. E come l’ebbe preso, la gente cominciò a dire: “Oh! la tal giovana ha preso marito; ella forse non poteva stare in tal modo”. E questo durò due o tre giorni, e poi non si parlava di lei quasi più. E dico che costei fece molto bene a far questo. (San Bernardino da Siena)










Lunedì III settimana di Quaresima
C’era un frate del nostro ordine, il quale fu valentissimo predicatore, e diceva cose tanto sottili, tanto sottili che era una meraviglia; più sottile che il filato delle vostre figliuole. E questo frate aveva un fratello opposto a lui: tanto grossolano, che era una confusione.
Egli andava a udire le prediche di questo suo fratello, e avvenne che, una volta, avendo udita la predica di questo suo fratello intelligente, egli si mise in cerchio con altri frati, e disse: “Oh, se foste venuti stamattina alla predica di mio fratello!” Costoro risposero: “E che disse?” “Oh! egli disse le più nobili cose che voi avete mai udito.” “Ma dicci quello che disse!” Ed egli: “Disse le più nobili cose del cielo. Perché non siete venuti anche voi?” “Dicci quello che disse!” E costui ancora: “Oh, voi avete perduto la più bella predica che avreste mai potuto udire!” Infine, avendo costui ripetuto questo molte volte, esclamò: “Egli parlò tanto alto che io non ho capito nulla.” Ora dico a voi: bisogna dire e predicare la dottrina di Cristo in modo che ognuno la intenda; bisogna che il nostro dire sia inteso. Sai come? Parlare chiarozzo chiarozzo, affinché chi ascolta se ne vada contento e illuminato, e non imbarbagliato.
C’era poi un santo padre che abitando in una povera celletta in una selva, aveva con sé un giovane frate, il quale non teneva a mente nulla che egli udisse a suo ammaestramento; e per questo non andava a sentire nessuna predica o conferenza. E chiedendogli il motivo per cui non andava alle prediche, egli disse: - Io non tengo a memoria nulla! - . Allora questo santo padre gli disse: - Piglia questa padella - . Aveva lì una padelletta per cuocere il pesce, e gli disse: - Fa bollire quest’acqua e quando l’acqua bolle, mettine un bicchiere in questa padelletta che è tutta unta - . Così fece. – Và, versala fuori, senza strofinarla - . E così fece, e gli disse: - Ora guarda, è così unta com’era prima? - . Disse che era meno unta. Gli disse: - Metti ancora altra acqua e poi versala fuori -. E così fece. Era ancora più pulita. E così fece fare parecchie volte: ogni volta era più netta. E poi gli disse: - Tu dici che non tieni a mente nulla! Sai perché? Perché tu hai la tua mente unta come quella padella - . Và, e mettivi dell’acqua, e subito vedrai se la mente si purificherà. Mettivene ancora di più, e sarà più netta; e quante più volte udirai la parola di Dio, più si purificherà la mente tua, e più potrai udire la parola di Dio, più la tua mente sarà tutta netta e purificata, senza alcuna bruttura.
(San Bernardino da Siena)



Martedì III settimana di Quaresima
La settima arma con la quale possiamo vincere i nostri nemici è la memoria della santa Scrittura, che dobbiamo portare nel nostro cuore e da essa, come da fedelissima madre, trarre consiglio in tutte le cose che dobbiamo fare, così come si legge della prudentissima e sacra vergine santa Cecilia, della quale si dice: «Portava sempre nascosto nel suo seno il Vangelo di Cristo». E con questa arma il nostro salvatore Cristo Gesù vinse e confuse il diavolo nel deserto, dicendo: «Sta scritto». Pertanto, dilettissime sorelle, non lasciate cadere a vuoto le quotidiane lezioni che si leggono in coro e alla mensa; e anche pensate che i Vangeli e le Epistole, che ogni giorno udite nella messa, siano sempre nuove lettere inviate a voi dal vostro celeste Sposo, e con grande e fervente amore riponetele nel vostro petto e, quanto più spesso potete, pensate ad esse, soprattutto quando siete in cella, affinchè meglio e più sicuramente possiate dolcemente e castissimamente abbracciare colui che ve le manda. E così facendo, sarete continuamente consolate, vedendo che così di frequente ricevete notizie da colui che sommamente amate. O quanto è dolce e soave il divino parlare di Cristo Gesù nell’anima di colei che in verità di lui è infiammata! La dottrina evangelica non è la parola che esce proprio dalla bocca di Cristo, dolce come il miele? Certamente sì; dunque, quanto attentamente dovete intenderla e gustarla!
Pongo qui fine alle predette armi; ma di questo vi prego, carissime sorelle, che prudentemente le sappiate usare e mai ve ne troviate prive, affinchè meglio possiate ottenere il trionfo della vittoria contro i vostri avversari. E guardatevi bene che non siate ingannate sotto specie di bene, poiché il diavolo talora appare in sembianza di Cristo o della Vergine Maria o in figura di angelo o di santo. Perciò, in ogni apparizione che accadesse, prendete l’arma della Scrittura, la quale manifesta l’atteggiamento che la madre di Cristo tenne, quando le apparve l’angelo Gabriele, rivolgendosi a lui così: «Che vuol dire il tuo saluto?». E questo tenete anche voi in ogni apparizione e suggestione che capiti, così da voler verificare molto bene se quello è uno spirito buono o cattivo, prima che ad esso si dia ascolto. (Santa Caterina Vigri da Bologna)


Mercoledì III settimana di Quaresima
Il mio gran libro, da cui qui innanzi dovrò attingere con maggior cura ed affetto le divine lezioni di alta sapienza, è il Crocifisso. Mi devo fare un abito di giudicare dei fatti e di tutta la scienza umana alla stregua dei principi di questo gran libro. È troppo facile lasciarmi ingannare dalle vane apparenze e dimenticarmi della vera fonte della verità. Guardando al Crocefisso sentirò sciogliermi tutte le difficoltà, le questioni moderne, teoriche e pratiche, nel campo degli studi. «Cristo è la soluzione di ogni difficoltà».
Se dovessi ricordare tutti i buoni pensieri e sentimenti che il Signore si è compiaciuto farmi concepire e sentire in questi giorni, considerando la passione di Gesù, non mi basterebbe una settimana. Quando il mio amor proprio, approfittandosi di qualche momento di disattenzione, costruirà i suoi castelli in aria, mi vorrà far volare, volare, io mi faccio una legge di pensare sempre a questi tre luoghi: il Getsemani, la casa di Caifas, il Calvario. Il Crocifisso mi deve essere sempre argomento di grande conforto e sollievo nelle mie miserie. Gesù estende le sue braccia sulla croce per abbracciare i peccatori. Quando avrò commesso qualche mancanza o mi sentirò turbato, mi immaginerò di prostrarmi ai piedi della croce, come la Maddalena, e di ricevere sul mio capo quella pioggia di sangue e di acqua che uscì dal cuore ferito del Salvatore. Il Calvario, afferma san Francesco di Sales, è il monte degli amanti, l’accademia della dilezione. Per questo io devo rendermelo familiare assai, anche perché là fu fatta la prima e più solenne apparizione del Sacro Cuore. Oh dolcezza ineffabile! Il mio buon Gesù, morendo, ha chinato il suo capo per baciare i suoi diletti. E noi tante volte diamo baci a Gesù quanti sono i nostri atti di amore. Sant’Agostino, scrive che Longino « Con la lancia, mi aprì il costato di Cristo; vi entrai e là me ne sto al sicuro. Tra le braccia del mio Salvatore desidero vivere e morire; là
canterò le lodi divine» (Sal 30,2). (San Giovanni XXIII)

Giovedì III settimana di Quaresima
La quarta arma è la memoria della gloriosissima peregrinazione di quell’immacolato agnello Cristo Gesù e soprattutto della sua sacratissima morte e passione, portando sempre la presenza della sua castissima e verginale umanità davanti agli occhi dell’intelletto. Questo è ottimo rimedio per vincere ogni battaglia e senza di essa non riporteremo vittoria sui nostri nemici e ogni altra arma poco gioverebbe senza questa che supera tutte le altre.
O passione gloriosissima e rimedio di ogni nostra ferita.
O madre fedelissima, che conduci i tuoi figli al Padre celeste.
O vero e soave rifugio in tutte le avversità.
O nutrice che sostieni e guidi le piccole menti alla somma perfezione.
O specchio rilucente, che illumini chi ti guarda e ricomponi le sue deformità.
O scudo impenetrabile che elegantissimamente difendi chi dietro te si nasconde.
O manna saporita ricolma d’ogni dolcezza, tu sei colei che proteggi i tuoi amanti da ogni mortale veleno.
O scala altissima che innalzi agli infiniti beni chi sopra di te stende il suo volo.
O vero e ristoratore ospizio alle anime pellegrine.
O fonte inesauribile che rinfreschi gli assetati infiammati di te.
O mare abbondantissimo a chi remeggia in te con la barca diritta.
O soavissimo olivo che spandi i tuoi rami per tutto l’universo.
O sposa delicata dell’anima che di te sempre è innamorata e ad altri non guarda.
Perciò in questa, carissime ed amatissime sorelle, esercitatevi infaticabilmente, specchiandovi nel suo radiante splendore, affinchè possiate, per suo tramite, conservare la bellezza delle anime vostre. E veramente la passione è quella sapientissima maestra che condurrà voi, dilettissime novizie, alla bellezza di tutte le virtù e attraverso lei raggiungerete la palma della vittoria. A lode di Cristo. Amen. (Santa Caterina Vigri da Bologna)









Venerdì III settimana di Quaresima
Nessuno può arrivare a conoscere Dio, se non per la strada dell’umiltà. La strada di andare in su è andare in giù. Tutti i pericoli e le grandi cadute che avvennero in questo mondo non avvennero che per orgogliosa alzata di testa. Come appare in quello che fu creato nel cielo, e in Adamo e nel fariseo del Vangelo e in tanti altri. E tutti i grandi e felici avvenimenti che accaddero si compirono per un piegare della testa. Come si dimostra nella beata Vergine, nel pubblicano, nel buon ladrone e altri ancora.
Potessimo portare addosso una macina pesante, che tenesse sempre piegata la nostra testa. Se considerassimo i doni e le grazie di Dio, dovremmo inchinare la testa, e se riguardassimo le nostre colpe, egualmente dovremmo inchinarla. Male è invece gloriarsi della propria cattiveria.
Altro frutto dell’umiltà è restituire le cose degli altri e non farle proprie, e perciò riconoscere che vengono da Dio tutte le cose buone, e da se stessi le cattive.
Beato chi non vuole nelle parole e nel comportamento comparire diverso da quello che la grazia di Dio l’ha fatto. Beato chi sa custodire e nascondere le cose che Dio gli ha rivelato. Beato chi si umilia davanti agli uomini come si è trovato dappoco davanti a Dio. Beato chi da se stesso si giudica in questo mondo, perché non dovrà comparire a quell’altro giudizio. Beato chi va avanti con fedeltà col lume e sotto l’obbedienza di un altro. Ciò fecero anche gli apostoli, dopo che furono ripieni di Spirito Santo. Chi vuole avere pace e serenità faccia conto che ognuno sia migliore di lui.
Rassomiglierei l’umiltà alla folgore. La folgore urta e percuote terribilmente e poi niente se ne trova. Così l’umiltà dissipa ogni male, è nemica di ogni colpa, fa che l’uomo stimi se stesso un niente.
Per la strada dell’umiltà l’uomo ritrova grazia agli occhi di Dio e pace con gli altri uomini. Un gran re che avesse da mandare una figliuola in un certo paese, non la metterebbe sul dorso di un cavallo selvatico, fiero e bizzarro, ma sopra una cavalcatura mansueta e dal passo quieto. Allo stesso modo il Signore non colloca la sua grazia nei superbi, ma negli umili. La mente trova riposo nell’umiltà, e raccoglie il frutto nella pazienza. (Beato Egidio di Assisi)

Sabato III settimana di Quaresima
La memoria, perché si abitui ad occuparsi continuamente di Dio e aderisca a Lui, deve imparare a frequentare e percorrere cinque vie che sono: lectio (lettura), collatio (confronto), medidatio de Deo (meditazione), oratio (orazione, preghiera) e contemplatio (contemplazione).
La lettura e il confronto sono come i semi e la materia di una buona meditazione. Per cui quando preghi e quando mediti avrai davanti le cose su cui la memoria si è fermata nel colloquio o nella lettura e nelle occupazioni, poiché il vaso profuma del liquido che gli hai versato dentro, e nell’orto del tuo cuore cresceranno le erbe a seconda dei semi che vi hai piantato.
La collatio spirituale illumina l’intelletto, infiamma l’affetto, feconda la memoria con la parole dei buoni pensieri; così al contrario la conversazione oziosa fa perdere infruttuosamente tempo, raffredda l’affetto, mette nel cuore pensieri inutili; rode la coscienza, impedisce il progresso spirituale, procura la pena.
Si pratichi una lettura che durante la preghiera aiuti a riflettere, illumini per la conoscenza di Dio, infiammi dell’amore suo, insegni le abitudini buone, aiuti a superare le avversità, inculchi il disprezzo del mondo e il desiderio della patria celeste, insegni a distinguere i vizi e le virtù e a vincere le tentazioni, e tutto ciò che è utile alla salvezza.
L’orazione interrompa spesso la lettura e le altre occupazioni, perché la mente possa elevarsi a Dio, da cui ci viene ogni bene.
La nostra volontà qualche volta si muove per Dio, qualche volta verso Dio, qualche volta in Dio.
Per Dio si muove nell’azione, che eseguiamo principalmente per lui, anche se durante l’azione non pensiamo a Lui direttamente. Verso Dio si muove durante la lettura, il confronto e la meditazione, quando la nostra mente si occupa del Signore e in qualche modo lo cerca, ma non ci rivolgiamo a Lui come a un tu.
In Dio si muove durante l’orazione, quando la mente lo pensa e gli parla, lo abbraccia e aderisce a Lui con l’affetto della devozione. Di queste cose la più utile è semplicemente quella che più unisce l’uomo con Dio, poiché tutta la beatitudine dell’uomo consiste nell’essere trasformato in Dio. (Davide d’Augusta)




Lunedì IV settimana di Quaresima
Immaginiamo che una donna molto timida e semplice abbia un figlio unico teneramente amato, che per un delitto sia stato preso dal re e venga condotto alla forca. Forse che essa, la timida e la semplice, non urlerà a gran voce e non correrà, con i capelli sciolti al cospetto del re, a supplicare per la liberazione del figlio? Come questa semplice ha imparato parole e gesti per domandare la grazia? Non sono stati l’amore del figlio e la necessità estrema a fare di essa, prima timida e a mala pena solita a mettersi sull’uscio di casa, una donna ardita, quasi senza ritegno, che corre per le piazze in mezzo alla gente, urlando, da semplice diventata sfacciata? Così saprebbe bene e vorrebbe fare orazione chi venisse veramente a conoscere i suoi mali, e i pericoli e i danni che gli stanno sopra
Gli diceva una volta un tale: «So di molti che, appena entrano in orazione, pare abbiano subito la grazia della devozione e del pianto. Ma io a fatica riesco a provare qualcosa». Frate Egidio rispose: «Dura nell’orazione con fedeltà e pietà, perché la grazia che Dio non da una volta, potrà darla un’altra. E quanto non ti dona in un giorno, in una settimana, in un mese, in un anno, potrà donartelo in un altro giorno, in un’altra settimana, in un altro mese, in un altro anno. Tu affida nelle mani di Dio la tua fatica spirituale, e Dio ti riempirà della sua grazia, secondo la misura della sua benigna volontà. Il fabbro, che ha da foggiare un coltello, da molte battiture sopra il ferro dal quale lo tira fuori, prima che gli riesca finito. Ma poi, con un colpo, ecco il coltello perfetto».
Molte opere di misericordia sono raccomandate dalla sacra Scrittura, come rivestire gli ignudi, dare da mangiare agli affamati, e tante altre. Tuttavia è dell’orazione che parla il Signore, dove dice: “Tali adoratori il Padre domanda” (Gv 4,23). Le opere ornano l’anima, ma l’orazione è qualcosa di più grande».
(Beato Egidio di Assisi)

Martedì IV settimana di Quaresima
La contemplazione ha sette gradi: fuoco, unzione, estasi, contemplazione, gusto, quiete, gloria.
Per fuoco intendo una sorta di luce, la quale appare prima a rischiarare l’anima. Subentra poi l’unzione del profumo spirituale, da cui viene una specie di meraviglioso odore, ricordato nel Cantico: “Dietro il profumo dei tuoi unguenti”, con quel che segue (Ct 1,3). Poi l’estasi: l’anima, goduto il profumo, è rapita e tratta fuori dalla carne. Segue la contemplazione, poiché l’anima, a quel modo quasi disincarnata, contempla con mirabile chiarezza Dio. Viene quindi il gusto, che è quella meravigliosa dolcezza provata dall’anima nella contemplazione. Di essa canta il salmo: “Gustate e vedete”, con ciò che segue (Sal 33,9). Sussegue la quiete, quando l’anima, gustata quella dolcezza spirituale, in essa si distende. E alla fine appare nell’anima la gloria, poiché in tanta pace essa si riveste di grandezza e si colma di immensa allegrezza. Il salmo appunto canta: “Sarò sazio quando si scoprirà la tua gloria” (Sal 16,15)».
Diceva anche: «A contemplare la gloria della maestà divina nessuno può salire se non nell’ardore dello spirito e con l’orazione incessante. L’uomo è veramente acceso di questo ardore spirituale e disposto a salire alla contemplazione, quando il cuore con le altre membra è così pienamente disposto a essa che non vuole e non può pensare niente altro all’infuori di ciò che ha e sente.
La vita contemplativa sta nella rinuncia a ogni cosa creata per amore di Dio, nella ricerca delle sole cose dell’alto, nella fedeltà all’orazione, nella frequente lettura spirituale, nella lode incessante rivolta a Dio con inni e cantici.
Buon contemplativo è chi, coi piedi e le mani tagliate, cavati gli occhi, troncati naso, orecchie e lingua, per la grandezza del dolcissimo, inestimabile odore, gaudio, sapore, non si curasse delle sue membra, né di altra cosa immaginabile di questo mondo. E non desiderasse altro all’infuori di ciò che ha e sente. Così Maria sorella di Marta “sedeva ai piedi del Signore” e provava tanta dolcezza della parola di Dio da non avere membro che sapesse o volesse fare altra cosa di quella che faceva in quel momento. Lo mostra il fatto che alla sorella, la quale si doleva di non avere aiuto da lei, non diede risposta con alcuna parola o cenno. E allora Cristo prese le sue difese, rispondendo in luogo di Maria, che non poteva rispondere» (cf. Lc 10,38-42).
(Beato Egidio di Assisi)






Mercoledì IV settimana di Quaresima
L’anima è rinvigorita e fortificata dall’esempio di Cristo che abita in lei, e che per lei sostenne tali e tante prove; per la qual cosa più fortemente ella si infiamma ad imitarlo nelle tribolazioni e gode in esse e non ne è quasi per nulla turbata. Perciò l’anima consegue anche la stabilità dei sensi corporali, poiché, da quando per amore del Creatore ha lasciato tutte le realtà create, non vaga più dietro ad esse in maniera illecita per mezzo dei sensi, ma li regola e li rende stabili, raccomandandoli con fiducia a Dio, e dicendo così quando si distacca dall’orazione: «Signore, custodisci tu e regola i miei sensi e non permettere che mi allontani da te».
E di solito da questa nudità l’anima consegue il dominio del proprio corpo, e c’è tanta pace e accordo tra anima e corpo, che non discordano in nulla; e volentieri il corpo si sottomette all’anima e la segue in tutto quello che ella vuol fare: così nel disprezzo, nel rigore, nell’astinenza e nelle veglie, come pure in tutte le fatiche e i fastidi. Infatti, quando il corpo ricorda le angustie e le gravi fatiche che egli era solito tollerare per l’impazienza, l’ira, l’invidia, le ambizioni e gli intrighi delle cose temporali, e vede che ora invece si trova in tanta pace, volentieri allora soffre tutte queste fatiche, pur di evitare quelle altre, infruttuose, dannose e più affliggenti. Come se qualcuno, che fosse certo che per ogni cento denari gliene sarebbero dati mille, non troverebbe pesante dare i suoi cento, anzi più volentieri ancora ne darebbe duecento: così il corpo, ricavandone un gran guadagno, sopporta lietamente tutte queste fatiche e volentieri segue l’anima, anzi cerca perfino di correrle innanzi e di prevenirla. Dunque è davvero utilissimo e di grande aiuto che gettiamo via tutti i «mezzi», espropriamo noi stessi e muoriamo a tutte le cose create, disperiamo totalmente di noi stessi e di ogni creatura e ci gettiamo con fiducia in Dio, che ci accoglierà benevolmente, ci governerà con amore e ci condurrà alla beate fine. Se infatti vediamo che i mercanti si affaticano e disperano per i guadagni temporali, affrontando i pericoli della strada e del mare, e che i cavalieri, per l’onore del mondo, fanno lo stesso, affrontando la spada e la guerra e la morte; e spesso tuttavia gli uni non realizzano il guadagno voluto e gli altri non raggiungono l’onore desiderato, e anche quando li ottengono sono certi che dovranno perderli: quanto più noi, che oltrettutto non ci esponiamo neppure a pericoli, dovremo darci da fare per un guadagno ed onore spirituale, che sono veri e certi e destinati a durare per sempre? Ancor più, e di certo, se qualcuno realizzasse bene, con fedeltà e purezza, una tale espropriazione, in poco tempo e nello spazio di pochi giorni comincerebbe a sentire qualcosa di quel che s’è detto e a gustare la dolcezza di Dio. E perseverando in quella stessa espropriazione, proverebbe con certissima esperienza che tutto quanto abbiamo detto è vero; tanto che uscendo dall’orazione abbraccerebbe con vivacità e amorevolezza solo le realtà divine, guardandosi intorno con una certa inquietudine e stupore, come uno attonito, diventato diverso e trasformato, quasi appena giunto da un altro mondo, e stimerebbe invece ben poca cosa tutto questo mondo; e a stento e con noia ne sopporterebbe la vista, perché l’animo già se n’è allontanato e s’è compiuta una giocondissima trasformazione in Dio. (Beato Rizzerio di Muccia)

Giovedì IV settimana di Quaresima
Se vuoi vedere bene, cavati gli occhi e sii cieco. E se vuoi udire bene, diventa sordo. Se vuoi camminare bene, troncati i piedi. E se vuoi operare bene, mozzati le mani. Se vuoi vivere bene, mortifica te stesso. E se vuoi guadagnare bene, sappi perdere. Se vuoi essere ricco, diventa povero. E se vuoi stare tra i godimenti, affliggiti. Se vuoi stare sicuro, sta sempre con timore. E se vuoi essere esaltato, umiliati. Se vuoi essere onorato, disprezzati e onora chi ti disprezza. E se vuoi avere il bene, sopporta il male. Se vuoi stare in quiete, fatica. E se vuoi essere benedetto, desidera di essere maledetto. Quanto grande sapienza è sapere operare queste cose! Ma appunto perché sono grandi, a pochi sono date.
Se l’uomo vivesse mille anni e non avesse altro da fare all’esterno, abbastanza avrebbe da fare dentro di sé. E non potrebbe venire a capo dell’opera, tanto avrebbe da fare unicamente all’interno del proprio cuore.
L’uomo si fa di Dio un’immagine come gli pare. Ma Dio è sempre tale e quale.
La parola di Dio non è di chi l’ascolta o la predica, ma di chi la pratica.
Molti non esperti del nuoto si buttarono in acqua per aiutare quelli che affogavano, ma si persero con quelli che si perdevano. Prima il danno era uno solo, poi raddoppiò. Se lavori fruttuosamente alla salvezza della tua anima, lavorerai fruttuosamente alla salvezza di tutti i tuoi amici. Se fai bene il fatto tuo, fai bene anche quello dei tuoi amici. Il predicatore della parola di Dio è posto dalla mano del Signore come una candela, uno specchio e il portabandiera del suo popolo. Beato chi guida gli altri per la via diritta, ma in maniera che non trascuri lui di percorrerla. Beato chi spinge gli altri ad avanzare con buon passo, ed egli stesso seguita a correre. Beato chi da una mano agli altri perché arricchiscano, senza per questo diventare lui povero. Il buon predicatore parla più per se stesso che per gli altri. (Beato Egidio di Assisi)
Venerdì IV settimana di Quaresima
Chiunque vuole giungere alla conoscenza della verità per via breve e diritta, e possedere la pace perfetta nell’anima, occorre che si espropri totalmente dell’amore di ogni creatura e anche dell’amore di sé stesso; affinchè totalmente si getti in Dio, senza trattenere nulla per sé, neppure il tempo, e nulla sia disposto secondo il proprio sentimento, così da essere sempre disponibile, docile e pronto al comando di Dio e alla sua chiamata.
Per chi vuoi essere unito a Dio conviene non mantenere alcun «mezzo» tra sé e Dio: ma poiché ci sono tanti «mezzi» quante sono le cose che ciascuno ama, per non impedire l’unione con Dio, andrà tolto di mezzo ogni amore. Questa, infatti, è la causa per cui molte persone, che sembrano spirituali, e che osservano alcune buone pratiche in modo davvero rigoroso, sollecito e continuo, tuttavia sono sempre tiepide e non giungono ad una condizione perfetta e stabile: proprio perché conservano ancora qualcosa di proprio, che fa da «mezzo» tra loro e Dio. E a causa di tali «mezzi» che conservano nell’anima, essi si rendono oggetti all’instabilità, poiché se pure talvolta percepiscono la dolcezza di Dio, e addirittura perseverano nelle preghiere, nelle devozioni ed in altre buone pratiche, ed hanno qualche sentimento di Dio, nondimeno poi se ne ritornano alle favole, ai pettegolezzi e ai discorsi del mondo ed alle altre esteriorità che amano, come se non avessero percepito nulla di Dio. E si comportano come le mosche, che ora si posano sul miele, ora sullo sputo e sull’immondizia.
E infatti, qual è mai il motivo per cui la passione di Cristo, pur essendo di tanta forza ed efficacia da dover spezzare anche i cuori più duri in un solo atto di meditazione, non cambia affatto molte persone che, per cinque o dieci anni o anche più, si sono esercitate in tale meditazione?
Ciò accade perché, nonostante costoro provino in tale meditazione compunzione e diletto e sentimenti intcriori, tuttavia non cambiano la propria vita; e quando se ne distaccano, ritornano alla dissoluzione, secondo il loro solito. Certamente non vi è altro motivo se non che i «mezzi» che conservano in sé stessi non permettono all’anima di accedere a Cristo, né a Cristo di giungere ad essa. E se pure talvolta scompaiono tali «mezzi», tuttavia poi se ne tornano indietro, come alla propria casa vuota. Ma da quando l’anima si espropria totalmente di ogni amore creato ed ha la vera povertà di spirito con tutto il cuore, poiché non si diletta di alcuna creatura, allora viene attirata e riempita dall’amore divino, nel quale si getta totalmente. (Beato Rizzerio di Muccia)

Sabato IV settimana di Quaresima
La bocca dalla quale escono parole buone è «quasi la bocca di Dio». Quella dalla quale escono cattive parole è simile alla bocca del diavolo.
Quando i servi di Dio si ritrovano in un luogo a parlare, dovrebbero conversare della bellezza delle virtù, per sentire gusto di esse. Perché, se delle virtù provassero piacere, si darebbero a praticarle, e praticando le virtù, crescerebbe in loro maggiormente l’amore di esse.
Quanto più un uomo è pieno di vizi, tanto più ha bisogno di sentir discorrere delle virtù. Come uno, per ascoltare spesso discorsi viziosi, cade con più grande facilità nei vizi, così, per il frequente discorrere intorno alle virtù, l’uomo si sente dolcemente condotto e disposto ad esse. Ma come parlare di queste cose? Del bene non sappiamo dire la bellezza, del male non riusciamo a mostrare la bruttezza. Del bene non arriviamo a scoprire l’eccellenza, del male non giungiamo a intendere quanto grandi colpe e castighi produce. Perché il bene e il male non possono essere compresi per intero dalla nostra mente.
Io non credo minore virtù sapere bene tacere che sapere bene parlare. E mi pare che l’uomo dovrebbe avere un collo come la gru, in modo che la parola dovesse passare per molti nodi prima di uscire dalla bocca.
Certe volte si vede in mare qualche bella e grande nave, uscita appena dal cantiere, carica di merci preziose. Ma, ecco, allo scatenare della tempesta, non sa riguadagnare il porto e va miseramente perduta. Che cosa le servì tutta la sua solidità e bellezza? Qualche altra volta esce in mare una nave sdrucita, misera, vecchia, che nessuno ammira. Ma, governata con molta abilità, riesce a scampare alla furia delle onde e a riparare faticosamente in porto. Essa sola merita lode. Accade la stessa cosa tra gli uomini di questo mondo. Perciò tutti hanno ragione di temere.
Che cosa mi servirebbe mendicare per cento anni il regno dei cieli, se non dovessi poi avere una buona fine? Credo che due sono i grandi beni dell’uomo: amare Dio e guardarsi sempre dal peccato. Chi questi due beni ha, tutti i beni ha. (Beato Egidio di Assisi)




Lunedì V settimana di Quaresima
Il religioso di grande obbedienza somiglia a un cavaliere, coperto di una buona armatura, saldo sopra un buon cavallo, che passa sicuro in mezzo ai nemici, nessuno dei quali gli può fare danno. Il religioso che obbedisce di malanimo somiglia invece a un cavaliere senza armatura, montato sopra un cavallo scadente. Quando capita nel folto dei nemici è buttato di sella, preso, legato, ferito, incarcerato e qualche volta ammazzato.
Con quanto più saldi e stretti nodi il religioso, per amore di Dio, sta legato al giogo dell’obbedienza, tanto più grande frutto porterà. E quanto più il religioso, per amore di Dio, si fa obbediente e soggetto a chi sta sopra di lui, tanto più compare povero e libero da colpa agli occhi degli uomini del mondo.
A me pare che quando uno avesse così grande grazia da parlare con gli angeli, se venisse chiamato in quel momento dall’uomo, al quale ha promesso obbedienza, dovrebbe lasciare il colloquio con gli angeli e obbedire alla persona a cui si è sottomesso per amore del Creatore. Lo mostra un fatto che si legge nel primo libro dei Re. Il Signore non rivelò la sua volontà a Samuele, prima che questi non avesse avuto il permesso da Eli di ascoltarla (1Sam 3,1-10).
Quando il bue tiene il capo sotto il giogo, i granai si ricolmano di frumento. Ma quando lo scuote e va libero per la campagna e crede di essere diventato un gran signore, i granai non si riempiono. Uomini grandi e dotti mettono umilmente il capo sotto il giogo dell’obbedienza, ma gli stolti lo tirano fuori e non si adattano a obbedire. Più gran cosa stimo obbedire per amore di Dio a chi sta sopra, che obbedire al Creatore stesso, il quale direttamente ingiungesse il comando. (Beato Egidio di Assisi)

Martedì V settimana di Quaresima
Mio Dio, fammi degna di conoscere l’altissimo mistero, che il tuo ardentissimo e ineffabile amore realizzò, insieme all’amore del Padre e dello Spirito Santo, cioè l’altissimo mistero della tua santissima incarnazione per noi. Essa fu l’inizio della nostra salvezza e opera in noi due cose: ci riempie d’amore e ci rende sicuri della nostra redenzione.
O incomprensibile carità! O amore al di sopra del quale non c’è amore più grande! Esso ha fatto sì che il mio Dio si facesse uomo per farmi Dio. O amore appassionato! Tu, quando hai assunto la nostra forma, ti sei donato per salvarmi. Non è che tu abbia perduto qualcosa, come se fosse stato tolto qualcosa a te e alla tua divinità, ma è la profondità del tuo concepimento che mi fa dire parole appassionate.
Tu, l’Incomprensibile, sei divenuto comprensibile. Tu, l’Increato, sei divenuto creatura. Tu, l’Impensabile, sei ora pensabile. Tu, l’Intangibile, puoi essere toccato.
O Signore, fammi degna di vedere la profondità dell’altissimo amore che ci hai comunicato nella santissima incarnazione. Due cose perciò dobbiamo considerare nell’incarnaziona del Figlio di Dio. La prima è l’amore.
La seconda cosa, è che ci rende sicuri della nostra salvezza.
Egli infatti è nato per morire per noi. Cinque cose si devono considerare nella morte di Gesù Cristo. La prima è che ci rende sicuri della nostra salvezza; la seconda è che ci ha donato la forza con cui abbiamo vinto i nostri nemici; la terza è la manifestazione della pienezza e della sovrabbondanza dell’amore di Dio; la quarta è che ci riempie di una profonda, appassionata e altissima verità, cioè ci fa conoscere, vedere e capire che Dio Padre nella santissima incarnazione, nella nascita e nella morte, ci ha mostrato, insegnato, spiegato e manifestato suo Figlio; la quinta è che il Figlio di Dio, attraverso l’obbedienza, che esercitò per tutta la vita e che ebbe termine con la morte, ci ha rivelato il Padre e ha risposto a lui al posto di tutto il genere umano.

Mercoledì V settimana di Quaresima
Appena battezzato Gesù riprende il cammino nel deserto e sale su un’altura, chiamata monte della Quarantena, dove passa in digiuno quaranta giorni e quaranta notti.
Osserva, o anima cristiana, come Gesù si ritira in solitudine, digiuna, prega, veglia, si stende a dormire sulla nuda terra e vive con la sola compagnia degli animali. Vengono qui toccati quattro punti che fanno parte dell’uomo spirituale e che si aiutano straordinariamente bene l’un l’altro, vale a dire: la solitudine, il digiuno, la preghiera, la mortificazione del corpo. Sono i mezzi più importanti per raggiungere la purezza di cuore, purezza cui dobbiamo tenderere con tutte le forze per il fatto che in un certo senso racchiude in sé tutte quante le virtù. Contiene infatti la carità, l’umiltà, la pazienza ed è incompatibile con qualunque vizio perché se uno ha un vizio o manca di una virtù non può avere la purezza di cuore. La purezza di cuore, effettivamente, è quella che fa meritare all’uomo di vedere Dio, come appunto dichiara il Signore nel Vangelo con le parole «Beati i puri di cuore, perché essi vedranno Dio».
Pensa spesso a Gesù in questa solitudine mentre di notte è disteso in terra. Ogni cristiano dovrebbe fargli visita almeno una volta al giorno, soprattutto durante la Quaresima.
Al termine dei quaranta giorni il Signore sente fame. Gli si avvicina allora il tentatore allo scopo di accertarsi se è Figlio di Dio. Lo mette alla prova approfittando della sua fame e gli dice: «Se sei Figlio di Dio, di’ a queste pietre di cambiarsi in pane», ma non riesce ad ingannare il Maestro, perché la sua risposta e il suo comportamento sono tali che né cede alla tentazione della gola né permette all’avversario di sapere ciò che vuole. Non nega ma neanche afferma di essere Figlio di Dio, bensì lo fa zittire citando la Scrittura.
Ricorda quest’esempio del Signore, se vuoi resistere al vizio della gola, perché se si vuoi vincere i vizi bisogna cominciare proprio dal digiuno. Per questo si dice che chi cede alla gola diventa impotente a superare o evitare gli altri vizi. (Giovanni de Caulibus)

Giovedì V settimana di Quaresima
Il nome di Gesù, considerato rispetto alla perseveranza, è aiuto degli incostanti, ossia dei tiepidi, degli ammalati spirituali, che si arrestano nella via del bene. Per cui san Bernardo, esclama: «Non senti, forse, confortato ogni volta che rammenti il nome di Gesù? Quale altra cosa rinvigorisce la mente di chi lo ripensa? Che cos’altro rafforza le virtù, solleva i sensi abbattuti, suscita i buoni costumi ed i santi affetti, più di questo nome adorabile?». Se dunque la pigrizia e il torpore, impossessandosi di te ti arrestano per la via intrapresa della perfezione, Gesù invocato ti guarirà con l’accendere in te novello fervore... Accade molte volte che ci sentiamo all’improvviso oppressi dalla mestizia e dal tedio: ci sentiamo aridi, freddi, distratti; la solitudine ci spaventa, noiosa ci diviene la lettura. E quantunque ci intratteniamo allora più lungamente nella preghiera, pure quel poco di fervore, che dolcemente gustiamo, viene sopraffatto da quella tiepidezza che ci avvince; né la considerazione del premio eterno, né il pensiero dei castighi infernali hanno la potenza di scuoterci dal sonno letargico in cui siamo caduti. Ma ecco che, appena invocato Gesù con tutto l’affetto del cuore, un gaudio immenso ed ineffabile torna finalmente ad impossessarsi dell’anima nostra... E così, invocato umilmente e con intimo desiderio il suo nome, Gesù torna ad inebriarci di santa letizia e a corroborare la nostra incostanza.
(S. Bernardino da Siena, Splendore del nome di Gesù)

Venerdì V settimana di Quaresima
Il nome di Gesù ci mette nella possibilità di assaporare questo cibo delizioso; nome che, profondamente meditato, in sé contiene ogni sapore e dolce soavità... Perciò gustando la dolcezza del nome di Gesù, dica ognuno di noi col profeta (Sal 53, 8): Darò lode al tuo nome, o Signore, perché è buono!... Giustamente è detto nel Libro dei Proverbi (18, 10): Una torre fortissima è il nome del Signore; vi accorre il giusto, è sarà sollevato. E san Giromo commenta: Non senza ragione il nome del Signore è chiamato torre fortissima, poiché in esso non solo riceviamo la fortissima e grandissima virtù di resistere agli attacchi dei nostri nemici spirituali e alla piena irrompente dei vizi, ma anche perché da quello, come da un luogo eminente, possiamo contemplare la moltitudine dei gaudi eterni. E il Crisostomo soggiunge: Il nome di Dio quanto più ardentemente è amato ed invocato, tanto più altamente ci solleva in Dio. E questo ben conobbe per esperienza il beato Egidio, compagno di san Francesco; poiché fin da quando il Divin Redentore gli apparve presso la montagna di Cetona, trattenendosi lungamente con lui dal Natale alla festa dell’Epifania, fu ripieno di tanta dolcezza che, dopo, al solo udire il nome di Gesù si sollevava spesso da terra, rapito in estasi. E volendo accertarsi di ciò il papa, lo chiamò presso di sé in una camera appartata; e allorché nel discorrere a bella posta nominò Gesù, immediatamente frate Egidio, sollevato da terra, fu rapito in estasi. Oh, che anch’io di tanta abbondanza di grazia, di tanta letizia di gloria che allieta gli abitatori celesti in paradiso ed i contemplativi in terra, possa, anche una sola volta, ricevere una sola stilla nell’arida anima mia, per così assaporare ed amare con tutto il cuore Gesù, per pensare sempre a lui!
Inaccessibile tu sei, o Signore, a noi che, ubriacati dall’amarezza della carne, non siamo altro che dei semplici e lontani spettatori delle ineffabili dolcezze celesti! Ma a noi, poveri pellegrini sulla terra, ci basta uno spiraglio da cui contemplare l’immensità della tua dolcezza riservata ai figli tuoi diletti, per poter correre dietro all’odore soave dei tuoi profumi! Questa soavità supera qualsiasi delizia, poiché l’odore tuo, o Signore, genera desideri eterni!... Oh, se un giorno sarò annoverato tra i beati comprensori del cielo, anch’io potrò allora esclamare con Abacuc (3, 18): Io mi rallegrerò nel Signore, ed esulterò in Dio mio Gesù. (S. Bernardino da Siena, Splendore del nome di Gesù)

Giovedì Santo
È il giovedì santo, il gran giorno del Cuore di Gesù, il giorno delle sue nozze e insieme del suo testamento d’amore! Come di un tratto un fulgido raggio di sole scioglie le nubi del cielo e richiamala vita, così il mio buon Maestro si è degnato sollevarmi, rischiararmi in questo giorno che per me è forse il più solenne di tutto l’anno. Mi sono sentito inondare da una grande abbondanza di pace, quando mi sono accostato a riceverlo; ho sentito tutta la gioia della sua presenza, ho ascoltato con commozione il suo ultimo sermone, le ultime parole di addio, e dolcemente tremando in tutta la persona per una non so qual tenerezza che mi inumidiva le ciglia, l’ho accompagnato alla sua custodia. Oh! come sempre più mi fa intendere il suo desiderio, che in tutto mi strugga di amore per lui nella devozione al Ss. Sacramento. Dal Ss. Sacramento, io debbo ripetermi quel desiderio che sento, che mi agita, di non vivere che per Gesù, e la grazia di essere preservato da tanti peccati che certamente avrei commesso senza il suo aiuto. Come posso io rimanere insensibile a questo invito?
Nell’ultima cena Gesù, il pontefice sommo, istituì il sacerdozio, ed ora chiama anche la mia miserabile persona alla partecipazione di sì alto ministero. Preparato già da parecchi anni per diversi gradi ed ordini minori al grande atto, ora mi vuole al suo servizio con una dedizione più solenne ed una promessa indissolubile di fedeltà a lui solo, e di separazione totale dalle creature del mondo. O Gesù, io anelo a quel momento da sì gran tempo aspettato. Vedete, o Gesù, abbandono patria, parenti, le mie povere reti, tutto; io vengo con voi. Ricevetemi come accoglieste Pietro, Giovanni, Matteo e gli altri. Se io non sono degno di assidermi alla vostra mensa, almeno mi metterò ai vostri piedi, a raccogliere le briciole che cadono in terra (Mc 7,27). «Stare sulla soglia della casa del mio Dio è meglio che abitare nelle tende degli empi» (Sal 84,11). Una cosa sola desidero: che rimanga costante nel vostro santo amore, uno con voi, come voi siete uno col Padre vostro. Ohimè! come attraverso le vostre ultime parole, nella mestizia del vostro divino sembiante, leggo lo scoppio infernale del bacio di Giuda, del traditore (Mt 26,50). Gesù, ve ne scongiuro a mani giunte, tremando di spavento; se voi sapete che io sia un giorno per mancare alle mie promesse, fatemi morire sull’istante prima che io compia il gran passo e vi giuri la mia fede. (San Giovanni XXIII)
view post Posted: 30/1/2015, 11:48 Dostoevskij - Buone Letture
Quali terribili sofferenze mi è costata – e mi costa tuttora – questa sete di credere, che tanto più fortemente si fa sentire nella mia anima quanto più forti mi appaiono gli argomenti ad essa contrari! Cionostante Iddio mi manda talora degl'istanti in cui mi sento perfettamente sereno; in quegl'istanti io scopro di amare e di essere amato dagli altri, e appunto in quegl'istanti io ho concepito un simbolo della fede, un Credo, in cui tutto per me è chiaro e santo. Questo Credo è molto semplice, e suona così: credete che non c'è nulla di più bello, di più profondo, più simpatico, più ragionevole, più virile e più perfetto di Cristo; anzi non soltanto non c'è, ma addirittura, con geloso amore, mi dico che non ci può essere. Non solo, ma arrivo a dire che se qualcuno mi dimostrasse che Cristo è fuori dalla verità e se fosse effettivamente vero che la verità non è in Cristo, ebbene io preferirei restare con Cristo piuttosto che con la verità. (Dostoevskij, lettera a N. D.Fonvizina, 1854)

Ma io dichiaro - strillò Stepan Trofimovic al massimo grado del furore - ma io dichiaro che Shakespeare e Raffaello stanno più in alto della liberazione dei contadini, più in alto dello spirito popolare, più in alto del socialismo, più in alto della giovane generazione, più in alto della chimica, quasi più in alto dell'umanità intera, giacchè sono il frutto, il vero frutto di tutta l'umanità e, forse, il frutto più alto che mai possa essere! E' già stata conseguita la forma di bellezza senza il cui conseguimento forse non acconsentirei nemmeno a vivere...(....)...uomini piccini, che cosa vi occorre per capire? Ma sapete voi, sapete voi che senza l'inglese l'umanità può ancora vivere, può vivere senza la Germania, può vivere anche troppo facilmente senza i russi, può vivere senza la scienza, può vivere senza pane, ma soltanto senza la bellezza non potrebbe vivere, perchè non ci sarebbe più nulla da fare al mondo? Tutto il segreto è qui, Tutta la storia è qui! (Dostoevskij, I demoni)


Dostoevskij ha saputo tutto ciò che saprà Nietzche, ma anche qualcosa di più (Berdjaev, in De Lubac, Il dramma...)

Non c'è amore in voi, ma soltanto un severo senso della giustizia; perciò siete ingiusto (Dostoevskij)


Dostoevskij di un personaggio poco pulito appena entrato in scena nell'Idiota: «Le sue mani sembravano non conoscere l'uso dell'acqua»


"L'uomo è un enigma che dev'essere risolto, e chi va alla ricerca della soluzione per tutta la vita non può dire di aver sprecato il proprio tempo; io mi dedico a questo enigma poiché voglio essere un uomo" (Dostoevskij)


E’ difficile dare un giudizio sulla bellezza; non sono ancora preparato. La bellezza è un enigma. (Dostoevskij, L’idiota)


Se gli uomini venissero privati dell'infinitamente grande essi non potrebbero più vivere e morrebbero in preda alla disperazione (Dostoevskij, I demoni)


Vedi queste pietre, per questo nudo e rovente deserto? Convertile in pani e dietro a te l'umanità correrà come un branco di pecore, dignitosa e obbediente, se anche in continua trepidazione che tu ritragga la mano tua e vengano sospesi loro i tuoi pani. Ma tu non hai voluto privare l'uomo della libertà, e hai rifiutato la proposta: perché dove sarebbe la libertà - hai ragionato tu - se il consenso fosse comprato col pane? (Dostoevskij, I fratelli Karamazov)


La mia immortalità è indispensabile, perché Dio non vorrà commettere un’iniquità e spegnere del tutto il fuoco di amore dopo che questo si è acceso per lui nel mio cuore. E che cosa c’è di più eterno dell’amore? L’amore è superiore all’esistenza, è il coronamento dell’esistenza, e come è possibile che l’esistenza non gli sia sottomessa? Se ho cominciato ad amarlo e mi sono rallegrato del suo amore, è possibile che lui spenga me e la mia gioia e ci converta in zero? (Dostoevskij, I demoni)


Il segreto dell'esistenza umana non sta solo nel vivere, ma in ciò per cui si vive. Senza sapere con certezza per che cosa vive, l'uomo non accetterà di vivere e si sopprimerà pur di non restare sulla Terra, se anche intorno a lui non vi fossero che pani. (Dostoevskij, I fratelli Karamazov)


«Avrebbe voluto che gli dicesse qualcosa, fossero state anche parole amare e terribili». Ma Dostoevskij ha voluto usare lo stesso atteggiamento di Gesù di fronte agli accusatori: lesus autem tacebat.
Nikolaj Berdjaev ne ha messo in risalto la potenza:
"È stupefacente il metodo a cui ricorre Dostoevskij. Cristo tace tutto il tempo e rimane nell'ombra. L'idea religiosa positiva non trova un'espressione nella parola. La verità sulla libertà è ineffabile. Si può esprimere facilmente solo l'idea della costrizione. La verità sulla libertà si rivela soltanto in quanto è opposta alle idee del Grande Inquisitore, e risplende luminosa attraverso le obiezioni che le oppone il Grande Inquisitore. Questo tener celato in un velo Cristo e la Sua Verità è artisticamente di grande efficacia. È il Grande Inquisitore che argomenta e si sforza di convincere. Ha a sua disposizione una forte logica, una forte volontà, protesa ad attuare un piano determinato. Ma la dolcezza di Cristo, il suo mite silenzio convincono e conquistano con più forza che tutta la forza delle argomentazioni del Grande Inquisitore".


Annientate nell'uomo la fede nella propria immortalità, e non solo in lui si inaridirà di colpo l'amore, bensì qualsiasi forza vitale in grado di perpetuare la vita nel mondo. E non basta: allora non vi sarà più nulla di immorale e tutto sarà lecito, persino l'antropofagia (Dostoevskij, I fratelli Karamazov)


L'amore è l'unica forza invincibile del mondo. (Fédor M. Dostoevskij)


«Noi ci smarriamo continuamente se non abbiamo Cristo e la fede che ci guidano»; «Se si ripudia Cristo, lo spirito umano può giungere ai più sconvolgenti risultati» (Dostoevskij, Taccuino)


Giovane, non dimenticare la preghiera. In essa, se è sincera, fa capolino ogni volta un nuovo sentimento, e in questo anche un nuovo pensiero, che tu prima ignoravi e che ti riconforterà; e tu comprenderai che la preghiera è un'educazione (Dostoevskij, I fratelli karamazov)


I grandi umanisti - come Shakespeare, Goethe... - generalmente sono pagani, ed è pregiudizio assai diffuso che colui che esplora profondamente l'uomo non può essere che pagano. Se per caso è cristiano, non potrebbe essere che un sovrappiù superficiale, forse poco sincero, oppure lo è diventato in seguito a una crisi acuta di pessimismo che l'ha fatto rinunciare all'uomo e a tutte le sue ricchezze: ma che cristianesimo è quello?
Dostoevskij, invece, è un genio a un tempo profondamente umano e profondamente cristiano; ed egli è l'uno grazie all'altro... Il suo cristianesimo è autentico, è in fondo quello stesso del Vangelo, ed è questo cristianesimo che, al di là del suo prodigioso carisma di psicologo, infonde tanta profondità alla sua visione dell'uomo. «Egli vedeva la luce di Cristo». (De Lubac, Il dramma...)

Dove mai ho letto che un condannato a morte, un'ora prima di morire, diceva o pensava che, se gli fosse toccato vivere in qualche luogo altissimo, su uno scoglio, e su uno spiazzo così stretto da poterci posare soltanto i due piedi, – aven
do intorno a sé dei precipizi, l'oceano, la tenebra eterna, un'eterna solitudine e una eterna tempesta –, e rimanersene così, in un metro quadrato di spazio, tutta la vita, un migliaio d'anni, l'eternità –, anche allora avrebbe preferito vivere che morir subito? Pur di vivere, vivere, vivere! Vivere in qualunque modo, ma vivere!... Quale verità! Dio, che verità! È un vigliacco l'uomo!... Ed è un vigliacco chi per questo lo chiama vigliacco». Fëdor Dostoevskij, “Delitto e castigo”


«Se tu non avessi mai avuto un bambino e se questo fosse soltanto un sogno?» «Mi fai una domanda difficile, Šatuška» rispose perplessa senza però meravigliarsi di una simile domanda. «A questo proposito non ti dirò nulla, c'è anche il caso che non l'abbia mai avuto; secondo me la tua è pura curiosità: comunque non smetterò di piangerlo» (Dostoevskij, I Demoni)


C'era una volta una donna cattiva cattiva che morì, senza lasciarsi dietro nemmeno un'azione virtuosa. I diavoli l'afferrarono e la gettarono in un lago di fuoco. Ma il suo angelo custode era là e pensava: di quale suo azione virtuosa mi posso ricordare per dirla a Dio? Se ne ricordò una e disse a Dio: - Ha sradicato una cipolla nell'orto e l'ha data a una mendicante.
E Dio gli rispose: - Prendi dunque quella stessa cipolla, tendila a lei nel lago, che vi si aggrappi e la tenga stretta, e se tu la tirerai fuori del lago, vada in paradiso; se invece la cipolla si strapperà, la donna rimanga dov'è ora.
L'angelo corse della donna, le tese la cipolla: - Su, donna, le disse, attaccati e tieni. E si mise a tirarla cautamente, e l'aveva già quasi tirata fuori, ma gli altri peccatori che erano nel lago, quando videro che la traevano fuori, cominciarono ad aggrapparsi tutti a lei, per essere anch'essi tirati fuori.
Ma la donna era cattiva cattiva e si mise a sparar calci contro di loro, dicendo: "E' me che si tira e non voi, la cipolla è mia e non vostra. Appena ebbe detto questo, la cipolla si strappò. E la donna cadde nel lago e brucia ancora. E l'angelo si mise a piangere e si allontanò.
(Fëdor Michailovič Dostoevskij, I fratelli Karamazov VII, 3)


- Erkel, voi non siete che un ragazzino! - eclamò Sciatov. - Non avete mai provato ad essere felice? (Dostoevskij, I demoni)


«E allora vi piace questa donna, principe?» chiese improvvisamente fissandolo con uno sguardo penetrante, proprio come se avesse una qualche sua straordinaria intenzione. «Un viso stupendo!» rispose il principe. «E sono sicuro che il suo destino non è dei più comuni. È un viso allegro, ma ha sofferto terribilmente, vero? Lo dicono i suoi occhi, queste due piccole sporgenze, questi punti sotto gli occhi, dove cominciano le guance. È un viso orgoglioso, terribilmente orgoglioso, e non so se sia buona. Ah, se fosse buona! Tutto sarebbe salvo!» (Dostoevskij, L'Idiota)

Già la sola idea costante, che esista qualcosa di infinitamente più giusto e felice di me, mi riempie di infinita commozione e di gloria; oh, chiunque io sia stato, qualunque cosa abbia fatto! Per l’uomo è più necessario della felicità personale sapere e ad ogni momento credere che esista da qualche parte una felicità perfetta e tranquilla, per tutti e per tutto... Tutta la legge dell’esistenza umana sta solo nel fatto che l’uomo possa sempre inchinarsi davanti all’infinitamente grande. Se gli uomini fossero privati dell’infinitamente grande, non potrebbero più vivere e morirebbero disperati. L’infinito e l’immenso è altrettanto indispensabile all’uomo tanto quanto questo piccolo pianeta che egli abita (Dostoevskij, I demoni)


Ascolta: quest'uomo era il più alto su tutta la terra, costituiva ciò per cui essa doveva vivere. Tutto il pianeta, con tutto ciò ch'è sopra di esso, senza quest'uomo, non è che una pazzia (Dostoevskij, I demoni)


«Principe, trovatemi un soggetto per un quadro.»
«Non mi intendo per nulla di questo argomento. Mi pare che basti guardare e dipingere.»
«Non sono capace di guardare.»
«Ma perché parlate per enigmi? Non capisco nulla!» interruppe la generalessa. «Che vuol dire che non sei capace di guardare? Hai gli occhi, guarda. Se non sei capace di guardare qui, non imparerai certo all'estero. È meglio che raccontiate, principe, come guardavate voi.»
«Ecco, sarà meglio» aggiunse Adelaida, «infatti il principe all'estero ha imparato a
guardare.»
«Non so; laggiù mi sono soltanto rimesso in salute. Non so se ho imparato a guardare. Del resto, io per quasi tutto il tempo sono stato molto felice.»
«Felice?! Siete capace di essere felice?» esclamò Adelaida. «E allora come fate a dire che non avete imparato a guardare? Insegnate anche a noi.» (Dostoevskij, L'Idiota)


«È morta così, che, dopo tanti onori, una donna che era stata tanto potente fu trascinata alla ghigliottina dal carnefice Sanson benché fosse innocente, per il divertimento delle poissardes di Parigi, mentre lei, per il terrore, non capiva nemmeno cosa le stesse capitando. Vedendo che lui le piegava il collo sotto la mannaia prendendola a calci mentre quelle ridevano, si mise a gridare: "Aspettate ancora un momentino, singor bourreau, solo un momentino!". Ecco, forse il Signore le avrà perdonato per quel momentino, poiché non si può immaginare una misère più grande di quella per l'anima umana. Sai cosa vuol dire la parola misère? Be', ecco, è proprio una miseria. Io, come ho letto di quel grido della contessa, di quel momentino, è stato come se una tenaglia mi stringesse il cuore. E che importa a te, verme, se io andando a dormire ho avuto il pensiero di ricordare nelle mie preghiere quella gran peccatrice? Forse l'ho ricordata perché probabilmente da quando esiste il mondo nessuno s'è mai fatto un segno di croce in fronte per lei, e nemmeno ci ha pensato. Forse all'altro mondo a lei farà piacere sentire che c'è stato un peccatore come lei che su questa terra ha pregato, anche se una volta soltanto, per l'anima sua. Perché ridi? Tu non credi, ateo che sei. Ma che ne sai tu? (Dostoevskij, L'Idiota)

Questa gente si vanta ancora del suo ateismo! Ma, Dio mio, il teismo ci ha dato il Salvatore, cioè quella forma umana così nobile che non si può considerarla senza venerazione e nella quale si deve vedere l'ideale eterno. E che cosa ci hanno portato questi Turgenev, Herzen, Outine, Cernichovski? Invece della bellezza divina, della quale essi si fanno beffe, noi vediamo in essi una vanità spaventosa, un orgoglio frivolo... (Dostoevskij, lettera a Maikov, 1867)


Sarcasmo: l'ultimo rifugio per le persone modeste quando l'intimità della loro anima è stata troppo violata. (Fëdor Dostoevskij)

Intanto questi monaci, nella loro solitudine, conservano in tutta la purezza della verità divina l'immagine di Cristo, intatta e bellissima, ricevuta in consegna dagli antichi padri, dagli apostoli e dai martiri, e quando sarà necessario la mostreranno al mondo, ormai scosso nella sua verità umana. È una grande idea. E sarà dall'Oriente che comincerà a risplendere questa stella (Dostoevskij, I fratelli Karamazov, VI)


«L'entusiasmo amministrativo? Non so che cosa sia.»
«Cioè... Vous savez, chez nous... En un mot mettete l'ultima nullità a vendere dei volgari biglietti ferroviari, e questa nullità si sentirà subito in diritto di guardarvi come se fosse Giove, quando andate a comprare un biglietto, pour vous montrer son pouvoir. "Aspetta un po' che io ti mostri il mio potere su di te..." E in loro tutto questo giunge fino a un entusiasmo amministrativo... En un mot, ho letto che un certo diacono in una delle
nostre chiese all'estero - mais c'est très curieux - ha cacciato, ha letteralmente cacciato dalla chiesa una importante famiglia inglese, les dames charmantes, proprio prima che cominciasse una delle grandi funzioni, vous savez ces chants et le livre de Job... unicamente
con il pretesto che "gli stranieri, che girano per le chiese russe, fanno disordine e devono venire all'ora indicata"... e provocò degli svenimenti... Questo diacono era in un accesso di entusiasmo amministrativo, et il a montré son pouvoir...» (Dostoevskij, I Demoni)

Come si fa a dire quale seme abbia gettato per sempre nell'anima di quell'uomo il 'vecchietto generale' se per vent'anni il delinquente ha serbato il suo ricordo? Come si fa a sapere quale significato potrà avere la comunione di un'anima con un'altra nei destini dell'umanità?... Qui si tratta di una vita intera e di innumerevoli casi a noi ignoti. Il più abile giocatore di scacchi, il più acuto può prevedere solo alcune delle future mosse. Di un giocatore francese in grado di prevedere dieci mosse dicevano che era un portento naturale. Quante sono qui le mosse e quanti gli incerti? Gettando il vostro seme, gettando la vostra 'carità', la vostra buona azione in qualunque forma, voi date una parte di voi stesso e accogliete in voi parte di un altro essere umano, entrate in comunione l'uno con l'altro... D'altro canto tutti i vostri pensieri, tutti i semi gettati, anche se li avete dimenticati, germoglieranno e cresceranno, chi da voi ha ricevuto, darà a sua volta a un altro. Come fate a sapere che ruolo avete nella soluzione futura dei destini umani? (Dostoevskij, L'Idiota)


Il criminale finisce con l'andare a denunciarsi al clero e a costituirsi nelle mani della giustizia. Ci si domanda quali torture lo aspettassero a quei tempi, quali ruote, roghi, ferri ardenti? Chi lo spinse ad andare a denunciarsi?... C'era qualcosa di più potente dei roghi e dei ferri ardenti, più potente di un'abitudine ventennale! C'era un'idea più potente di tutte le disgrazie, le carestie, le vessazioni, la peste, la lebbra, di tutto quell'inferno che l'umanità non avrebbe sopportato senza quell'idea che dirige e guida il cuore e alimenta le sorgenti della vita! Mostratemi qualcosa che somigli a quella forza nel nostro secolo di vizi e ferrovie... anzi bisognerebbe dire nel nostro secolo di navi e ferrovie, ma io dico: nel nostro secolo di vizi e ferrovie perché sono ubriaco, ma sincero! Mostratemi un'idea che diriga l'umanità di oggi anche solo con la metà della forza che c'era in quei secoli. E osate poi affermare che le sorgenti della vita non si sono indebolite e intorbidite sotto questa "stella", sotto questa rete che avviluppa la gente. Non tentate di intimorirmi con il vostro benessere, le vostre ricchezze, la rarità delle carestie e la velocità dei mezzi di comunicazione! Le ricchezze sono aumentate, ma le forze sono diminuite; non c'è più una forza che diriga il pensiero, tutto si è rammollito, tutto e tutti sanno di marcio! Tutti, tutti, tutti noi sappiamo di marcio! (Dostoevskij, L'Idiota)
Il criminale finisce con l'andare a denunciarsi al clero e a costituirsi nelle mani della giustizia. Ci si domanda quali torture lo aspettassero a quei tempi, quali ruote, roghi, ferri ardenti? Chi lo spinse ad andare a denunciarsi?... C'era qualcosa di più potente dei roghi e dei ferri ardenti, più potente di un'abitudine ventennale! C'era un'idea più potente di tutte le disgrazie, le carestie, le vessazioni, la peste, la lebbra, di tutto quell'inferno che l'umanità non avrebbe sopportato senza quell'idea che dirige e guida il cuore e alimenta le sorgenti della vita! Mostratemi qualcosa che somigli a quella forza nel nostro secolo di vizi e ferrovie... anzi bisognerebbe dire nel nostro secolo di navi e ferrovie, ma io dico: nel nostro secolo di vizi e ferrovie perché sono ubriaco, ma sincero! Mostratemi un'idea che diriga l'umanità di oggi anche solo con la metà della forza che c'era in quei secoli. E osate poi affermare che le sorgenti della vita non si sono indebolite e intorbidite sotto questa "stella", sotto questa rete che avviluppa la gente. Non tentate di intimorirmi con il vostro benessere, le vostre ricchezze, la rarità delle carestie e la velocità dei mezzi di comunicazione! Le ricchezze sono aumentate, ma le forze sono diminuite; non c'è più una forza che diriga il pensiero, tutto si è rammollito, tutto e tutti sanno di marcio! Tutti, tutti, tutti noi sappiamo di marcio! (Dostoevskij, L'Idiota)


Certo, si può discutere, si può anche affermare che il cristianesimo non naufragherà se Cristo viene considerato come un semplice uomo, un filosofo benefattore, e che d'altra parte il cristianesimo non è né una necessità per l'umanità, né una sorgente di vita perenne..., ma che è la scienza che potrà ravvivare l'esistenza e proporre un ideale perfetto. Il mondo è pieno di queste discussioni. Ma noi, noi sappiamo come voi che tutto ciò non è che un'assurdità, noi sappiamo che Cristo considerato solo come uomo non è il Salvatore e la sorgente della vita, noi sappiamo che nessuna scienza realizzerà mai l'ideale umano, e che la pace per l'uomo, la sorgente di vita, la salvezza e la condizione indispensabile per l'esistenza di tutto il mondo è contenuta in queste parole: «II Verbo si è fatto carne», e nella fede in queste parole (Dostoevskij, I quaderni de "I Demoni")


«Ah, muso da ubriaco! Profani le icone e poi vieni a predicare Dio!»
Fedka rispose: «Io, vedi, Pëtr Stepanoviè, ti dico che è vero, le ho profanate, ma ho preso soltanto le perle, e poi cosa ne sai tu, forse una mia lacrima si è trasformata nel crogiolo dell'Altissimo, in quello stesso momento, per qualche offesa da me ricevuta, perché io sono proprio un orfano, che non ha neanche un rifugio. Tu, forse, saprai dai libri che una volta, nei tempi antichi un mercante, sospirando fra le lacrime e pregando proprio come me, rubò una perla dalla aureola della Santissima Vergine e poi, inginocchiatosi, pubblicamente, restituì tutta la somma deponendola davanti ai suoi piedi, e allora la Madre Ausiliatrice lo coprì con il suo velo davanti a tutti; fu un miracolo e le autorità ordinarono che fosse ricordato nei libri dello stato. Tu invece hai messo un topo, cioè hai insultato lo stesso dito di Dio. E se tu non fossi il mio padrone per diritto di famiglia, che ancora ragazzo portavo in braccio, allora ti avrei spacciato su due piedi!» (Dostoevskij, I demoni)


Ricordo che la tristezza che sentivo dentro di me era intollerabile, avevo addirittura voglia di piangere, ero sempre pieno di stupore e inquietudine. Il fatto che tutto ciò era straniero aveva agito in modo terribile su di me; questo riuscii a capirlo. L'ambiente estraneo mi uccideva. Mi ricordo che mi risvegliai completamente da tutte queste tenebre una sera a Basilea, al mio arrivo in Svizzera, e a risvegliarmi fu il raglio di un asino, una sera al mercato cittadino. Quell'asino mi colpì enormemente e chissà perché mi piacque in modo straordinario, e contemporaneamente mi parve che d'un tratto tutto si snebbiasse nella mia testa.»
«Un asino? Che strano» osservò la generalessa, «anzi, no, non c'è nulla di strano, qualcuna di noi potrebbe anche innamorarsi di un asino» osservò guardando corrucciata le ragazze che ridevano; «è successo anche nella mitologia. Continuate, principe.»
«Da allora amo enormemente gli asini. È addirittura una sorta di simpatia che sento dentro di me. Mi misi a chiedere informazioni su di loro, perché prima non ne avevo mai veduti, e immediatamente mi convinsi che erano animali utilissimi, gran lavoratori, forti, pazienti, poco costosi, tolleranti, e grazie a quell'asino d'un tratto tutta la Svizzera cominciò a piacermi, cosicché se ne andò del tutto la tristezza di prima.»
«Tutto questo è molto strano, ma possiamo anche lasciar da parte l'asino. Passiamo ad un altro argomento. Perché continui a ridere, Aglaja? E tu, Adelaida? Il principe ha raccontato splendidamente dell'asino. Lui l'ha visto di persona, ma tu che cosa hai visto? Sei stata all'estero, tu?»
«Io un asino l'ho veduto, maman» disse Adelaida.
«E io l'ho anche udito» rincalzò Aglaja. Tutt'e tre si misero di nuovo a ridere, e il principe rise con loro.
«È molto brutto da parte vostra» osservò la generalessa, «perdonatele, principe, in fondo sono buone. Io mi arrabbio continuamente con loro, ma le amo. Sono sventate, leggere, pazzerelle.»
«E perché?» rise il principe. «Anch'io al loro posto non avrei perduto l'occasione. Tuttavia io sono dalla parte dell'asino: l'asino è una persona buona e utile.»
«E voi siete buono, principe? Ve lo domando per curiosità» chiese la generalessa.
Tutte si misero nuovamente a ridere.
«Gli è tornato in mente di nuovo quel maledetto asino. Io non ci pensavo nemmeno!»
esclamò la generalessa. «Credetemi, principe, vi prego, non volevo fare alcuna...»
«Allusione? Oh, vi credo senza alcun dubbio!»
E il principe rideva senza riuscire a fermarsi.
«È una gran bella cosa che ridiate! Vedo che siete un buonissimo giovane» disse la
generalessa.
«A volte sono cattivo» rispose il principe.
(Dostoevskij, L'Idiota)

view post Posted: 11/1/2015, 19:04 Sogno - Aforismi
«A noi è concesso soltanto sognare. Sognare è la necessità più urgente perché la nostra vita è al di là del reticolato, e oltre il reticolato ci può portare solamente il sogno. Bisogna sognare: aggrapparsi alla realtà coi nostri sogni, per non dimenticarci d’esser vivi. Di queste inutili giornate fatte di grammi, di cicche o di miseria, la sola parte attiva, la sola parte vitale saranno i nostri sogni. Bisogna sognare: e, nel sogno, ritroveremo valori che avevamo dimenticato, scopriremo valori ignorati, ravviseremo gli errori del nostro passato e la fisionomia del nostro avvenire. Sediamoci fuori della baracca: proiettiamo le visioni del nostro desiderio sullo schermo del cielo libero e sogniamo (gli occhi bene aperti e la mente vigile) costruendo noi stessi la trama della vicenda immaginaria, soggettisti, registi, attori, operatori e spettatori del nostro sogno». (Giovannino Guareschi, Diario clandestino (1943-1945)
view post Posted: 1/12/2014, 18:41 Rientrare in sé - Aforismi
Immaginiamoci dunque che i sensi e le potenze – che secondo il paragone adottato, sono gli abitanti del castello – siano fuggiti fuori e vivano da giorni ed anni con gente straniera, nemica del bene del castello. Riconoscendo finalmente il loro torto, ritornano, si avvicinano al castello, ma non si decidono ad entrarvi per la tirannia della cattiva abitudine contratta. Tuttavia, girano intorno e non tradiscono più.
Il gran Monarca che risiede nel castello, vedendo la loro buona volontà si lascia impietosire, e nella sua grande misericordia decide di chiamarli a sé. A guisa di buon pastore, emette un fischio tanto soave da non esser quasi percepito, ma con il quale fa loro conoscere la sua voce, acciocché lasciata la via della perdizione, rientrino nel castello. E ciò fanno immediatamente, perché quel fischio è di così grande efficacia da districarli da tutte le cose esteriori fra le quali vivevano. Mi sembra di non essermi mai spiegata così bene come in questo momento.
Quando il Signore accorda questa grazia, si ha un aiuto particolare per cercar Dio in noi stessi. Qui lo si trova meglio e con maggior profitto che non nelle creature, e qui afferma d’averlo trovato anche S. Agostino dopo averlo cercato altrove. (S. Teresa, Il Castello interiore)
view post Posted: 1/12/2014, 18:11 Estasi - Aforismi
Quando Sua Maestà si compiace di accordare qualche grazia soprannaturale, l’acqua fluisce nel più profondo dell’anima con pace, dolcezza e tranquillità inesprimibile, senza che si sappia da dove e in che modo scaturisca. Si tratta di gioie e di diletti che, sebbene da principio non si facciano sentire nel cuore, come quelli del mondo, in seguito inondano ogni cosa. L’acqua si riversa per ogni mansione e in tutte le potenze, sino a raggiungere il corpo: perciò ho detto che comincia in Dio e finisce in noi. In questo gusto e soavità l’uomo esteriore va tutto immerso, come sa bene chi l’ha provato... Appena l’acqua celeste comincia a sgorgare dalla sua sorgente, vale a dire dal profondo di noi stessi, sembra che il nostro interno si vada dilatando ed ampliando, empiendosi di beni eccellenti ed ineffabili, tanto che la stessa anima non sa comprendere ciò che allora riceve. Sente come una specie di profumo, quasi che nel fondo del nostro interno vi sia un braciere sul quale vengano gettate squisitissime essenze odorose.
Il fuoco non si vede, né si sa dove sia, ma il calore e il fumo odoroso penetrano tutta l’anima, arrivando spesso, come ho detto, ad investire anche il corpo.
Badate bene d’intendermi! Non si sente né calore, né odore, ma un qualche cosa di più delicato. Se mi servo di questi paragoni, è per farmi capire...
Non è questa una cosa che si possa immaginare di sentire, perché non vi riusciremmo neppure impiegandovi tutte le nostre diligenze.
E da ciò si vede che non è opera del nostro metallo, ma dell’oro purissimo della Sapienza divina. Benché le potenze non mi sembrino ancora nell’unione, pure vi si trovano come assorte, rapite di meraviglia innanzi a ciò che succede.
(S. Teresa, Il Castello interiore)

Migliaia di schiavi scientifici lavorano ad un solo scopo: rendere possibile ad altri due uomini di eseguire per alcuni minuti dei salti impacciati in un luogo che nessun essere ragionevole vorrebbe frequentare. Facciamo un confronto con le esperienze dei mistici! Completamente soli, senza alcun aiuto, ordinano alla loro anima di lasciare il corpo e la guidano al di là del mondo materiale, a percepire Dio in tutto il suo splendore. Questa è un’esperienza al cui confronto il triste circo della luna non è che una ridicola farsa che, in un mondo sicuramente altrettanto ridicolo, fa una grande impressione (Paul K. Feyerbend)

Edited by fra roberto - 5/5/2015, 14:19
view post Posted: 21/11/2014, 16:01 Madre - Maternità - Aforismi
Alice di Montbar sapeva cosa voleva dire avere dei figli. Sapeva che avrebbe dovuto soffrire e soffrire immensamente; ma sapeva anche che avrebbe cooperato con Dio ad una delle sue opere più grandi. Per lei la maternità era un vero atto di religione, un atto che la congiungeva più strettamente al suo Creatore. Sì, e lasci, Federico, che le dica qualche cosa di più. Se mai ci fu una donna che s’avvicinò al sacerdozio, quella donna fu la Signora di Fontaines; perché, non appena veniva alla luce un bimbo, ella se lo stringeva al seno come fa qualsiasi madre di questo mondo e diceva lei pure quelle parole così significative e meravigliose sul labbro d’una madre: “Figlio mio!”; ma poi immediatamente, come raccogliendosi, alzava il bimbo sulla patena delle sue mani e lo offriva a Dio con parole che equivalevano a una consacrazione: “Questo è figlio vostro, o Signore. Voi l’avete affidato a me. Vi ringrazio per tanta fiducia e, col vostro aiuto, cercherò di custodire fedelmente questo tesoro”. Quindi riabbassava il bambino e se lò stringeva nuovamente al cuore, come se volesse comunicarsi con lui. In verità, un tale atto richiamava molto da vicino quello della Messa. (Raymond, La famiglia che raggiunse Cristo)
view post Posted: 2/11/2014, 12:07 VEGLIA DEI SANTI - Liturgia
Dal Libro del Levitico (cap. 19-20)
Il Signore disse ancora a Mosè: «Parla a tutta la comunità degli Israeliti e ordina loro: Siate santi, perché io, il Signore, Dio vostro, sono santo. Ognuno rispetti sua madre e suo padre e osservi i miei sabati. Io sono il Signore, vostro Dio. Non rivolgetevi agli idoli, e non fatevi divinità di metallo fuso. Io sono il Signore, vostro Dio. Quando offrirete al Signore una vittima in sacrificio di comunione, offritela in modo da essergli graditi. La si mangerà il giorno stesso che l’avrete immolata o il giorno dopo; ciò che avanzerà fino al terzo giorno, lo brucerete nel fuoco. Se invece si mangiasse il terzo giorno, sarebbe cosa abominevole; il sacrificio non sarebbe gradito. Chiunque ne mangiasse, porterebbe la pena della sua iniquità, perché profanerebbe ciò che è sacro al Signore; quel tale sarebbe eliminato dal suo popolo. Quando mieterete la messe della vostra terra, non mieterete fino ai margini del campo, né raccoglierete ciò che resta da spigolare della messe; quanto alla tua vigna, non coglierai i racimoli e non raccoglierai gli acini caduti; li lascerai per il povero e per il forestiero. Io sono il Signore, vostro Dio. Non ruberete né userete inganno o menzogna gli uni a danno degli altri. Non giurerete il falso servendovi del mio nome; perché profaneresti il nome del tuo Dio. Io sono il Signore. Non opprimerai il tuo prossimo, né lo spoglierai di ciò che è suo; il salario del bracciante al tuo servizio non resti la notte presso di te fino al mattino dopo. Non disprezzerai il sordo, né metterai inciampo davanti al cieco, ma temerai il tuo Dio. Io sono il Signore. Non commetterete ingiustizia in giudizio; non tratterai con parzialità il povero, né userai preferenze verso il potente; ma giudicherai il tuo prossimo con giustizia. Non andrai in giro a spargere calunnie fra il tuo popolo né coopererai alla morte del tuo prossimo. Io sono il Signore. Non coverai nel tuo cuore odio contro il tuo fratello; rimprovera apertamente il tuo prossimo, così non ti caricherai d’un peccato per lui. Non ti vendicherai e non serberai rancore contro i figli del tuo popolo, ma amerai il tuo prossimo come te stesso. Io sono il Signore. Se un uomo si rivolge ai negromanti e agli indovini per darsi alle superstizioni dietro a loro, io volgerò la faccia contro quella persona e la eliminerò dal suo popolo. Santificatevi dunque e siate santi, perché io sono il Signore, vostro Dio. Osservate le mie leggi e mettetele in pratica. Io sono il Signore che vi vuole fare santi.



LA SANTITÀ (San Massimiliano M. Kolbe)

Falsa è l’idea, abbastanza diffusa, che i santi non siano stati simili a noi. Anch’essi erano soggetti alle tentazioni, anch’essi cadevano e si rialzavano, anch’essi si sentivano oppressi dalla tristezza, indeboliti e paralizzati dallo scoraggiamento. tuttavia, memori delle parole del Salvatore: “Senza di me non potete far nulla”e di quelle di san Paolo: “Tutto posso in colui che mi dà forza” non confidavano in se stessi, ma, ponendo tutta la loro fiducia in Dio, dopo ogni caduta si umiliavano, si pentivano sinceramente, purificavano l’anima nel sacramento della penitenza e poi si mettevano all’opera con un fervore ancora maggiore. In questo modo le cadute servivano ad essi quali gradini verso una perfezione semprebmaggiore e diventavano sempre più leggeri. Allorché santa Scolastica chiese al fratello San Benedetto che cosa fosse necessario per raggiungere la santità, ottenne questa risposta: “Bisogna volere”.


A CHE PUNTO SONO? (Beato Alberto Marvelli)

Come sono passati per me questi anni? Quali progressi ho fatto nella vita spirituale; gli avvenimenti, i dolori, le sofferenze, i sacrifici, le gioie hanno saputo insegnarmi qualche cosa, hanno accresciuto la mia fede, la mia speranza, la carità? Sono progredito, insomma o sono rimasto staticamente fermo o, peggio, ho peggiorato? Voglio analizzare a fondo la vita di questi anni, l’attuale tenore spirituale, voglio fare un accurato e meticoloso esame di coscienza, necessario dopo tanto tempo.
Voglio abituarmi di nuovo a riflettere, a pensare, a meditare, perché sento purtroppo che l’attività intensa di questi ultimi anni è andata a discapito della vita interiore, perché mi accorgo che penso poco, che medito poco, che tiro avanti così alla buona, per tradizione, per abitudine, per inerzia, per spinte estranee, nell’attività professionale e apostolica e politica e caritativa. Sento che i problemi che quotidianamente risolvo non sono frutto di un ripensamento interiore, di uno studio profondo, non sono infine una cosa sentita, sofferta, vissuta, amata, ma una normale, piatta, scialba espressione di una volontà qualunque. A forza di acconsentire, di cedere su qualche punto dei programmi di vita passata, di non approfondire per mancanza di tempo, di voler abbracciare troppo, di voler dare lo spolvero a troppe cose, di volermi interessare di tutto, sto diventando un superficiale, uno che si lascia entusiasmare od abbattere da un discorso o da un articolo, una mezza cartuccia, uno che non ha idee radicate, profonde, decise. Manco di costanza e di fermezza nei propositi, la volontà non risponde più come una volta o forse non ha mai risposto a tono. Abituarsi a esercitare la volontà anche nelle piccole cose è sommamente utile: trascurare questo porta a conseguenze gravi. Non sento più entusiasmo sincero, duraturo per qualche opera, come sentivo per l’Azione Cattolica una volta. Pur dedicandomi a varie attività apostoliche, caritative, assistenziali, politiche, non ho quello slancio che ci vorrebbe, sono un trascinato, lo sento, non un trascinatore, sono un rimorchiato che vive di rendita, per la bontà degli altri, e della fama immeritata di altri tempi. Vorrei lavorare qui, là, vorrei mettere a posto su e giù, ma all’atto pratico se non ricevo l’imbeccata, non marcio. Tutte le idee vengono dagli altri, io sembra che faccia tutto e faccio niente; figuro un attivo degno di essere additato ad esempio, e giro a vuoto, brancolando qua e là, come un mulino a vento, senza concludere. Non do un tono alle mie attività, mi sembrano estranee, pur essendo desideroso di vivere per esse.
Forse è il troppo lavoro professionale? Le preoccupazioni materiali presenti e dell’avvenire? Sì, certo, influiscono non poco, ma è sempre e rimane mia la colpa di questo stato di cose. Più volontà ci vuole, più serietà, più costanza, più studio, più raccoglimento, più meditazione. Qui casca l’asino, è inutile pretendere di voler farsi santi, di essere apostoli, di apparire attivi lavoratori se non si medita, se si corre dietro a ogni pensiero, anche frivolo, se non si è capaci di imporsi un più vivo raccoglimento, un senso critico (buono) di osservazione, un’autonomia di riflessione nei problemi, una sensibilità viva per tutti quei fenomeni spirituali, politici, sociali, religiosi che si verificano intorno a noi. Tutte le idee e le proposte che vengono da una parte si approvano e sembrano buone, le altre si bocciano: perché sono buone, perché sono cattive, quali i lati buoni, quali gli inconvenienti, quali i punti deboli? Bisogna abituarsi a esaminare ogni idea, e studiare e meditare e ripensare. Non voglio essere un peso morto, un burattino che, finita la carica, casca in terra inutile, un fuoco fatuo che si dilegua alla prima brezza contraria, una brina che si scioglie al primo sole. Il Signore mi ha dato una intelligenza, una volontà, una ragione: ebbene, queste devo adoperarle, tenerle in esercizio, farle funzionare. Se non si adoperano si arrugginiscono e si finisce per essere delle nullità, dei terra terra, dei lombrichi che strisciano, senza un’idea buona, geniale, ardita; degli ignavi, a Dio spiacenti.


DONA, O GESÙ MIO, LUCE ALLA MIA LUCERNA! (San Colombano, abate)

Quanto sono beati, quanto sono felici “quei servi che il Signore, al suo ritorno, troverà ancora svegli”! (Lc 12,37). Veglia veramente beata quella in cui si è in attesa di Dio, creatore dell’universo, che tutto riempie e tutto trascende! Volesse il cielo che il Signore [Gesù] si degnasse di scuotere anche me, meschino suo servo, dal sonno della mia mediocrità e accendermi talmente della sua divina carità da farmi divampare del suo amore sin sopra le stelle, sicché ardessi dal desiderio di amarlo sempre più, né mai più in me questo fuoco si estinguesse! Volesse il cielo che i miei meriti fossero così grandi che la mia lucerna risplendesse continuamente di notte nel tempio del mio Dio, sì da poter illuminare tutti quelli che entrano nella casa del mio Signore! O Dio Padre, ti prego nel nome del tuo Figlio Gesù Cristo, donami quella carità che non viene mai meno, perché la mia lucerna si mantenga sempre accesa, né mai si estingua; arda per me, brilli per gli altri. Dégnati, o Cristo, dolcissimo nostro Salvatore, di accendere le nostre lucerne: brillino continuamente nel tuo tempio e siano alimentate sempre da te che sei la luce eterna; siano rischiarati gli angoli oscuri del nostro spirito e fuggano da noi le tenebre del mondo. Dona, dunque, o Gesù mio, la tua luce alla mia lucerna, perché al suo splendore mi si apra il santuario celeste, il santo dei santi, che sotto le sue volte maestose accoglie te, sacerdote eterno del sacrificio perenne.
Fa’ che io guardi, contempli e desideri solo te; solo te ami e solo te attenda nel più ardente desiderio. Nella visione dell’amore il mio desiderio si spenga in te e al tuo cospetto la mia lucerna continuamente brilli e arda.
Dégnati, amato nostro Salvatore, di mostrarti a noi che bussiamo, perché, conoscendoti, amiamo solo te, te solo desideriamo, a te solo pensiamo continuamente, e meditiamo giorno e notte le tue parole. Dégnati di infonderci un amore così grande, quale si conviene a te che sei Dio e quale meriti che ti sia reso, perché il tuo amore pervada tutto il nostro essere interiore e ci faccia completamente tuoi. In questo modo non saremo capaci di amare altra cosa all’infuori di te, che sei eterno, e la nostra carità non potrà essere estinta dalle molte acque di questo cielo, di questa terra e di questo mare, come sta scritto: “Le grandi acque non possono spegnere l’amore” (Ct. 8,7).
Possa questo avverarsi, per tua grazia, anche per noi, o Signore nostro Gesù Cristo, a cui sia gloria nei secoli dei secoli. Amen.


IL MIO DIO SI E’ FATTO CARNE PER FARMI DIO (Beata Angela da Foligno)
Mio Dio, fammi degna di conoscere l’altissimo mistero che proviene dall’infuocato e ineffabile tuo amore e dall’amore delle tre Persone della Trinità, il mistero cioè della tua santa Incarnazione, da cui ebbe inizio la nostra salvezza. L’Incarnazione compie in noi due cose: la prima è che ci riempie d’amore; la seconda che ci rende certi della nostra salvezza. O carità che nessuno può comprendere! O amore al di sopra del quale non c’è amore maggiore: il mio Dio si è fatto carne per farmi Dio! O amore sviscerato: hai disfatto te per far me nel momento in cui ti rivestivi della nostra carne. Hai disfatto te: non certo nel senso che da te e dalla tua divinità sia venuto a mancare qualcosa! L’abisso del tuo farti Uomo strappa alle mie labbra parole cosí sviscerate! Tu, l’Incomprensibile, che ti fai capire da tutti; tu, l’Increato, che ti sei fatto creatura; tu, l’Inconcepibile, che entri nella mente di tutti; tu l’Eterno Spirito, che ti fai toccare dalle mani degli uomini! Dio, fammi degna di gettare uno sguardo nella profondità di questo profondissimo amore che hai voluto mettere in comune con noi nella tua Incarnazione. Fammi degna, Dio increato, di conoscere il fondo del tuo amore e di comprendere la tua ineffabile carità, che hai messo in comune con noi quando in essa ci hai mostrato il tuo Figlio Gesù Cristo e ih tuo Figlio ci ha rivelato te come Padre. Fammi degna, Signore, di conoscere e comprendere il tuo inestimabile amore nei nostri riguardi fammi capace di penetrare la tuÓ inestimabile e infuocata carità, congiunta a quell’amore profondo con cui da sempre hai prescelto il genere umano a godere della tua visione. O dono che è sopra ogni dono, perché tu sei lo stesso Amore! O sommo Bene, ti sei degnato di farti conoscere come Amore, e ci fai amare questo Amore. Tutti quelli che verranno alla tua presenza, saranno appagati secondo l’amore che ti portano.



LA LUCE DI DIO (Beata Angela da Foligno)

Senza la luce di Dio nessun uomo si salva.
Essa fa muovere all’uomo i primi passi;
essa lo conduce al vertice della perfezione.
Perciò, se vuoi cominciare
a possedere questa luce di Dio, prega;
se sei già impegnato nella salita della perfezione
e vuoi che questa luce in te aumenti, prega;
se sei giunto al vertice della perfezione
e vuoi ancora luce per poterti
in essa mantenere, prega;
se vuoi la fede, prega;
se vuoi la speranza, prega;
se vuoi la carità, prega;
se vuoi la povertà, prega;
se vuoi l’obbedienza, la castità, l’umiltà,
la mansuetudine, la fortezza, prega.
Qualunque virtù tu desideri, prega.
E prega leggendo nel libro della vita,
cioè nella vita del Dio - Uomo Gesù,
che fu tutta povertà, dolore,
disprezzo e perfetta obbedienza.




NE’ PRESUNTUOSI, NE’ CONIGLI (San Luigi Orione)
... Non solo bisogna mantenere le posizioni, ma bisogna progredire, progredire, progredire! Non progredire è regredire! Come della virtù, come della grazia e vita spirituale, e così è delle istituzioni religiose: Non progredire è regredire. Bisogna fare; bisogna fare bene; bisogna fare di più, molto, ma molto di più! Non voglio dei presuntuosi, ma non voglio neanche dei conigli..., non voglio neanche gente fiacca; piccola di testa e di cuore, priva di ogni sana, moderna, necessaria e buona iniziativa, priva del necessario coraggio!
Confidare non in noi, ma in Dio, e avanti con animo alto, con cuore grande, con grande coraggio! Dio assiste e dà la forza! Che temere? Nei servi di Dio non deve mai entrare nessuno scoraggiamento: noi siamo soldati di Cristo, e perciò dobbiamo pregare, Guardare a lui, non temere mai: dobbiamo anzi aumentare un coraggio superiore di gran lunga alle forze che sentiamo: perché Dio è con noi! Non lasciatevi sgomentare dalle difficoltà o dal poco frutto, e state uniti nella carità di Gesù Cristo! La vostra vita sarà piena di tribolazioni e di spine... Ma non dubitate: Dio è con voi, se voi sarete umili e con Dio! Pigliatevi il vostro carico con fede, con viva fede e fiducia nel Signore, poiché il vostro carico vi viene da Dio, e Dio vi sta sempre vicino. Il vostro zelo sia non volubile, non incostante, non a salti, non indipendente, né insubordinato alla disciplina la più rigida, quale deve essere la disciplina vera religiosa; ma sia zelo fervente, costante, illuminato; zelo grande e infiammato, ma prudente nella carità. Ci vuole un illuminato spirito di intrapresa, se no certe opere non si fanno; la vostra diventa una stasi, non è più vita di apostolato, ma è lenta morte o fossilizzazione! Avanti, dunque! Non si potrà far tutto in un giorno, ma non bisogna morire né in casa, né in sacrestia: fuori di sacrestia! Non perdere d’occhio mai né la chiesa, né la sacrestia, anzi il cuore deve essere là, la vita là; là dove è l’Ostia; ma con le debite cautele, bisogna che vi buttiate ad un lavoro che non sia più solo il lavoro che fate in chiesa. Via, via, ogni pusillanimità! Lungi da noi ogni pusillanimità sotto la quale si nasconde, talora, la pigrizia e la piccolezza dell’animo. La pusillanimità è contraria allo spirito del nostro istituto, che è ardito e magnanimo


AMARE LE ANIME (San Luigi Orione)

Non saper vedere e amare nel mondo che le anime dei nostri fratelli.
Anime di piccoli, anime di poveri, anime di peccatori, anime di giusti,
anime di traviati, anime di penitenti, anime di ribelli alla volontà di Dio,
anime ribelli alla Santa Chiesa di Cristo, anime di figli degeneri,
anime di sacerdoti sciagurati e perfidi, anime sottomesse al dolore,
anime bianche come colombe, anime semplici pure angeliche di vergini,
anime cadute nella tenebra del senso e nella bassa bestialità della carne,
anime orgogliose del male, anime avide di potenza e di oro, anime piene di sé,
anime smarrite che cercano una via,anime dolenti che cercano un rifugio o una parola di pietà,
anime urlanti nella disperazione della condanna,
o anime inebriate dalle ebbrezze della verità vissuta:
tutte sono amate da Cristo, per tutte Cristo è morto, tutte Cristo vuole salve
tra le Sue braccia e sul Suo Cuore trafitto.
Vedere e sentire Cristo nell’uomo.



Nel cuore della Chiesa io sarò l’amore (santa Teresa di Gesù Bambino)

Siccome le mie immense aspirazioni erano per un martirio, mi rivolsi alle lettere di san Paolo, per trovarvi finalmente una risposta. Gli occhi mi caddero per caso sui capitoli 12 e 13 della prima lettera ai Corinzi, e lessi nel primo che tutti non possono essere al tempo stesso apostoli, profeti e dottori e che la Chiesa si compone di varie membra e che l’occhio non può essere contemporaneamente la mano. Una riposta certo chiara, ma non tale da appagare i miei desideri e di darmi la pace. Continuai nella lettura e non mi perdetti d’animo. Trovai così una frase che mi diede sollievo: «Aspirate ai carismi più grandi. E io vi mostrerò una via migliore di tutte » (1 Cor 12, 31). L’Apostolo infatti dichiara che anche i carismi migliori sono un nulla senza la carità, e che questa medesima carità è la via più perfetta che conduce con sicurezza a Dio. Avevo trovato finalmente la pace. Considerando il corpo mistico della Chiesa non mi ritrovavo in nessuna delle membra che San Paolo aveva descritto, o meglio, volevo vedermi in tutte. La carità mi offrì il cardine della mia vocazione. Compresi che la Chiesa ha un corpo composto di varie membra, ma che in questo corpo non può mancare il membro necessario e più nobile. Compresi che la Chiesa ha un cuore, un cuore bruciato dall’amore. Capii che solo l’amore spinge all’azione le membra della Chiesa e che, spento questo amore, gli apostoli non avrebbero più annunziato il Vangelo, i martiri non avrebbero più versato il loro sangue. Compresi e conobbi che l’amore abbraccia in sé tutte le vocazioni, che l’amore è tutto, che si estende a tutti i tempi e a tutti i luoghi, in una parola, che l’amore è eterno. Allora con somma gioia ed estasi dell’animo gridai: O Gesù, mio amore, ho trovato finalmente la mia vocazione. La mia vocazione è l’amore. Sì, ho trovato il mio posto nella Chiesa, e questo posto me lo hai dato tu, o mio Dio. Nel cuore della Chiesa, mia madre, io sarò l’amore ed in tal modo sarò tutto e il mio desiderio si tradurrà in realtà.


LAVORARE SOLO PER IL TUO AMORE (S. Teresa di Lisieux)

Mio Dio, Trinità beata, desidero amarti e farti amare,
lavorare per la glorificazione della santa Chiesa e la salvezza delle anime.
Desidero compiere perfettamente la tua volontà e giungere al grado di gloria
che tu nel tuo regno hai preparato per me.
Sento nel mio cuore immensi desideri ed è con fiducia che ti chiedo
di venire a prendere possesso della mia anima.
Resta in me come nel tabernacolo.
E se qualche volta dovessi cadere, il tuo sguardo divino purifichi subito la mia anima
bruciando ogni imperfezione, come il fuoco che trasforma in sé tutte le cose.
Mio Dio, ti ringrazio di tutti i doni che mi hai elargito, in particolare di avermi fatta passare
attraverso il crogiolo della sofferenza.
E’ con gioia che, nell’ultimo giorno, ti contemplerò, glorioso, con lo scettro della croce.
rreno spero di goderti nel tuo regno;
ma non voglio ammassare meriti per il cielo;
voglio lavorare solo per il tuo amore nell’unico desiderio di farti piacere,
di consolare il tuo sacro Cuore
e di salvare anime che ti ameranno per sempre.
view post Posted: 10/10/2014, 19:52 Creazione-Creatore - Aforismi
«Per conto mio nutro anzi la convinzione che in ogni minima creatura plasmata da Dio, quand’anche si tratti solo di una formichina, si celano più meraviglie di quante se ne possono immaginare» (Teresa d’Avila)

«L’opera del Signore è la creazione, la quale, ben considerata, porta chi la contempla alla considerazione del suo Creatore. Se tanta bellezza è nella creatura, quanta ce n’è nel Creatore? La sapienza dell’artefice risplende nella materia» (sant’Antonio di Padova)

San Paolo ci dimostra che questo mondo visibile ci fa conoscere il mondo invisibile e che questa nostra terra posta in basso contiene immagini di realtà celesti: così da ciò che è in basso possiamo salire a ciò che sta in alto e da ciò che vediamo in terra possiamo avere conoscenza e comprensione di ciò che sta nei cieli (Origene)

«Tutte le creature del mondo sensibile ci conducono all’infinito: perché sono le ombre, le descrizioni, le vestigia, le immagini, le rappresentazioni del primo, del saggissimo, dell’eccellente principio di tutte le cose; esse sono le immagini della Fonte, della luce; della pienezza eterna, del sovrano archetipo: sono dei segni che ci sono stati lasciati dal signore stesso» (san Bonaventura)

Le varie creature riflettono, ognuna a suo modo, un raggio dell’infinita sapienza e bontà di Dio (CCC)

Questo mondo sensibile è come un libro aperto a tutti e legato da una catena così che vi si possa leggere la sapienza di Dio, qualora lo si desideri (San Bernardo).

Oh abbondante grazia ond’ io presunsi
ficcar lo viso per la luce etterna,
tanto che la veduta vi consunsi!
Nel suo profondo vidi che s’interna,
legato con amore in un volume,
ciò che per l’universo si squaderna (XXXIII Paradiso)
view post Posted: 27/9/2014, 08:25 FONDAMENTI STORICI DEL CELIBATO SACERDOTALE - Storia della Chiesa Antica
FONDAMENTI STORICI DEL CELIBATO SACERDOTALE

di Christian Cochini S.J.


Sono trascorsi trent’anni dalla pubblicazione dell’Enciclica «Sacerdotalis Caelibatus», emanata da Papa Paolo VI. Trent’anni di ricerca, come auspicava il suo Autore, ma anche trent’anni di crisi. Non in misura maggiore di quanto avesse fatto il Concilio Vaticano II, né più di quanto avrebbero fatto le altre dichiarazioni del Magistero su tale questione, il documento papale in realtà non pose termine alla contestazione. Nel clima sociale saturo di erotismo degli anni ‘60, il dubbio che si era impadronito di molti riguardo al valore del celibato sacerdotale trovò con estrema facilità un terreno particolarmente fertile in cui moltiplicarsi. Alle motivazioni ampiamente sviluppate da Paolo VI per giustificare la disciplina della Chiesa Latina, risposero numerose voci che addussero altrettanti motivi per criticarle. Fu come se l’Enciclica, contrariamente al suo intendimento, avesse aperto un dibattito nel quale ciascuno si riteneva autorizzato ad intervenire, a proposito e a sproposito. Applaudito dai media, il matrimonio di molti sacerdoti si ammantò di un odore profetico e vi furono diversi teologi che misero in questione i fondamenti del celibato.

Trent’anni nel corso dei quali si verificarono non pochi drammi, ma che consentirono comunque alla Chiesa di esercitare un’azione di discernimento più profondo. Nel 1992, la diagnosi contenuta nell’Esortazione apostolica Pastores dabo vobis di Papa Giovanni Paolo II, grazie alla sua precisione e alla sua chiarezza, annunciò la conclusione della crisi. Frutto della riflessione collegiale dell’Episcopato del mondo intero al Sinodo del 1990, si può dire che il nuovo documento riscoprì «tutta la profondità dell’identità sacerdotale» e mostrò che solo «una conoscenza esatta e profonda della natura e della missione del sacerdozio ministeriale» poteva risolvere il problema. Il sacerdote non è e non sarà mai un «funzionario»; egli è unito a Cristo, Sacerdote Supremo e Buon Pastore, con un legame ontologico specifico che fa di lui, nel senso forte del termine, un alter Christus. L’imitazione della verginità di Cristo è anche, per quest’altro Cristo che è il sacerdote, una via sicura per assomigliare a Lui e, con Lui, «offrirsi per essa», la Chiesa, sua Sposa. Su questo fondamento teologico incontestabile il celibato sacerdotale ritrova la sua alta nobiltà. Nel manifestarne le radici evangeliche, l’Esortazione apostolica Pastores dabo vobis collega questa vocazione a Colui che, in modo unico ed irrepetibile, le può dare significato ed offrire a coloro che sono chiamati a viverla il centuplo in termini di amore e di paternità.

La storia a questo punto ci pone un problema. Se è vero che esiste un legame di questo tipo tra il celibato, – o la perfetta continenza – ed il sacerdozio ministeriale, che ne è stato dei primi sacerdoti, vale a dire degli apostoli? Paolo VI scriveva: «Gesù, che scelse i primi ministri della salvezza e li volle introdotti all’intelligenza dei misteri del regno dei cieli, cooperatori di Dio ad un titolo specialissimo, ambasciatori suoi, e li chiamò amici e fratelli, per i quali consacrò se stesso, affinché fossero consacrati nella verità, promise di ricompensare abbondantemente chiunque avesse abbandonato casa, famiglia, moglie e figli per il regno di Dio (N. 22). E possibile conciliare questi sorprendenti privilegi, questa intimità eccezionale con il Signore della quale godevano gli apostoli, con l’idea che essi abbiamo potuto non sentirsi interpellati dalla verginità del loro Maestro, dal suo invito a lasciare «ogni cosa» per seguirlo? Sono stati così «tardi di cuore nel credere», ed hanno essi, con il loro atteggiamento, incoraggiato i loro successori per molti secoli, a praticare liberamente il matrimonio dopo l’ordinazione? La questione è secondaria in rapporto alla teologia del sacerdozio, ma è assai rilevante per i nostri spiriti moderni, che comprendono con fatica come uno stile di vita sacerdotale, le cui motivazioni sono presentate come omogenee al Vangelo ed ispirate all’esempio di Cristo, abbia potuto essere considerato come facoltativo dagli apostoli; proprio loro, la cui missione era precisamente quella di far conoscere il Vangelo e di mostrare attraverso tutta la loro vita ciò che era e ciò che doveva essere un alter Christus. I numerosi libri o articoli apparsi dopo il Concilio, consacrati al celibato dei sacerdoti, si richiamano quasi sempre alla storia, sottolineando giustamente l’importanza del problema.

Per quanto riguarda la parte di mia competenza, ho iniziato le mie ricerche nel 1964, in preparazione al Dottorato in Teologia. Il punto di partenza fu il canone di un Concilio africano del 390 che, stranamente, faceva risalire l’obbligo della continenza clericale ad una tradizione apostolica. Eccone il testo:

Epigone, Vescovo di Bulla Regia, dice: «in un Concilio precedente si discusse sulla norma della continenza e della castità. Che si istruisca dunque (ora) con maggior impegno sui tre gradi, che, in virtù della loro consacrazione, sono vincolati dallo stesso obbligo di castità, voglio dire il vescovo, il presbitero e il diacono e che si insegni ad essi a conservarsi puri». Il vescovo Geneclio dice: «Come si è detto precedentemente, conviene che i santi vescovi ed l presbiteri di Dio, al pari del leviti, vale a dire coloro che sono ministri dei sacramenti divini, osservino una continenza perfetta per potere ottenere in tutta semplicità ciò che essi domandano a Dio; ciò che insegnarono gli apostoli e ciò che la tradizione stessa ha osservato, facciamo in modo di osservarlo anche noi». All’unanimità, I vescovi dichiararono: «Piace a tutti noi che il vescovo, il presbitero ed il diacono, custodi della purezza, si astengano (dal commercio coniugale) con la propria sposa, affinché coloro che sono al servizio dell’altare osservino una castità perfetta»[1].

Questo canone ebbe un ruolo importante nella storia della disciplina della continenza sacerdotale non solo in Africa, ma in tutta la Chiesa. Esso fu spesso invocato, nel corso dei secoli, per verificare o consolidare il legame tradizionale tra la disciplina del celibato e “l’insegnamento degli apostoli”. I primi a farvi ricorso furono i Padri Bizantini del Concilio “in Trullo” del 692, di cui parleremo più avanti. Pio XI, nel nostro tempo, vi si riferisce esplicitamente nell’Enciclica «Ad catholici sacerdotii fastigium» (1935)[2].

Questa constatazione, che fu per me una scoperta, mi spinse a scegliere il canone di Cartagine come filo conduttore. I Padri Africani avevano detto la verità? L’obbligo della continenza perfetta per i vescovi, i presbiteri ed i diaconi risaliva veramente agli apostoli, come essi affermavano in modo così deciso? Si rivelò necessario un triplice studio: fare un inventario completo dei documenti sul celibato dei chierici, sia per la Chiesa di Occidente che per la Chiesa di Oriente; verificare la loro autenticità; tentare, infine, una sintesi storica, alla luce di un principio ermeneutico appropriato. Presenterò ora, per grandi linee, questo lavoro[3].



1. Le principali testimonianze patristiche

Accanto al canone di Cartagine, troviamo nel IV sec. numerosi documenti pubblici, che fanno ugualmente risalire ai tempi apostolici la disciplina sulla continenza perfetta del clero. Essi sono, in ordine cronologico:

1 – La decretale Directa, del 10 Febbraio 385, inviata da Papa Siriaco al Vescovo Imero, metropolita di Tarragona[4]. Il Pontefice Romano ricorda al clero spagnolo il dovere della continenza perfetta, il cui principio è contentuo nel Vangelo di Cristo, ed aggiunge: «È per la legge indissolubile di queste decisioni che noi tutti, sacerdoti e diaconi, ci troviamo vincolati, a partire dal giorno della nostra ordinazione, (ed obbligati) a mettere i nostri cuori ed i nostri corpi al servizio della sobrietà e della purezza…»

2 – La decretale Cum in unum, inviata da Papa Siriaco agli episcopati di diverse provincie per comunicare loro le decisioni prese nel gennaio del 386 a Roma da un concilio di 80 vescovi[5].

Il documento insiste sulla fedeltà alle tradizioni trasmesse dagli apostoli, poiché «non si tratta di promulgare dei nuovi precetti, ma di fare osservare quelli che, a motivo dell’apatia e della pigrizia di certuni, sono stati trascurati». Tra le varie cose «stabilite con una costituzione apostolica e con una costituzione dei Padri» si trova anche l’obbligo alla continenza per i chierici che hanno ricevuto gli ordini maggiori. Un’osservazione importante: se l’Apostolo chiede di scegliere come vescovo , presbitero o diacono un “uomo sposato una sola volta”, è propter continentiam futuram, in vista della continenza che i candidati sposati avrebbero dovuto osservare dopo la loro ordinazione.

3 – La Decretale Dominus inter, di Siriaco (o forse di Damaso). Per rispondere a certi quesiti dei vescovi delle Gallie[6], il Papa si propone di richiamarli all’ordine «facendo conoscere le tradizioni»; in questo contesto egli parla dei vescovi, dei presbiteri e dei diaconi, riguardo ai quali, egli dice espressamente, «le divine Scritture, e non soltanto noi stessi, fanno obbligo di essere molto casti».

Queste tre Decretali rivestono un “importanza fondamentale per la storia delle origini del celibato dei chierici. Esse presuppongono, come cosa normale e legittima, l’ordinazione di numerosi uomini sposati. Costoro, a partire dal diaconato, sono comunque tenuti alla continenza perfetta con la loro sposa, se essa è ancora in vita, e l’infrazione di questa disciplina, frequente allora in certe provincie lontane da Roma come la Spagna e le Gallie, è condannata in quanto ritenuta contraria alla tradizione apostolica.

Per valutare l’esatta portata di questi documenti, è necessario ricordarsi che la Chiesa di Roma ha raggiunto molto presto una posizione assolutamente unica, in quanto testimone della Tradizione derivata dagli apostoli. Sant’Ireneo ha espresso quest’idea in una formula divenuta celebre: «con questa Chiesa, a motivo della sua origine più eccellente, deve necessariamente accordarsi ogni Chiesa, vale a dire i fedeli di ogni luogo, Chiesa nella quale sempre, a beneficio di tutte le genti, è stata conservata la Tradizione che deriva dagli apostoli»[7].

Questa posizione privilegiata della Sede «apostolica» consente di assicurare che i pontefici romani di questo scorcio del IV secolo si siano fatti garanti a nome di tutta la Chiesa di una tradizione del “celibato-continenza”[8] per i chierici che hanno ricevuto gli ordini maggiori e provengono dalla linea degli apostoli, e che abbiano impegnato in questa affermazione rutta la propria credibilità.
Numerosi autori patristici, sempre del IV secolo, parlano di una disciplina che richiede la continenza perfetta per i chierici che hanno ricevuto gli ordini maggiori. Possiamo limitarci ai più rappresentativi:
Sant’Epifanio di Salamina (315-403 circa). Nel suo Panarion, il vescovo di Cipro confuta i montanisti, che gettavano discredito sul matrimonio; niente di più contrario all’intenzione del Signore, che ha scelto i suoi apostoli non solo tra i vergini, ma anche tra i monogami. Tuttavia, aggiunge Epifanio, questi apostoli sposati praticarono in seguito la continenza perfetta e, seguendo l’esempio che Gesù, la regola della verità, aveva così tracciato per loro, fissarono a loro volta la norma ecclesiastica del sacerdozio[9]. Se in alcune regioni ci sono dei chierici che continuano ad avere dei figli, ciò non avviene in conformità agli autentici canoni ecclesiastici[10]. Nella postfazione del Panarìon, la disciplina generale vigente all’epoca è descritta chiaramente:

…in mancanza di vergini (il sacerdote viene reclutato) tra i monaci; se non ci sono monaci sufficienti per il ministero (si reclutino) tra gli sposi, che conservino la continenza con la loro spsa, o tra gli ex-monogami vedovi; tuttavia in essa (cioè nella Chiesa) non è consentito ammettere al sacerdozio l’uomo risposato, anche se egli mantiene la continenza o se è vedovo, (è scartato) dall ‘ordine dei vescovi, dei presbiteri, dei diaconi e dei suddiaconi [11].

L’Ambrosiaster (366-384 circa) tratta in due occasioni della continenza dei chierici. Nel commento alla prima lettera a Timoteo[12] sviluppa un’argomentazione simile a quella di Siriaco, di Ambrosio e di Girolamo; pur esigendo che il futuro diacono o vescovo sia unius uxoris vir, l’Apostolo non ha loro riconosciuto la libertà del commercio coniugale; al contrario «che essi sappiano bene di poter ottenere ciò che domandano, se si astengono per di più dall’uso del matrimonio». La stessa idea si riscontra nelle Quaestiones veteris et novi Testamenti, che testimoniano allo stesso tempo una visione sana della sessualità nobilitata dal Creatore, contrastante con il pessimismo manicheo o la diffidenza encratista nei confronti dell’«opera della carne». I requisiti richiesti dal sacerdozio sono eccezionali, perché fondati sul carattere eccezionale delle sue funzioni. Ministro di Cristo, di cui “ogni giorno fa le veci”, egli è consacrato “alla causa di Dio” e deve potersi “dedicare alla preghiera” ed al suo ministero in modo costante. L’antropologia che sta alla base di questi testi è di ispirazione paolina.

Sant’Ambrogio di Milano (circa 333-397) commenta anch’egli allo stesso modo l’Unius uxoris vir di San Paolo:

«Non è a generare figli durante (la sua carriera) sacerdotale che L’Autorità apostolica invita il sacerdote; (l’Apostolo) in effetti ha parlato di un uomo che ha (già) dei figli, non di qualcuno che ne generi (altri) o che contragga un nuovo matrimonio[13].
Altrove egli risponde all’obiezione, sollevata dai leviti dell’Antico Testamento, giustificando con un a fortiori, come i suoi contemporanei, la continenza perfetta richiesta ai sacerdoti della Nuova Alleanza[14].

San Girolamo (circa 347-419) ritorna più volte sul problema della continenza dei chierici, soprattutto nel corso della sua polemica con Gioviniano e Vigilante. Nell’Adversus Jovinianum, egli commenta Yunius uxoris vir della prima Lettera a Timoteo nello stesso senso di Siriaco: si tratta di un uomo che ha potuto avere figli prima della sua ordinazione, non di uno che continui ad averne dopo[15]. La lettera a Pammachio, da parte sua, sottolinea il legame di dipendenza tra la continenza dei chierici e quella di Cristo e di sua Madre, ambedue vergini.
Il Cristo Vergine e la Vergine Maria hanno consacrato per ambedue i sessi gli inizi della verginità: gli apostoli furono o vergini, o continenti dopo il matrimonio. Vescovi, presbiteri e diaconi sono scelti tra i vergini o tra i vedovi; in ogni caso, una volta ricevuto il sacerdozio, essi, osservano la castità perfetta[16].

L’Adversus Vigilantium, infine, attesta che la disciplina della continenza dei chierici è in vigore in vaste regioni dell’impero:

«Che farebbero le Chiese d’Oriente? Che farebbero quelle d’Egitto e quelle della Sede apostolica, esse che accettano solo i chierici vergini o continenti, o (se hanno avuto) una sposa, o solo se hanno rinunciato alla vita matrimoniale?»[17]

La disciplina che vieta il matrimonio dopo l’ordinazione e la disciplina della continenza perfetta, che impone ai chierici sposati prima della loro ordinazione l’astinenza dai rapporti coniugali, sono dunque ampiamente attestati a partire dal IV secolo dai migliori rappresentanti dell’epoca patristica

Numerosi documenti affermano l’origine apostolica di entrambe. Alcuni in termini espliciti, come le Decretali di Siriaco, o i concili africani; altri, come Epifanio, l’Ambrosiaster, Ambrogio o Girolamo, in modo indiretto, ma non meno certo. Non abbiamo alcun testo relativo a tale obbligo del celibato per i primi tre secoli, ma non ne abbiamo neppure che ne neghino motivatamente l’esistenza. È questo il motivo per cui si può considerare come sufficientemente giustificata la rivendicazione dell’origine di una legge risalente agli apostoli, così come si esprime nel IV secolo.


II. Alcuni problemi particolari

A guisa di contro-prova, conviene esaminare alcuni documenti che sollevano un problema particolare.

Il Concilio di Elvira

Il primo è il 33° canone del Concilio di Elvira (inizio del IV sec.)

«È parsa cosa buona vietare in senso assoluto ai vescovi, ai presbiteri ed ai diaconi, come pure a tutti i chierici impegnati nel ministero dì avere relazioni (coniugali) con la propria moglie e di generare figli: se qualcuno lo fa, che sia escluso dallo stato clericale»[18].

Al seguito di Funk[19], alcuni vi vogliono vedere il primo tentativo ufficiale per inaugurare una disciplina di continenza perfetta per il clero. Orbene, un esame attento del documento manifesta in tutta evidenza un contesto storico antecedente. In effetti, nulla è detto sulla libertà di usare del matrimonio che avrebbero avuto fino ad allora i chierici sposati. Considerata la natura dei requisiti richiesti, il silenzio dei legislatori su questo punto si comprende più facilmente nel caso in cui essi reiterino e confermino una pratica già in vigore, anziché nel senso contrario. Non si impone bruscamente a degli sposi la continenza perfetta, senza dire perché ciò che fino ad allora era permesso viene tutto d’un tratto vietato. Soprattutto, come in questo caso, se sono previste pene canoniche nei confronti di coloro che non ottemperano alle disposizioni impartite. Per contro, se si trattava di rimediare a delle infrazioni nei confronti di una regola già antica, si comprende come i vescovi spagnoli non abbiano provato il bisogno di giustificare un provvedimento tanto severo.

Il Concilio di Nicea

Il terzo canone disciplinare del concilio riguarda la castità dei chierici.

Il Concilio allargato ha vietato assolutamente ai vescovi, ai presbiteri, ai diaconi ed a tutti i membri del clero di tenere con sé una donna «co-introdotta», a meno che non si tratti della madre, di una sorella, di una zia o comunque di una persona superiore ad ogni sospetto[20].Si noti innanzi tutto che il testo non menziona le spose tra le donne che i chierici possono ospitare nelle proprie case, che è già il segno che ciò che sta dietro la decisione di Nicea è senza dubbio la disciplina della continenza perfetta. Questo risulta ancora più plausibile se pensiamo che i primi nominati, i vescovi, vi sono sempre stati sottomessi, sia in Occidente sia in Oriente, senza eccezione alcuna. D’altronde, questo terzo canone del primo concilio ecumenico, le cui decisioni costituirono

“la regola fondamentale che servì da modello ai concili locali ed ecumenici successivi nelle disposizioni da essi adottate”[21], è stato in seguito costantemente interpretato dai Papi e dai concili particolari nello stesso senso: mettere i vescovi, i presbiteri ed i diaconi, tenuti alla continenza perfetta, al riparo dalle tentazioni femminili e garantire la loro buona reputazione. Quando essi evocano il caso della sposa, è generalmente per autorizzarla a vivere con il marito ordinato, ma con l’esplicita condizione che anch’essa abbia fatto professione di continenza. Essa entrò così a far parte della categoria delle donne «superiori ad ogni sospetto».

Secondo lo storico greco Socrate, un curioso episodio si sarebbe verificato al concilio di Nicea. Il sinodo avrebbe voluto vietare ai vescovi, ai presbiteri ed ai diaconi di avere delle relazioni con le loro spose; su tale argomento un certo Pafnuzio, vescovo dell’Alta Tebaide, sarebbe intervenuto ed avrebbe dissuaso l’assemblea dal votare una legge simile, nuova – assicurò – e che avrebbe fatto torto alla Chiesa[22].
Questa storia oggi è generalmente considerata un falso per i seguenti motivi:

1.Socrate, che scrive la sua Stona Ecclesiastica nel 440, più di un secolo dopo il concilio di Nicea, non cita la sua fonte;

2.Tale racconto tardivo ha, d’altra parte, contro di sé la testimonianza di numerosi rappresentanti dell’epoca post-nicena. Per il periodo che va dal 325 al 440 non si trova in tutta la letteratura patristica alcuna allusione ad un intervento di Pafnuzio.

3.Il nome di Pafnuzio non figura tra i vescovi firmatari del Concilio di Nicea, come sostiene il Professor Winckelmann[23].

4.Infine, e soprattutto, l’aneddoto di Socrate non è per nulla in armonia con la prassi della Chiesa Greca a proposito del matrimonio dei chierici, contrariamente a ciò che a volte si è sostenuto. Nessun Concilio prima di Nicea ha mai autorizzato i vescovi ed i presbiteri a contrarre matrimonio, né ad usare del matrimonio che essi potevano avere contratto prima della loro ordinazione. Il Concilio Quininsesto, che al riguardo fisserà in modo definitivo la legislazione bizantina, conserverà saldamente la legge della continenza perfetta per il vescovo, mentre gli altri membri del clero, insigniti degli ordini maggiori, autorizzati a vivere con la loro moglie, saranno tenuti alla continenza temporanea. Gli Orientali non citano mai l’episodio di Pafnuzio. Il primo a menzionarlo sarà Matteo Blastares nel sec. XIV.

I chierici sposati nei primi secoli della Chiesa

La questione del matrimonio degli Apostoli

Un altro problema che merita di essere esaminato è quello sollevato dall’esistenza di numerosi chierici sposati nei primi secoli della Chiesa. Innanzi tutto la situazione di Pietro e forse di altri Apostoli sposati. Al momento in cui Cristo li chiamò alla sua sequela, essi lasciarono «tutto», compresa la propria moglie o hanno continuato come prima la propria vita coniugale? È una questione che ciascuno tende naturalmente a porsi oggi, lo abbiamo visto, e che è di un interesse evidente per verificare se la legge della continenza perfetta dei chierici risalga ad un’origine apostolica, come affermano i documenti del IV secolo. Quando i Padri africani del 390 assicurano di voler osservare «ciò che gli Apostoli hanno insegnato», essi si riferiscono non solo ad un insegnamento orale, ma prima di tutto all’esempio che, secondo loro, i Dodici consegnarono alla posterità. Questo esempio infatti ha svolto, indubbiamente, un ruolo determinante nella vita della Chiesa e nell’organizzazione della sua disciplina. Il Nuovo Testamento ci fornisce un solo esempio: il matrimonio di Pietro, quindi è alla Tradizione delle origini che occorre rivolgersi per avere ulteriori indicazioni.

L’indagine, condotta attraverso la letteratura cristiana dell’epoca, giunge alle conclusioni seguenti:

1) – All’infuori del caso di Pietro, non esiste alcuna tradizione generale e costante sulla quale ci si possa basare per affermare con certezza che qualche Apostolo abbia avuto moglie o figli né che fosse viceversa celibe. Esistono due eccezioni: l’apostolo Giovanni, che una tradizione quasi unanime riconosce essere stato vergine e l’apostolo Paolo, che la maggioranza dei Padri ritiene non sia mai stato sposato, o, al limite, che fosse vedovo.

2) – Riguardo al modo di vivere degli apostoli all’indomani della loro chiamata, i Padri affermano tutti, con la stessa sicurezza, che quelli che tra loro erano stati sposati, hanno poi interrotto la vita coniugale e praticato la continenza perfetta. Questo sorprendente consenso dei Padri su di un punto così importante costituisce un’ermeneutica autorevole applicabile ai passaggi del Vangelo ove si fa allusione al distacco dei discepoli: «Allora Pietro, prendendo la parola, disse: Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito…» (Mt 19, 27). «Ed egli rispose: in verità, vi dico: non c’è nessuno che abbia lasciato casa o moglie o fratelli o genitori o figli per il Regno di Dio, che non riceva molto di più nel tempo presente e la vita eterna nel tempo che verrà» (Lc. 18, 29-30). Il sentimento comune dei Padri, senza eccezione, era dunque che gli apostoli fossero stati i primi a lasciare tutto, compresa eventualmente la loro moglie, per il Regno di Dio. Ritroviamo qui un’eco della predicazione ufficiale dei primi secoli nei grandi centri cristiani nonché un solido argomento ispirato alla tradizione.

Esempi di chierici sposati nei primi quattro secoli

Nei primi secoli della Chiesa, vi sono numerosissimi vescovi, presbiteri e diaconi sposati e con figli. Le comunità cristiane dell’epoca, che vivevano intensamente del ricordo degli apostoli, consideravano effettivamente un fatto normale l’ammissione al ministero sacerdotale di uomini sposati. Questo era considerato un omaggio alla santità del matrimonio ed allo stesso tempo alla scelta del Signore che aveva chiamato Pietro e, forse, altri uomini sposati a lasciare tutto per seguirlo. I documenti pubblici ed altri testi patristici che abbiamo letto attestano indirettamente l’esistenza di questi chierici monogami. Per di più, i racconti dell’epoca e l’epigrafia hanno conservato il ricordo di un buon numero di essi. Dal momento che la verità e le scienze storiche hanno tutto da guadagnare da una conoscenza esatta dei fatti, mi sono adoperato a redigere, attraverso le fonti disponibili, una lista dei chierici sposati che potesse offrire una base di riflessione sufficientemente ampia[24]. Per quanto riguarda i primi sette secoli, duecentotrenta nomi di vescovi, presbiteri e diaconi sposati fanno ora parte del «dossier». Tra di loro ci sono molti personaggi illustri: il vescovo Antonio, di una Diocesi suburbicaria di Roma, che fu padre del Papa Damaso (366-384); il presbitero Giocondo, padre di Bonifacio I (416-419); il sacerdote Felice, padre di Felice III (483-492); il sacerdote Pietro, padre diAnastasio II (496-498); il sacerdote Giordano, padre di Agapito I (535-536); il Suddiacono Stefano, padre di Adeodato I (615-618) e il Vescovo Teodoro, originario di Gerusalemme, padre di Teodoro I (642-649). Papa Ormisda, nel VI secolo, ebbe per successore il proprio figlio Silverio (536-538) e San Gregorio Magno ci informa che il suo trisavolo era Felice III, a sua volta figlio di un sacerdote.

Citiamo ancora: Demetrio, Patriarca di Alessandria (il Vescovo di Origene); Gregorio l’illuminatore, primo “catholicos” armeno, e i suoi successori della dinastia gregoridea: i “catholicos” Verthanès, Nersès il Grande e Sahaq il Grande; Gregorio di Nissa; Gregorio di Nazianzo, detto l’Anziano; Sinesio di Cirene; Ilario di Poitiers; Paciano di Barcellona; Severo di Ravenna; Vittore di Numidia; Eucherio di Lione; Giuliano da Eclano; Sidoino Apollinare, vescovo di Clermont e molti altri.

L’esame dei singoli casi evidenzia l’importanza del concetto di celibato-continenza – o di continenza perfetta – in vista di una valutazione adeguata della realtà clerogamica alle origini della Chiesa. La questione alla quale deve cercare di rispondere uno storico attento in effetti è la seguente: questo chierico sposato ha continuato a convivere materialmente con la propria sposa anche dopo la propria ordinazione o è vissuto nella continenza perfetta? Ignorare o eludere la questione, come a volte si fa, equivale a sottovalutare un tratto essenziale della fisionomia del sacerdozio in questo periodo. La lista ci mostra che non esiste alcun esempio di chierico sposato, di cui si possa affermare che egli ha vissuto maritalmente con la propria sposa dopo l’ordinazione, in conformità con una consuetudine riconosciuta o con una disciplina ufficiale. Inoltre, i resoconti attestano che alcuni vissero nella continenza perfetta, accettando una disciplina ben stabilita, come nelle Gallie ed in Italia. In altri casi, come per la parte dell’Armenia in comunione con Roma, la storia dei “Catholicos” consente di supporlo fondatamente.

La disciplina delle Chiese d’Oriente

L’analisi dei documenti dei primi quattro secoli della Chiesa, relativi al celibato sacerdotale, offre alla sintesi delle basi sufficienti per fare del canone di Cartagine del 390 una chiave di interpretazione perfettamente sicura. Con l’affermazione: «Ciò che gli Apostoli hanno insegnato e che l’antichità ha sempre osservato, facciamo in modo di osservarlo anche noi», i Padri africani, noi possiamo già presumerlo, hanno espresso la verità della storia.

Ciononostante, ci rimane da esaminare un’ultima obiezione, poiché la tradizione delle Chiese orientali, che ammettono all’ordinazione degli uomini sposati ed in seguito chiedono loro solo una continenza periodica, crea evidentemente un problema. Il documento essenziale al riguardo è quello del Concilio Quinisesto, detto del Trullo, che resta – già è stato giustamente sottolineato – «l’ultima parola della disciplina ecclesiatica per la Chiesa greca»[25]. Ma anche la prima. Poiché prima di tale Concilio, celebrato alla fine del sec. VII a Costantinopoli, nessun sinodo orientale, occorre dirlo, votò una legge contraria alle norme sulla continenza perfetta dei membri del clero che hanno ricevuto gli ordini maggiori, così come li conosciamo dai testi che abbiamo incontrato nei secoli anteriori. L’Assemblea bizantina del 691 adottò sette canoni relativi al matrimonio ed alla continenza dei chierici, conservando più di un’usanza conforme a quelle della Chiesa Universale. Essi esigevano, in particolare, la separazione del vescovo sposato dalla sua sposa (ce. 12 e 48) e vietava ai presbiteri ed ai diaconi di contrarre matrimonio dopo la loro ordinazione (ce. 3 e 6). Tuttavia, sul punto della continenza richiesta ai presbiteri ed ai diaconi sposati, i Padri riuniti «sotto la Cupola» operano un’innovazione, autorizzando questi chierici a conservare la propria sposa e ad osservare unicamente una continenza periodica (c. 13).


Pur assicurando di volersi pienamente conformare «all’antica regola della stretta osservanza e della disciplina apostolica», essi mostrano, attraverso i riferimenti che essi stessi citano per giustificare la propria decisione, di allontanarsi dalla linea originaria. Due autorità tradizionali, in effetti, vengono invocate dal canone trullano: il Concilio di Cartagine del 390 ed il VI dei canoni cosiddetti “apostolici”. A proposito di questi ultimi, il loro carattere apocrifo non consente di riconoscerli come una testimonianza sicura sulla disciplina. E a maggior ragione, tenendo conto di quanto si legge nel VI canone: «Che nessun vescovo, presbitero o diacono allontani la propria sposa con il pretesto della pietà…». Il Concilio Quinisesto parla solo dei presbiteri e dei diaconi, e tale intenzionale omissione lascia perplessi, D’altra parte, la citazione del canone di Cartagine, ispirata al Codex canonum Ecclesiae Africanae del 419, è stata anch’essa fatta oggetto di un emendamento. Laddove i Padri africani dicono: «Conviene che i santi vescovi e i presbiteri di Dio, come pure i leviti..osservino una continenza perfetta», i Bizantini correggono, e decidono che «anche i suddiaconi…i diaconi ed i presbiteri si astengano dalle loro mogli nei periodi che sono loro particolarmente (assegnati) ” (kata tous idious orous). Così, la menzione dei vescovi è scomparsa e la continenza richiesta ai chierici «che toccano i santi misteri», è solo temporanea. Si tratta di un errore o di un travisamento? In ogni caso, la testimonianza principale sulla quale si fonda il Concilio Trullano per giustificare l’usanza del matrimonio di presbiteri, diaconi e suddiaconi, è in effetti un documento conciliare che, in un modo incontestabile, esige da costoro la continenza perfetta e fa risalire quest’ obbligo alle origini della Chiesa.

L’oggettività storica non sembra, dunque, potersi fondare sulla certezza che sarebbe necessaria l’ipotesi secondo la quale le Chiese d’Oriente dipenderebbero da una tradizione apostolica, mentre la disciplina della continenza perfetta nella Chiesa Latina sarebbe il frutto di un’evoluzione tardiva. Tutto indica piuttosto il contrario: è la Chiesa Latina che ha conservato, per quanto concerne la continenza perfetta per i vescovi, i presbiteri e i diaconi, la tradizione della Chiesa indivisa, inaugurata dagli apostoli, mentre i vescovi orientali della fine del sec. VII, a motivo di circostanze particolari, se ne sono allontanati ed hanno orientato il futuro del loro clero in una direzione nuova[26].

Nonostante le loro forzate interpretazioni del canone africano, i Padri bizantini del 691 vi si riferiscono come ad fondamento essenziale per poter risalire ai tempi apostolici, dimostrando in tal modo tutta l’importanza del Concilio di Cartagine del 390 per la storia della legge sulla continenza sacerdotale.


III. Tentativo di sintesi storica


I documenti presentati in precedenza formano la parte analitica del dossier sulle origini del celibato sacerdotale. Essi consentono di intravedere la sintesi, poiché la ricostruzione di una storia della continenza perfetta del clero, che ha il suo punto di partenza il tempo degli apostoli, sembra già come il risultato logico di una serie di testimonianze convergenti.Per avviarsi con sicurezza sulla via della sintesi storica, occorre anzitutto richiamarsi ad un punto fondamentale nello sviluppo del cristianesimo, vale a dire l’esistenza della Tradizione orale. Essa è attestata in due lettere di San Paolo: «Fratelli, state saldi e mantenete le tradizioni che avete appreso così dalla nostra parola come dalla nostra lettera», scrive ai Tessa-lonicesi (2 Thes. 2,15); ed ai cristiani di Corinto: «Vi lodo poi perché in ogni cosa vi ricordate di me e conservate le tradizioni così come ve le ho trasmesse» (1 Cor. 11,2). I Padri si riferiscono spesso a queste parole di San Paolo e ritengono che restare fedeli alle tradizioni ricevute «dalla viva voce» equivalga a rimanere negli ordinamenti apostolici.Tenerne conto non significa certo non essere fedeli al metodo storico, come temono certuni, per i quali solo i documenti scritti fanno fede; significa, al contrario, dotare questo metodo dello strumento di ricerca più appropriato possibile al suo oggetto per i primi secoli del cristianesimo. Sottovalutarli, invece, significherebbe privarsi di uno strumento di conoscenza utile – e forse unico – grazie al quale si può conoscere ciò che è stato vissuto nella Chiesa prima di essere detto, e soprattutto scritto[27].
Notiamo pure che la tradizione orale sul celibato, alla quale ci rinviano le testimonianze del IV secolo e della Chiesa primitiva nel suo insieme è una delle tradizioni che si sono maggiormente fondate sulle ragioni teologiche. Effettivamente, le ragioni invocate per giustificare la disciplina della continenza perfetta per i chierici che hanno ricevuto gli ordini maggiori, sono, oltre alla fedeltà alla tradizione, delle considerazioni che riguardano la dottrina: funzione di intercessione del ministero sacerdotale, rapporto tra la continenza e l’efficacia della preghiera, superiorità della verginità e della continenza sul matrimonio. Su questi diversi punti, la disciplina bizantina che viene definita al Concilio Trullano del 691 è essa stessa in perfetta consonanza con tutto il pensiero patristico[28].Tale tradizione orale sul celibato sacerdotale è realmente di origine apostolica, come mostrano i nostri documenti?Il principio ermeneutico più appropriato per rispondere alla questione è quello enunciato da Sant’Agostino nella controversia con i Donatisti:

«Ciò che viene osservato da tutta la Chiesa ed è sempre stato mantenuto, senza essere stato stabilito dai concili, è considerato a giustissimo titolo come qualcosa che può essere stato trasmesso solo dall’autorità apostolica»[29].

Il valore fondamentale di questo principio si collega essenzialmente al fatto che la fedeltà verso la tradizione delle origini costituisce la regola della vita della Chiesa dei primi secoli. La tendenza generale dell’epoca patristica è di mantenere e di conservare il deposito trasmesso, e non di innovare; al punto tale che gli stessi eretici cercavano di coprire le loro novità con il manto degli apostoli. Formulando il suo principio, il Vescovo di Ippona riconosce che questo orientamento garantisce la possibilità di risalire alle sorgenti apostoliche, precisando allo stesso tempo le condizioni necessarie per eliminare i rischi di errori, che sono queste due: è necessario che un punto di dottrina o di disciplina «sia stato osservato da tutta la Chiesa e che sia stato sempre mantenuto».

La parte sintetica del nostro studio consiste, perciò, nel verificare in quale misura si può affermare che la disciplina della contenenza perfetta dei chierici, attestata dai documenti a partire dal IV secolo, sia stata “osservata da tutta la Chiesa” e se essa sia stata “sempre mantenuta” o meno.

1 - La tradizione del celibato-continenza dei chierici è stata osservata da tutta la Chiesa? Da un punto di vista storico possiamo con la massima sicurezza rispondere di sì, poiché vediamo degli uomini, che godono di una grande autorità morale ed intellettuale farsi garanti per tutta la Chiesa del loro tempo: non solo un Siariaco ed un Girolamo, ma anche molti altri con loro: Eusebio di Cesarea, Cirillo di Gerusalemme, Efrem, Epifanio, Ambrosio, l’Ambrosiaster ed i vescovi di Cartagine. In senso contrario, nessuna voce autorevole oppone a loro una sicura smentita. Più chiaramente ancora, abbiamo le testimonianze delle Chiese apostoliche ed, innanzi tutto, quella della Chiesa di Roma, la quale, attraverso le tre Decretali che ci sono note, è di un peso determinante. È a loro riguardo che Bellarmino non esita a dire: «Si deve credere senza ombra di dubbio che una cosa deriva dalla tradizione apostolica, se essa è ritenuta come tale nelle Chiese dove si conserva una successione senza fratture e continua a partire dagli apostoli»[30]. Ma ci sono anche le Chiese d’Oriente e d’Egitto, di cui parla Girolamo, quelle d’Africa, di Spagna e delle Gallie, che testimoniano tutte nello stesso senso. Anche su questo punto, nessun concilio in comunione con Roma attesta una tradizione diversa.

2 – Osservata da tutta la Chiesa dei primi secoli, la tradizione del celibato-continenza del clero è sempre stata mantenuta? Notiamo, anzitutto, che nel tempo che decorre dalle origini della Chiesa al periodo in cui vediamo la disciplina «osservata da tutta la Chiesa», nessuna decisione emanata da un’istanza gerarchica legittima prova l’esistenza di una pratica contraria. Effettivamente, i documenti autentici del concilio ecumenico di Nicea, contrariamente a ciò che la leggenda di Pafnuzio ha spesso fatto credere, non contengono alcuna decisione che consenta di supporre che la legge del celibato-continenza non esistesse prima del 325. D’altronde, nessuna Chiesa apostolica, né in Oriente né in Occidente, durante i primi secoli della Chiesa, mette in campo una tradizione diversa per contestare le Decretali di Siriaco (mentre la questione della data della Pasqua, ad esempio, diede luogo ad una celebre disputa). Infine è opportuno verificare se la disciplina del celibato-continenza non venga contraddetta dai testi della Scrittura, nel qual caso sarebbe vano pretendere di affermare che essa sia sempre stata mantenuta. Ora, non solo i testi scritturistici, che esortano alla continenza «per il Regno dei Cieli» manifestano una reale connessione tra il celibato ed il sacerdozio ministeriale, ma la consegna dell’Apostolo Paolo dell’«Unius uxoris virum», interpretata in modo chiaro dal Magistero della Chiesa nella persona di Siriaco e dei suoi successori come una norma apostolica destinata ad assicurare la continenza futura dei vescovi e dei diaconi (propter continentiam futuram) segnala, fin dalle origini della Chiesa, la comparsa di tale disciplina.Sembra che coesista l’insieme delle condizioni, pertanto, per poter ragionevolmente affermare che la disciplina del celibato-continenza per i membri del Clero che avevano ricevuto gli ordini maggiori veniva, nei primi secoli, «osservata da tutta la chiesa» ed era «sempre stata mantenuta». Il principio agostiniano che permette di riconoscere se una tradizione è veramente di origine apostolica, trova qui – ne sono convinto – una adeguata e giustificata applicazione.Come conclusione, vorrei sottolineare che la motivazione teologica fondamentale invocata nella letteratura patristica dei primi secoli per giustificare la disciplina della continenza perfetta del clero è la preghiera di intercessione.Il concilio di Cartagine del 390 la esprime in una formula precisa. Se i vescovi, i presbiteri e i diaconi si devono astenere dai rapporti coniugali, è «per potere ottenere in tutta semplicità quanto essi chiedono a Dio» {quo possint quod a Deo postulant impetrare). Quello che vale loro questo posto privilegiato nel dialogo con Dio, è che essi sono, sempre secondo il medesimo Concilio, «qui sacramentis inserviunt» (coloro che sono a servizio dei sacramenti divini), «qui sacramenta contrectant» (coloro che sono a contatto con i sacri misteri), «qui altari deserviunt» (coloro che sono incaricati del servizio dell’Altare). Tali espressioni qualificano indistintamente i tre gradi superiori dello stato clericale; esse indicano che un carattere comune comporta per tutti gli stessi obblighi e che il servizio dei sacramenta e dell’altare, vale a dire il servizio dell’Eucarestia, è il fondamento specifico della continenza che è loro richiesta. La liturgia eucaristica fa di colui che è al servizio dei misteri divini un mediatore, il quale, tramite la sua unione intima con l’unico Mediatore, – per lpsum, cum Ipso et in Ipso -, presenta a Dio le richieste degli uomini, suoi fratelli. A tale titolo, egli deve assicurarsi le condizioni richieste per un’efficace preghiera di intercessione, e la castità perfetta, ad imitazione di Cristo, è per lui garanzia di essere esaudito. Il commento del canone del concilio di Cartagine del 390 da parte del grande canonista bizantino Jean Zonaras, del sec. XII, sottolineerà perfettamente questa fondamentale idea della patristica.

«Costoro sono infatti intercessori tra Dio e gli uomini e, stabilendo un legame tra la divinità ed il resto dei fedeli, chiedono per il mondo intero la salute e la pace. Perciò, se essi si esercitano, come dice il canone, nella pratica di tutte le virtù e dialogano cosi nella massima fiducia con Dio, otterranno tutto ciò che avranno chiesto. Ma se questi stessi uomini si privano per colpa di loro stessi della libertà di parola, in che modo potranno dedicarsi al loro compito di intercessori a vantaggio degli altri?»[31].

La motivazione teologica centrale del celibato sacerdotale è quindi direttamente ispirata alla lettera agli Ebrei. Mostrando nel ministero dell’Eucarestia un mediatore al servizio degli uomini, chiamato a tale titolo ad una santità di vita caratterizzata dalla castità perfetta, essa colloca in una giusta prospettiva le altre ragioni invocate all’epoca per giustificare il celibato-continenza, in particolare il dovere della paternità spirituale (che sostituisce quello della generazione carnale), la necessità di rinunciare alla «carne» per avvicinare la “santità” di Dio, l’esempio da dare ai vergini ed ai continenti e, in una certa misura, la disponibilità per gli incarichi apostolici[32].

Si può misurare in tal modo come sia inesatto parlare di «continenza cultuale» o di «purezza cultuale», come è stato fatto troppo spesso per tentare di svalutare il motivo fondante della legge del celibato, fornendogli delle origini di qualità sospetta[33]. Tali espressioni sono cariche di risonanze pagane o filosofiche (soprattutto stoiche), che non sono in consonanza con lo spirito del cristianesimo. In realtà è la liturgia, e la liturgia eucaristica soprattutto, che, attualizzando il mistero pasquale, conduce il popolo cristiano, e ad un titolo speciale e permanente, il «servitore dell’altare», ad una identificazione al Cristo che prega e si offre al Padre per la salvezza del mondo. Nella celebrazione eucaristica è presente Cristo stesso; Dio-uomo che associa i suoi ministri alla sua persona ed al suo sacrificio, e non divinità impersonale o astratta generatrice di tabù irrazionali. È necessario dirlo chiaramente: c’è tanta differenza tra la «continenza cultuale» e la castità perfetta dei presbiteri di Gesù Cristo quanta può essercene tra i culti pagani, per quanto possano essere rispettabili, ed il sacrificio della Croce.

Nel fare riferimento agli apostoli come ai promotori della tradizione del celibato ecclesiastico, i Padri del IV secolo ci assicurano, inoltre, che questa tradizione è in armonia con il Vangelo, ben lungi dall’essergli estranea come vorrebbero, invece, i suoi detrattori. La storia e la teologia del sacerdozio sono uno nell’affermare che la continenza dei sacerdoti di Gesù Cristo si modella su quella dell’unico Sacerdote della Nuova Alleanza. È attraverso l’imitazione di Gesù Cristo e perché tale imitazione si perpetui nei loro successori, che gli apostoli hanno vissuto ed insegnato con il loro esempio la chiamata a lasciare tutto per seguirLo e diventare così strettamente associati alla sua mediazione redentrice. Infatti, ciò che è stato detto a proposito di Cristo nel Nuovo Testamento è stato sempre compreso come detto anche dei suoi Sacerdoti: «Ogni sommo sacerdote, scelto fra gli uomini, viene costituito per il bene degli uomini nelle cose che riguardano Dio, per offrire doni e sacrifici per i peccati» (Eb 5,1).

Nel corso dei secoli, la Chiesa non ha mai perso di vista questa linea essenziale, anche se l’accento si è spostato, a volte, su delle motivazioni relativamente secondarie, sebbene di un’importanza del tutto incontestabile, e nonostante che si sia potuta manifestare da parte di qualcuno la tendenza a ritornare all’Antico Testamento, «funzionalizzando» il servizio sacerdotale e dimenticando che, investendo la sua stessa persona, Cristo ha «portato ogni novità» [34]. Infatti, falseremmo pesantemente il senso dell”«a fortiori» utilizzato da Siriaco e dagli altri autori patristici, quando spiegano il passaggio dalla continenza temporanea dei leviti alla continenza perpetua dei sacerdoti della Nuova Alleanza, se vi vedessimo soltanto un salto quantitativo, mentre l’Eucarestia realizza un cambiamento radicale, che fa della castità dei suoi ministri una novità anch’essa senza precedenti.

L’identità del sacerdote, questo mistero che supera l’uomo e supera lo stesso sacerdote, non può essere espresso in modo migliore che con le parole della lettera agli Ebrei, che è servita da motivazione teologica alla legge del celibato fin dalle origini della Chiesa e che è stata ancora recentemente ricordata da Papa Giovanni Paolo II:

Fin dall’inizio, il Presbitero, come scrive l’autore della lettera agli Ebrei, «scelto fra gli uomini, viene costituito per il bene degli uomini nelle cose che riguardano Dio» (cf Eb. 5, 1). Ecco la migliore definizione dell’identità del Presbitero. Ogni Presbitero, secondo i doni che gli sono stati accordati dal Creatore, può servire Dio in differenti modi ed occuparsi, attraverso il suo ministero, di diversi settori della vita umana, avvicinandoli a Dio. Egli resta tuttavia, e deve restare tale, un uomo scelto tra gli altri e «costituito per il bene degli uomini nelle cose che riguardano Dio» [35].

Christian Cochini, s. j.

NOTE

[1] Corpus Chrislianorum, 149, p. 13: sottolineatura dell’Autore.

[2] AAS (1936) 26: «Nel sec. XI, i promotori della riflessione gregoriana si giovarono spesso di un argomento storico, che essi giudicarono decisivo. San Raimondo da Penafort, autore delle Decretali di Gregorio IX, nel sec. XIII, si disse ugualmente convinto dell’origine apostolica del celibato, soprattutto a motivo di due canoni del Concilio di Cartagine. Al Concilio di Trento, gli esperti della Commissione Teologica, incaricata di studiare le tesi luterane sul matrimonio dei chierici, lo conoscevano. Pio IV in proposito pensa di non poter fare di meglio che citarlo per spiegare ai principi tedeschi il suo rifiuto di rinunciare alla legge del celibato. In seguito, molti teologi e storici del periodo post-tridentino lo menzionarono nei loro studi. Nel “secolo dei lumi”, il gesuita F. A. Zaccaria fonda, tra l’altro, anche su questo testo una solida indagine, concludendo per l’origine apostolica del celibato dei chierici. Allo stesso modo il bollandista Jean Stiltinck, Agostino di Roskovany e Gustavo Bickell, nel sec. XIX utilizzeranno, a loro volta, il documento africano del 390 per giungere alle stesse conclusioni. Tutti sono profondamente persuasi che è legittimo e necessario passare attraverso il concilio di Cartagine per avviarsi con sicurezza nella ricerca storica delle origini della disciplina del celibato ecclesiastico.

[3] Cf. C. Cochini, Le origini del celibato ecclesiastico, Ed. Lethielleux, Pars, Le Sycomore, 1981; Traduzione in inglese: The apostolic origins of priestly celibacy, Ignatius Press San Francisco. 1990. Vedere anche le importanti opere di Alfonso Maria Card. Stickler, Der Klerikerzolibat, Seine Entwicklungsgeschichteund seine theologischen-Grundlagen, 1993 Karl Verlag, Germany, et de Roman Chocholij, Clerìcal Celibacy in East and West, Leominster, Fowler Wright Books, 1988

[4] PL 13, 1131b- 1147a

[5] PL 13, 1138a- 1139a

[6] PL 13, 1181a – 1194c

[7] Adversus Haereses, III, 2.2 S. CH 211, 33: sottolineatura mia.

[8] Con l’espressione «celibato-continenza» io indico la legge della continenza perfetta per i vescovi, per i presbiteri ed i diaconi sposati, per distinguerla dalla legge che si può chiamare del «celibato in senso stretto», che limita l’ammissione agli Ordini Sacri unicamente ai celibi. Nel prosieguo di questo articolo, le due espressioni: «legge di continenza perfetta» e «legge del celibato -continenza» sono generalmente identiche.

[9] Panarion (Adv. Haer.) Haer. 48, 9: GCS 31, 219-241.

[10] Panarion (Adv. Haer.) Haer. 59, 4: GCS £!, 367.

[11] Expositio de fide, 21 GCS 37, 522.

[12] PL 17,497.

[13] Ep. 63, 62-63: PL 16, 1257a.

[14] De officiis ministrorum: PL16, 104-105.

[15] PL 23, 257.

[16] CSEL 54, 365 e 386-387.

[17] PL 23, 340-341.

[18] Bruns H. T., Canones Apostolorum et Conciliorum saeculorum IV-VII, 2 Voll, Berolini 1839, II, 6. L’originale latino comporta una doppia negazione, che fa dire ai Padri Spagnoli il contrario del senso ovvio.

[19] Funk dichiara esplicitamente: «Il sinodo di Elvira del 300 segna una svolta. Il canone 33 di tale assise impone in effetti ai chierici che hanno ricevuto gli ordini maggiori…una continenza assoluta, mentre era stato permesso fino ad allora di proseguire la vita coniugale anche dopo l’ordinazione, se il matrimonio era stato celebrato prima di quest’ultima» (Cölibat und Priesterehe im christilichen Altertum, Paderbon 1897, p. 121-122). Come ha fatto notare un eminente canonista, Funk ci dà qui la prova di una spiacevole confusione tra il diritto e la legge scritta (Alfons Maria Kardinal Stickler, Der Kleriker Zölibat. Seine Entwicklungsgeschichte une seine theologischen Grundlagen, Kral Verlag, Abensberg 1993, p. 13).

[20] P. P. Joannu, o. c, I, 1, 25-26.

[21] Ortiz de Urbina, Nicée et Constantinople, Paris 1963, p. 117

[22] Socrate, Storia Ecclesiastica, I, 11 : PG 101b – 104b.

[23] F. Winkelmann, Paphnutios, der Bekenner und Bishof. Probleme der Koptisken Li-teratur=Wissenshaltliche Beitrage der Martin-Luther-Universitat Halle-Wuttenberg, 1968/1 (K2),p. 145-153

[24] Cf. C. Chochini, o. c, pp. 112 – 147; lista aumentata in «The apostolic origins of priestly celibacy». San Francisco 1990, pp. 87 -123.

[25] E Vacandard, Le origini del celibato ecclesiastico, Paris 1913, p. 101.

[26] Durante il lungo periodo, che va dal sec. IV al sec. VII, caratterizzato dal crollo dell’Impero romano d’Occidente, le invasioni barbariche, la spinta dell’arianesimo, la dissidenza nestoriana, la comparsa dell’Islam e la tragica fine dell’Africa cristiana – periodo di rivolgimenti, se tali possono essere definiti- la disciplina del celibato si conservò in Occidente, particolarmente grazie all’azione dei Concili e dei Papi. Le cose non andarono allo stesso modo in Oriente dove la Siria, la Palestina, la Mesopotamia e l’Egitto crollarono l’uno dopo l’altro, tra il 635 e il 642, nelle mani dei capi musulmani. Dei quattro Patriarcati Orientali, l’unico che resiste ancora è Costantinopoli. Ma sulle frontiere settentrionali, Bisanzio dovette affrontare le invasioni slave e bulgare, che ebbero una profonda influenza sulla civiltà ellenica. Questi rivolgimenti politici ebbero delle ripercussioni sulla vita intellettuale e morale. Gli storici di Bisanzio parlano di una «decadenza intellettuale profonda…Sembrava che il mondo cristiano stesse per soccombere, trascinato via dalla formibabi-le tempesta dell’Islam» (Cf. Ch. Diehl-G Marçais Histoire du Moyen -Age, III, Le monde Oriental de 395 à 1081, Paris 1936, p. 211-249; A. A. Vasiliev, Histoire de l’empire byzantin, I, Paris 1932, p. 255s). Allo stesso tempo, Bisanzio incontrava difficoltà sempre maggiori con Roma, iniziate con il caso sorto in occasione del XXVIIl Concilio di Calcedonia, nel 451, che riconosceva alla “nuova Roma” un’autorità patriarcale sui metropoliti delle Diocesi del Ponto, dell’Asia Proconsolare e della Tracia, ed era stato per questa ragione rifiutato dal Papa San Leone, essendo «in opposizione ai canoni di Nicea» e «in contrasto con i diritti delle chiese particolari». L’incomprensione reciproca non fece che aggravarsi in seguito, malgrado periodi di relativa calma. Tutto ciò spiega perché il Concilio Quinisesto si aprì in una certa atmosfera di ostilità nei confronti di Roma e prese le distanze nei confronti delle tradizioni latine. L’ortodossia restò salva, ma sulle questioni disciplinari del clero e della liturgia i 215 Padri greci, orientali e armeni, riuniti «sotto la Cupola» nel Palazzo Imperiale (in Trullo), si opposero più di una volta a Roma. Papa Sergio (687-701 ), di origine siriaca, dichiarò da parte sua di «preferire la morte», piuttosto che riconoscere «certi canoni (che) erano in contrasto con l’ordinamento della Chiesa» (Mansi, XII, 3).

[27] Mi sia permesso di citare ciò che il P. Stickler ha sottolineato nella prefazione del mio libro: «La valutazione storica (dell’autore) è appropriata all’insieme dei fenomeni dello sviluppo dottrinale e disciplinare nella Chiesa primitiva, un campo dove, assai di frequente per stabilire la verità, mancano testimonianze esplicite e scritte. Pertanto, non si può rifiutare di ammettere l’esistenza di ciò che non si trova esplicitamente affermato, o arrivare al punto di credersi obbligati a negare questa realtà. Facciamo un esempio: si negherebbe che un albero sia esistito per il fatto che, nel seme o nel germoglio appena spuntato dal seme, era ancora impossibile identificarlo o riconoscerlo? Il metodo corretto, al contrario, consiste nel dire precisamente che a partire dall’albero attuale, al quale era necessario del tempo per svilupparsi fino alla forma che permette di riconoscerlo, si può arrivare all’esistenza originale, nel seme e nell’arboscello, che sono della stessa natura dell’albero» (C. Cochini, op. cit., p. 6).

[28] Infatti, è anche in quanto «servitori dei divini misteri» e mediatori del popolo attraverso la preghiera che i chierici che hanno ricevuto gli ordini maggiori sono espressamente tenuti nelle Chiese Orientali ad astenersi dalle relazioni sessuali: continenza perfetta per i vescovi, continenza temporanea per i presbiteri e per i diaconi sposati

[29] Prima controversia generalis de Verbo Dei, lib. VII, IV, cap. IX, in Opera omnia, I, Paris 1870, p. 218.

[30] Prima controversia generalis de Verbo Dei, lib. IV, cap. IX, in Opera Omnia, I, Paris 1870, p. 218.

[31] PG138,32.

[32] Cf. H Trozze, Le célibat et la continence ecclésiastique dans l’Eglise primitive: leurs motivations, dans J. Coppens, Sacerdoce et célibat, Gembloux-Louvain 1971, pp. 333-371.

[33] Discorso per il XXX anniversario della «Presbyterirum Ordinis», 27 ottobre 1995, Osservatore Romano.

[34] Non si può fare a meno di richiamare qui le splendide pagine di P. de Lubac sul rapporto tra i due Testamenti.- «Perché l’Antico Testamento potesse essere compreso nel suo senso “vero”, nel suo senso “assoluto”, era a tutti gli effetti necessario che i tempi cambiassero che il Cristo venisse. Solamente lui poteva “infrangere il misterioso silenzio degli enigmi profetici”; solo lui poteva aprire il libro chiuso dai sette sigilli…» (Catholicisme, pp. 144s).

[35] Cf. ad esempio B. Verkamp, Cultic Purity and the Law of Celibacy, in Review for Religious (30) n. 2, March 1971, p. 215.

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L’umanità non ha bisogno di innamorati raziocinanti; per la semplice ragione che essi non si sposerebbero mai (Chesterton, Shaw)

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Shaw afferma: La regola assoluta è che non vi sono regole assolute. Non bisogna dire che è giusto mantenere le promesse, ma che può esser giusto mantenere una data promessa.
In sostanza si tratta di anarchia; né è dato vedere come sia possibile conciliare tanta anarchia nella vita privata con tanto socialismo nella vita pubblica. Ma pur trattandosi di anarchia, essa è scevra di quell’esuberanza e di quegli eccessi che le sono propri. È un’anarchia invece preoccupata e coscienziosa; un’anarchia penosamente delicata e guardinga, in quanto essa non intende fidarsi di esperienze scontate e seguire piste già battute; ogni singolo caso dovrebbe essere considerato ex novo sin dall’inizio, con la più oculata accuratezza ai fini dell’umano benessere; ogni uomo dovrebbe comportarsi come se fosse il primo essere umano sulla terra. Insomma, bisogna preoccuparsi costantemente del benessere dei nostri figlioli, senza accettare i consigli o i pregiudizi dei nostri padri.
Alcuni ritengono che tale anarchia indurrebbe l’uomo a distruggere nella sua furia le città più potenti. Io penso invece, che essa indurrebbe l’uomo ad avanzare per la strada come se camminasse su uova da bere. Né ritengo che tale esperimento di indole positivistica condurrebbe ad una sfrenata licenza; io penso invece che essa condurrebbe ad una gelida timidezza. Se all’uomo fosse proibito di risolvere i problemi etici in base ai dettami della morale od al consenso dei suoi simili, il suo comportamento sarebbe molto semplice; si limiterebbe a non risolverli. Il mondo, invece di divenire un nodo intricato da sciogliere, diverrebbe semplicemente un pezzo di orologeria troppo complicato per potersi toccare. Non credo che il significato dell’opera di Ibsen si identifichi con questi assurdi timori ; dubito persine che sia questo ciò cui lo stesso Shaw intendesse arrivare; ma non si può negare che sia sostanzialmente questo quanto egli ha detto (Chesterton, Shaw)

SHAKESPEARE
B. Shaw dovette acconciarsi a cercare in Shopenhauer incerte giustificazioni per i figli di Dio che inneggiavano alla Gioia. Egli la chiamò Volontà di Vita, termine inventato dai professori prussiani che, pur desiderando vivere, non c’erano riusciti. In seguito egli richiese agli uomini di adorare la Forza Vitale; come se fosse possibile adorare un punto esclamativo. Pur servendosi di tali concetti paludati di una nuova ed assurda terminologia (che fortunatamente è andata in briciole come un cattivo intonaco) egli era dalla parte della buona causa; la causa della Creazione contro la distruzione, la causa del sì contro il no, del seme contro la roccia, delle stelle contro l’abisso. La sua incomprensione per Shakespeare deriva in buona parte dal fatto che egli è un puritano, mentre Shakespeare è spiritualmente un cattolico. Il primo non fa che arrabattarsi per trovare la verità, il secondo si accontenta di sapere che la verità esiste. Il puritano è capace soltanto di irrigidirsi, il cattolico è tanto forte da potersi rilassare. Io penso che Shaw abbia completamente frainteso i momenti di pessimismo di Shakespeare, in quanto essi sono stati d’animo transitori che un uomo dalla fede salda può ben concedersi. Che tutto sia vano, che la vita sia polvere e l’amore cenere, sono inezie e celie cui un cattolico può anche abbandonarsi. Egli sa bene che esiste una vita che non è polvere ed un amore che non è cenere. E così come può concedersi più del puritano alla gioia, può più di lui sprofondare nella malinconia. La triste esuberanza di Amleto non è del tutto dissimile dalla gioiosa esuberanza di Falstaff. Queste non sono congetture; è quanto ci dice lo stesso Shakespeare. Nel momento stesso in cui Amieto da stura al suo pessimismo, egli avverte che si tratta solo di uno stato d’animo e non della realtà. Il cielo è una cosa celeste, solo per lui diventa un ammasso di fetidi vapori. L’uomo è la perla degli animali, a lui solo esso appare come la quintessenza del fango. Amleto è l’opposto dello scettico. Egli è un uomo il cui potente intelletto è in grado di credere molto più di quanto il suo debole temperamento non sappia suggerirgli. Ma questo poter conoscere qualcosa senza sentirla, questo poter credere in qualcosa senza averne fatta l’esperienza, costituisce un’antica e complessa attitudine del cattolico che il puritano non potrà mai comprendere. Shakespeare si abbandona alle sue melanconie (per lo più per bocca di reprobi e di falliti) ma la sua niente non si lascia mai sopraffare da tali stati d’animo. Il suo « vanitas vanitatum » non è, in sostanza, che un’innocua vanità. Alcuni lettori potranno non essere d’accordo con me nel definirlo un cattolico con la C maiuscola ; ma non potrebbero darmi torto se io lo definissi un cattolico con la e minuscola. È questo il punto fondamentale : Shakespeare non è stato in alcun senso un pessimista ; egli è stato, se mai, un ottimista tanto universale da essere in grado di compiacersi persino dello stesso pessimismo (Chesterton, Shaw)

MODERNITA'
Per B. Shaw infatti, i profeti avrebbero dovuto essere stati lapidati dopo e non prima che gli uomini avessero eretto loro un sepolcro. V’era una certa spavalderia di marca Yankee in quest’uomo che si adontava all’idea di dover essere soggetto ad una persona morta da trecent’anni; come diceva Mark Twain, gli abbisognava un cadavere più fresco cui obbedire (Chesterton, Shaw)

SHAKESPEARE
È vero che fu in gran parte tramite i suoi stessi difetti che Shaw intravide quelli di Shakespeare; ma v’era bisogno di un uomo abbastanza prosaico per resistere al fascino di tanto poeta, per la stessa ragione per cui non sarebbe del tutto errato mandare un sordo a distruggere la rocca delle sirene (Chesterton, Shaw)

MUSICA
Quando Shaw parla, mi posso render conto che vi sono alcune cose che non gli riesce di capire, ma quando ascolta della musica può darsi che egli capisca tutto, compreso Dio e me. Circa questo aspetto della sua personalità io debbo limitarmi ad un rispettoso agnosticismo; e forse non è male che vi sia qualche provincia oscura ed inesplorata nel carattere dell’uomo di cui ci si occupa. Essa tende a preservare due cose essenziali : la modestia nel biografo e il mistero nella biografia (Chesterton, Shaw)

MUSICA
La musica è bellezza, bellezza allo stato puro, bellezza in soluzione; bellezza allo stato liquido, in cui l’uomo può navigare a suo agio senza essere costretto a dir grandi verità o a negarle... La musica può essere romantica senza far ripensare a Shakespeare o a W. Scott, con cui ha avuto delle beghe personali; la musica può essere cattolica senza rammentargli la Chiesa Cattolica, che non conosce, ma che è convinto non gli piaccia. B. Shaw va d’accordo con Wagner musicista perché non si esprime a parole; se avesse avuto a che fare con Wagner uomo, sarebbe certamente venuto a parole con lui. Sono quindi indotto a pensare che l’amore di Shaw per la musica, che è di una importanza tale da meritare di essere menzionata per primo, se non proprio al principio di questo saggio, può essere considerato come la valvola di sicurezza emotiva del razionalista irlandese (Chesterton, Shaw)

ETERNA BATTAGLIA
C'è un'eterna battaglia in cui Blake sta dalla parte degli angeli e, cosa ben più difficile e pericolosa, dalla parte degli uomini sensati. La questione è così vasta e importante che è difficile affermarla anche in ragione della sua realtà. Perché in questo nostro mondo non andiamo avanti a scoprire piccole cose; andiamo avanti se scopriamo cose grandi. I dettagli li vediamo per primi, è il disegno generale che scopriamo molto lentamente. Alcuni muoiono senza averlo mai visto. Ci svegliamo tutti su un campo di battaglia. Vediamo certi squadroni galoppare dentro certe uniformi; innestiamo fantasie arbitrarie su questo o quel colore, su questa o quella piuma. Ma spesso ci richiede molto tempo renderci conto su che cosa verte la battaglia o chi sta combattendo chi. Si potrebbe dire, per insistere nella metafora, che molti uomini si sono uniti all'esercito francese per amore del blu della cavalleria; molti navigatori all'antica del XVIII secolo sono andati dai cinesi perché portavano i codini. È così facile andare contro ciò che sei veramente, per qualche accidentale somiglianzà a te. Puoi invidiare i riccioli di Ercole; ma non invidi i capelli ricci, finché non desideri essere un africano. Puoi dispiacerti di un naso corto, ma non sogni che cresca sempre più lungo fino a diventare la proboscide di un elefante. Aspetta a sapere su che cosa verte più o meno la battaglia, prima di correre ruggendo dietro a ogni reggimento che passa. Perché una battaglia è una faccenda complicata; in ogni esercito ci sono uniformi di colori diversi; ogni sezione di ogni esercito avanza con un'angolatura differente. Puoi immaginare che i Verdi stiano caricando i Blu esattamente nel momento in cui i due si stanno ricongiungendo per effettuare una sofisticata manovra militare. Potresti credere che due colonne di aspetto simile si stiano sostenendo l'un l'altra nel momento in cui stanno per spararsi a vicenda con cannoni, fucili e revolver. Così nel moderno mondo intellettuale vediamo bandiere di molti colori e fatti legati a molti interessi; l'unico elemento che non riusciamo a vedere è la mappa. Non possiamo rintracciare la semplice frase che ci dice quale sia l'origine del problema (Chesterton, Blake)

PUDORE
Prendiamo, per esempio, la nozione dello stare nudi. Penso che qui Blake sia in tutto e per tutto una sorta di rigido teorico. A dispetto della sua immaginazione e del suo umorismo, c'era un tocco di moralista in lui. Era osceno per principio. Così lo era, in gran parte, Walt Whitman. C'era qualcosa di questo perfezionismo pedante nelle evasioni di Blake. Come l'igienista insiste nel portare gli abiti Jager, lui insisteva nel non portare abiti. Dato che l'esteta deve portare i sandali, lui non deve portare nulla. Non è affatto privo di leggi; si piega alla legge della sua logica fuorilegge. Non c'è nulla di poetico in questa rivolta. William Blake era un poeta grande e autentico; ma su questo punto era del tutto impoetico. Walt Whitman era un grande e vero poeta; ma su questo punto era prosaico e pedante. Due uomini straordinari non sono poeti perché vogliono strappare il velo dal sesso. Al contrario, è perché tutti gli uomini sono poeti che tutti velano il sesso. L'aratore non ara di notte perché non sente alcuno speciale romanticismo nell'arare. Ama di notte, perché si sente particolarmente romantico nel sesso. In questo argomento Blake non solo era impoetico, ma molto meno poetico della massa degli uomini ordinali. Il decoro non è una convenzione ultracivilizzata. Il decoro non è domato, il decoro è selvaggio, selvaggio come il vento di notte. "Misterioso come la luna che sorge / di notte tra i pini di Var " Il pudore è qualcosa di troppo fiero ed elementare perché i moderni pedanti lo capiscano; stavo per dire qualcosa di troppo selvaggio. Ha in sé la gioia della fuga e l'antica timidezza della libertà. In questa materia Blake e Whitman sono solo dei moderni pedanti. Nel momento in cui mancavano di ammirare la reticenza sessuale, questi due grandi poeti semplicemente non comprendevano uno dei più grandi poemi dell'umanità (Chesterton, Blake)

CLERO
Abbiamo tutti avvertito lo stato di mente in cui si desidera sfasciare pastorali e mitre d'oro semplicemente perché sono d'oro. Tutti sappiamo quanto sia naturale, in certi momenti, sentire il profondo desiderio di prendere a calci un prete, semplicemente perché è un prete. Ma chiediamoci seriamente se, a lungo andare, l'umanità non sia più a suo agio con l'oro nella sua religione che con i colori scialbi: arriviamo alla conclusione che l'oro sulla croce o sulla stola da più gioia alla maggioranza degli uomini di quanto non dia pena, per un momento, a noi. Chiediamoci se davvero le religioni non operino meglio con un clero deputato ad accollarsi le fatiche della religione: la conclusione è che operano meglio. L'anticlericalismo è un umore generoso e idealistico; il clericalismo è una necessità pratica e permanente (Chesterton, Blake)

CRISTO
Vive con sano orgoglio e degnazione,
ed è questo per cui Cristo fu ucciso;
Fosse stato l'Anticristo, Gesù serpe,
avrebbe fatto tutto per piacerci,
strisciando nelle loro sinagoghe,
e non dando dei cani a sacerdoti e anziani
(W. Blake, citato in Chesterton, Blake)

AGNELLO DI DIO
Crediamo, almeno la maggior parte di noi crede, che il peccato esista. Crediamo (su basi del tutto insufficienti) che un drago non esista. Così rendiamo il drago irreale un'allegoria del peccato reale. Ma non è ciò che Blake intendeva quando rese l'agnello simbolo di innocenza. Intendeva che c'è veramente dietro l'universo un'eterna immagine chiamata l'Agnello, della quale tutti gli agnelli viventi sono copie o approssimazioni. Riteneva che l'eterna innocenza fosse qualcosa di reale e anche di terribile. Non avrebbe visto nulla di comico, non più di quanto l'Evangelista vedesse nulla di comico, nel parlare dell'ira dell'Agnello. Se ci fosse un agnello in una delle favole di Esopo, Esopo non sarebbe così sciocco da rappresentarlo come irato. Ma la Cristianità osa di più di Esopo, e l'ira dell'Agnello è il suo grande paradosso. Se c'è un agnello immortale, un essere la cui semplicità e freschezza sono rinnovate per sempre, allora è veramente e realmente un'idea più spaventosa rendere orribile e ostile quell'essere anziché sfidare il drago fiammante o l'oscurità o il mare. Nessun vecchio lupo o leone terreno è così terribile come una creatura sempre giovane - una creatura che è sempre appena nata. Ma il punto principale qui è più semplice. Blake non intendeva che la mitezza era vera e l'agnello solo una bella favola. Semmai, voleva dire che la mitezza era solo un'ombra dell'Agnello eterno. La distinzione è essenziale per chiunque si interessi a questa profonda spiritualità, che è l'unica durevole salute mentale dell'umanità. Il personale non è tanto una mera figura dell'impersonale; semmai, l'impersonale è un termine goffo per qualcosa di più personale della comune personalità. Dio non è un simbolo di bontà. La bontà è un simbolo di Dio (Chesterton, Blake)


UOMO
Qualsiasi uomo può essere lodato, e a ragione. Anche soltanto stando in piedi su due gambe fa qualcosa che una mucca non sa fare. (G. K. Chesterton)

IDEE MEDIEVALI
Nella narrativa moderna e nella scienza un realista è un uomo che inizia dall'esterno delle cose; a volte perfino dalla fine di una cosa, riconoscendo la scimmia dalla coda o il motore dall'odore. Nel XII secolo un realista significava esattamente l'opposto: era un uomo che iniziava dall'interno di una cosa. Il filosofo medievale si sarebbe interessato a un motore solo perché questo si muoveva. Sarebbe stato interessato (così è) solo all'idea centrale e originaria del motore - la sua motorità ultima. Sarebbe stato interessato a una scimmia solo a causa della sua scimmità: non perché era come un uomo, ma perché era differente. Se avesse visto un elefante non avrebbe detto in stile moderno: «Vedo di fronte a me una combinazione delle zanne di un cinghiale in innaturale sviluppo, del lungo naso di un tapiro inutilmente allungato, o della coda della mucca al solito insufficiente», e così via. Avrebbe semplicemente visto un'essenza di elefante. Avrebbe creduto che questo leggero e fuggitivo elefante di un istante, danzante e fluente come l'efemera a maggio, fosse tuttavia l'ombra di un eterno elefante, concepito e creato da Dio (Chesterton, Blake)

MISTICO
Un accidente verbale ha confuso il mistico col misterioso. Il misticismo è in generale concepito vagamente come vago - una questione di nuvole e veli, di oscurità e vapori che celano, di incredibili cospirazioni o impenetrabili simboli. Alcuni ciarlatani se ne sono occupati, ma nessun vero mistico ha mai preferito l'oscurità alla luce. Nessun vero mistico amò mai il mistero in quanto tale. Il mistico non porta dubbi o enigmi: i dubbi e gli enigmi esistono già. Tutti sentiamo l'enigma della terra senza che nessuno lo debba sottolineare. Il mistero della vita ne è la parte più evidente. Le nuvole e le cortine di oscurità, i vapori che celano, sono parte del tempo quotidiano sulla terra. Quale che sia il modo in cui siamo stati cresciuti, siamo cresciuti abituandoci all'ineffabile. Ogni pietra o fiore è un geroglifico del quale abbiamo perso la chiave; con ogni passo della nostra vita entriamo nel bel mezzo di una storia che siamo certi di fraintendere. Il mistico non è l'uomo che crea misteri, ma quello che li distrugge (Chesterton, Blake)

INCARNAZIONE
Il più alto dogma dello spirituale è affermare il materiale (Chesterton, Blake)

ANTROPOLOGIA
Ogni uomo del nostro tempo è tre uomini. Agiscono, in ogni europeo moderno, tre forze così distinte al punto da assumere quasi caratteristiche personali, la trinità del nostro destino terreno. I tre aspetti potrebbero essere rozzamente riassunti così. Il primo e più vicino a noi è il cristiano, l'uomo della Chiesa storica, del credo che ha colorato le nostre menti irreversibilmente, sia che lo guardiamo (come faccio io) come coronamento e combinazione degli altri due, o come una accidentale superstizione che ha persistito per duemila anni. Primo, dunque, viene il cristiano; dietro di lui il romano, il cittadino di quel grande impero cosmopolita della ragione e dell'ordine al cui livello e nella cui equità la Cristianità sorse. È lo stoico, molto più rigoroso dell'anacoreta. È il repubblicano, molto più orgoglioso dei re. È colui che fa strade dritte e leggi chiare, e per cui il buon senso è sufficiente. Del terzo è più difficile parlare. Non ha nome, e tutti i veri racconti che lo riguardano sono stati censurati; eppure cammina dietro di noi in ogni sentiero del bosco, e si sveglia dentro di noi quando il vento si risveglia di notte. Sono le origini - è l'uomo della foresta. Non riguarda il nostro tema approfondire questo punto; ma si può dire, di passaggio, che il principale compito della Cristianità fu appunto questo: far rivivere la follia pre-romana portando dentro di essa l'ordine romano... La Roma pagana ha cercato di portare l'ordine e la ragione tra gli uomini. La Roma cristiana ha cercato di portare l'ordine e la ragione tra gli dèi (Chesterton, Blake)

PAZZIA
La pazzia non è anarchia. La pazzia è un vincolo: una costrizione. Non chiamerò Blake pazzo, qualsiasi cosa abbia detto. Ma lo chiamerò pazzo nella misura in cui c'era qualcosa che era costretto a dire. Ora, ci sono aspetti di questa tirannia in Blake. Non era come l'autentica malattia di una mente che fa credere a un uomo di essere un gatto o un cane; era più come quella malattia di nervi che fa dire a un uomo "cane" quando intende "gatto" (Chesterton, Blake)

VISIONI
Che cosa si mangiava via una parte del cervello di Blake? Credo fermamente che ciò che colpì il cervello di Blake fu la consistenza reale delle sue comunicazioni spirituali... I critici affermano che le sue visioni erano false perché era pazzo. Io dico che era pazzo perché le sue visioni erano vere. Proprio perché era esposto a una grandinata di forze sovrannaturali alcune crepe si produssero nella sua continuità mentale, e qualche danno si manifestò nella sua mente. Era, in modo molto più tremendo che Goldsmith, «un idiota ispirato». Era un idiota perché era ispirato.
(Chesterton, Blake)

SPECIALISTI
Contro lo specialista, contro l'uomo che studia solo arte o elettricità, o il violino, o le schiacciapollici, o qualcos'altro, c'è un unico vero argomento importante, e che, per un motivo o per l'altro, non è ma utilizzato. La gente dice che gli specialisti sono inumani; ma questo è ingiusto. La gente dice che un esperto non è un uomo; ma questo è scortese e falso. Il vero problema nello specialista o nell'esperto non è mai che non sia un uomo; il problema è che in qualsiasi ambito non sia esperto è un uomo troppo ordinario. Dove non è eccezionalmente dotto, è per lo più del tutto ignorante. Questo è il grande inganno di quella che è detta l'imparzialità degli uomini di scienza. Se gli uomini di scienza non hanno idea di nulla al di fuori dal loro lavoro scientifico, può andar bene - cioè, può andare bene per tutti tranne che per loro. Ma la verità è che, oltre alle loro idee scientifiche, costoro non patiscono l'assenza di idee, ma la presenza delle più volgari e sentimentali idee comuni nella società. Se un biologo non avesse idee sull'arte e sulle morale, andrebbe bene. La verità è che un biologo ha tutte le idee sbagliate sull'arte e sulla morale che circolano nella buona società del suo tempo. Il pericolo dell'artista o dell'esperto meramente tecnico è di diventare uno snob o uno sciocco mediocre in tutte le questioni che non riguardino il suo peculiare argomento di studi; ovunque non è un uomo straordinario, è un uomo ordinario particolarmente stupido.La gente parla di qualcosa di pedante nella conoscenza dell'esperto; ma ciò che distrugge l'umanità è l'ignoranza dell'esperto. Lo specialista non manca di pregiudizi; ha successo solo nello specializzarsi nei più superficiali e incolti pregiudizi (Chesterton, Blake)

DUBBIO
Un uomo ha diritto di dubitare di se stesso, non della verità. Oggigiorno ognuno crede esattamente in quella parte dell’uomo in cui dovrebbe non credere: se stesso, e dubita esattamente in quella parte in cui non dovrebbe dubitare: la ragione divina (Chesterton, Ortodossia)

VINO
Due cose fanno capo ad una medesima concezione: lo spirito del «tabù»; c'è una mistica sostanza che può gratificarci di mostruosi piaceri, o attirarci sul capo mostruosi castighi. L'ubriacone e l'astemio non solo sbagliano entrambi, ma commettono lo stesso errore. Essi cioè considerano il vino una droga piuttosto che una bevanda (Chesterton, Shaw)

VEGETARIANI
Sarebbe assurdo affermare che Shaw è vegetariano perché proviene da una razza di vegetariani, di contadini cioè costretti ad accettare semplicemente la vita sotto le umili spoglie della patata. Io sono sicuro invece che questa strana suscettibilità non è che una forma allotropica della sua purezza irlandese; essa sta alla virtù di Padre Matteo come il carbone al diamante; ma ha naturalmente l'inconveniente di tutte le virtù eccezionali ed un pò squilibrate: non si sa dove si arresti. Posso comprendere quel che Shaw intende quando afferma che è disgustoso cibarsi di carogne o fare a pezzi ciò che era una volta una creatura vivente; ma non posso garantire che ad un certo momento egli non reputi altrettanto disgustoso mutilare un albero di pere o svellere dal terreno la mandragora che, poverina, non ha nemmeno la possibilità di lamentarsi. Non v 'è alcun limite naturale a questo sfrenato galoppo verso la raffinatezza. (Chesterton, Shaw)

DEPRESSIONE
È normale che l'uomo di soffermi sul lato oscuro delle cose brutte, tutte le persone sane lo fanno. È quando ci si sofferma a riflettere sul lato oscuro delle cose belle che dobbiamo temere un disagio emotivo. Quando un uomo vede solo il lato triste dei fiori, o il lato triste delle vacanze o del vino, allora deve essere davvero depresso (Chesterton, Dickens)

MATERIALISTI
Questa storia in bianco e nero di eroi e cattivi, questa storia piena di etica pugnace e nient'altro, è il tipo giusto di storia per un bambino. Mi sono spesso domandato come faranno i marxisti scientifici e i sostenitori della "visione materialista della storia" ad insegnare ai bambini le loro noiose divulgazioni economiche. Ma immagino che non avranno mai dei figli. (Chesterton, Dickens)

TOLLERANZA
Tolerance is the virtue of the man without convictions (G. K. Chesterton)
P.S. L'ho messa in inglese perché l'ho capita pure io!

ARTE
I Pellegrini di Canterbury di Stothard, come mera opera di disegno e pittura, sono migliori di quelli di Blake. Ma questo, più di tutto, rafforza ulteriormente l'argomento. È il duello tra l'artista che desidera essere solo un artista e l'artista che ha la più alta e difficile ambizione, d'essere un uomo - ovvero un arcangelo (Chesterton, Blake)

AGNOSTICISMO
Alcuni si accontentano di affermare che la solenne attestazione di tali miracoli basta di per sé a segnare un uomo come pazzo o come bugiardo. Ma è una scorciatoia di dogmatismo scettico non lontano dall'impudenza. Certamente non possiamo prendere una questione aperta come il soprannaturale e chiuderla sbattendo la porta, girando la chiave del manicomio su tutti i mistici della storia. Chiamare un uomo pazzo perché ha visto i fantasmi è in senso letterale persecuzione religiosa. È negargli la piena dignità di cittadino perché non si inserisce in una determinata teoria del cosmo. È togliergli i diritti civili a causa della sua religione. È intollerante dire a una vecchia che non può essere una strega, così come lo è dirle che è senz'altro una strega. In entrambi i casi si oppone inesorabilmente la propria teoria delle cose contro la sincerità o la freschezza della testimonianza umana. Un simile dogmatismo, tra l'altro, dovrebbe essere impossibile per chiunque si definisca un agnostico, come per chiunque si definisca uno spiritualista. Non puoi prendere la regione chiamata ignoto e dire tranquillamente che, sebbene tu non ne sappia nulla, sai che tutti i cancelli sono chiusi a chiave. Non puoi dire: «Quest'isola non è stata ancora scoperta; ma sono sicuro che ha una barriera di scogli tutto attorno e nessun porto». Questa fu tutta la fallacia di Herbert Spencer e Thomas Huxley quando parlavano dell'inconoscibile invece che dell'ignoto. Un agnostico come Huxley deve concedere la possibilità a uno gnostico come Blake. Non sappiamo abbastanza dell'ignoto per sapere che è inconoscibile (Chesterton, Blake)

MISTICA NATURALISTICA
Shaw si dedicò in particolar modo a due moderne crociate, la prima delle quali era la cosiddetta causa unitaria. Essa propugnava una specie di mistica identificazione della vita umana con quella della natura, per cui l'uomo dovrebbe urlare vedendo schiacciare una lumaca come se gli stessero pestando un piede, o fremere di raccapriccio vedendo bruciare una tarma come se i suoi stessi capelli stessero prendendo fuoco. Esso dovrebbe essere come una rete di sensibilissimi nervi che abbraccia tutto il creato, una sottile ragnatela di pietà. Questa concezione è indubbiamente molto suggestiva, anche se costituisce una piuttosto rigida riaffermazione del concetto teologico della divinità dell'uomo. Infatti, certamente, gli umanitari chiedono all'uomo ciò che non si potrebbe chiedere a nessuna creatura; chi si sognerebbe mai di chiedere al cane di comprendere il gatto o di vedere la mucca in lacrime per le pene dell'usignolo?
Ed è per questo che tale senso di pietà è stato sentito dai santi di natura più mistica, come S. Francesco che parlò di «sora rondine» e di «frate lupo». Shaw fece sua tale crociata di pietà cosmica, ma lo fece con uno stile tutto personale ; severo, razionale, direi quasi senza simpatia. Non vi è in lui nessun impulso affettivo che potesse indurlo a dire «frate lupo»; al massimo, da buon democratico, avrebbe potuto dire «cittadino lupo». In effetti, egli era pieno di giusta ed umana compassione per le sofferenze degli animali, ma amava esprìmersi senza commozione, e talvolta persino con asprezza. Ho assistito una volta ad un libero dibattito in cui Shaw affermava di non essere affatto un umanitario, ma solo un economista, e che gli ripugnava veder sciupata la vita per noncuranza o crudeltà. Fui tentato di alzarmi e di fargli questa semplice domanda : «Se quando si risparmia la vita di un'aringa si fa solo economia, per chi la si fai». Ma pensai che in una qualsiasi aula di pubblico dibattito tale domanda sarebbe apparsa poco chiara, e quindi lasciai cadere l'idea; certo che non è affatto chiaro per chi Shaw intenda economizzare quando sottrae un rinoceronte ad una fine prematura. La verità è che Shaw assumeva tali pose da economista solo per il terrore di apparire un sentimentale. Se egli avesse ucciso un drago per salvare una principessa, avrebbe cercato di dire: «Ho risparmiato una principessa » con lo stesso tono di chi dice « ho risparmiato uno scellino». ...Egli sarebbe capace di ridursi come uno spettro dai capelli bianchi, pur di salvare la vita di uno squalo in un acquario o di venire in aiuto ad una cornacchia; sarebbe capace di violare qualsiasi legge o di perdere il migliore dei suoi amici, pur di aiutare la bestiolina più umile e l'uccellino più insignificante. E tuttavia non è dato riscontrare in tutte le sue opere o nelle sue conversazioni una sola parola di tenerezza o di familiarità per qualsiasi uccello od animale. Fu sotto la spinta del suo alto e quasi sovrumano senso del dovere che egli divenne vegetariano. Credo di ricordare che, allorquando giacque ammalato e quasi prossimo a morire, al termine della sua carriera giornalistica presso la Saturday Review, egli scrisse un bellissimo e fantasioso articolo in cui chiedeva che la sua bara fosse portata da tutti gli animali di cui in vita non aveva voluto cibarsi. Quando quel giorno infausto dovesse venire, non ci sarà bisogno di rivolgersi alle creature più umili del creato, dato che non mancheranno certo uomini e donne che dovendogli tanto, saranno felici di prendere il posto degli animali; lo scrivente per il primo, sarà lieto di esprimere la sua gratitudine prendendo il posto dell'elefante. Anche a prescindere dalla controversia vegetariana, è indubbio che gli animali gli debbano molto. Ma allorquando si viene al lato positivo della cosa (ed i sentimenti sono l'unica cosa certamente positiva) un dubbio ostinato si affaccia, dopo tutto quanto abbiamo detto; un'idea fissa si fa strada nella mente: che cioè Shaw sia vegetariano, non perché gli animali gli piacciano da vivi, ma piuttosto perché lo disgustano da morti (Chesterton, Shaw)

DEMOLITORI
La principale occupazione di Shaw è quella di sfrondare le illusioni, svelare i trucchi e demolire gli ideali. Egli fa l'opposto del pasticciere: la sua occupazione preferita consiste nel togliere il giulebbe dalla torta. Io non ho niente da obbiettare a chi si prende la briga di togliere il giulebbe dalla torta, per la semplice ragione che a me la torta piace più del giulebbe. Ma non si può fare a meno di criticare costoro quando tale occupazione diventa una crociata o una vera e propria ossessione. Ed una delle tante obbiezìoni possibili è questa: che la gente affetta da tale mania non di rado passa tutta la vita nel tentativo di toglier l'orpello da enormi blocchi di oro massiccio (Chesterton, Shaw)

PROGRESSISTI E CONSERVATORI
Verso la fine del XIX secolo comparvero due incredibili figure: il puro Conservatore ed il Progressista ad oltranza; due figure che sarebbero state sommerse dal riso in qualsiasi altro periodo della storia umana. Non credo ci sia mai stata generazione di uomini che non abbia compreso la follia del semplice andare avanti o del solo star fermi; del puro progresso e della pura conservazione. La commedia greca del genere più grossolano avrebbe potuto forse presentarci lo spettacolo grottesco dell'uomo che vuoi conservare a tutti i costi: sia che si tratti dell'oro giallo, sia che si tratti della febbre gialla. Nel più uggioso dramma medioevale avremmo potuto assistere alla farsa del gentiluomo progressista che essendo passato dal Paradiso al Purgatorio, decidesse di andare più lontano e più in basso.
Il XII e XIII secolo furono età di impetuoso progresso; gli uomini si dettero in fretta a costruire strade, ad allacciare commerci, ad istituire parlamenti, a redigere somme filosofiche, a fondare università e leggi universalmente valide, e guglie che mai sino allora avevano osato sfidare il cielo. Ma questi stessi uomini non avrebbero mai detto che desideravano il progresso, ma bensì strade, parlamenti e campanili a guglie. Ed allo stesso modo, l'epoca che va da Rechelieu alla Rivoluzione fu nel complesso un periodo di conservazione, di dura ed odiosa conservazione, mantenuta con metodi di tortura, cavilli legali e despotismi. Ma se aveste domandato ai governanti del tempo, essi non vi avrebbero risposto di volere la conservazione, ma di desiderare il despotismo e la tortura. Sia i riformatori che i tiranni di un tempo desideravano cose concrete: poteri, immunità, tributi, veti e privilegi. Soltanto i progressisti e i conservatori si sono contentati di due semplici parole (Chesterton, Shaw)

BUON UMORE
Non si può essere seri per trecent 'anni. In istituzioni destinate a durare per dei secoli ci vuole il riposo del buonumore, l'appoggio dei simboli in tutta la loro relatività, un sano e normale avvicendarsi di attività d'ogni giorno. È proprio nei templi più eterni che occorre un pò ' di frivolezza. Bisogna «stare a Sion come a casa propria» (Chesterton, Shaw)




MASOCHISMO
Si accusa il cristianesimo di masochismo, subito dopo aver discusso sulla persecuzione cristiana contro gli eretici come tipicamente sadica. Ma tutti questi giudizi sugli eventi umani, buoni o cattivi, portati avanti come strani lampi di follia, sono essi stessi un passatempo per i folli. E proprio come se qualcuno dicesse: «Vi è un particolare tipo di pazzo che si crede fatto di vetro; chiamerò questa patologia come vetrosità; quindi dimostrerò che chiunque abbia, dovunque si trovi, a che fare con il vetro, per una ragione qualsiasi, è una vittima della vetrosità. I mercanti del deserto che dicono di avere inventato il vetro, i manovali medioevali che hanno colorato le vetrate in maniera splendida, i primi astronomi che hanno munito i telescopi con lenti di vetro: tutte queste categorie evidenziano la vetrosità nelle varie fasi in cui si manifesta la patologia. E ciò che porta alla libido subcosciente, perché il guardone sbircia attraverso le finestre, di solito fatte di vetro; è l'impulso che spinge all'alcolismo, perché la gente beve da bicchieri di vetro; e il principe Alberto e la regina Vittoria vennero colpiti da un incontrollato e fortissimo attacco di vetrosità quando fecero costruire il Palazzo di Cristallo». L'unico difetto in questo ragionamento è che per portare avanti delle teorie è necessario, a volte, pensare. È ovvio che tutte queste persone avevano mille altre ragioni per fare quello che hanno fatto, al di là dall'essere maniaci del vetro; alla stessa stregua è ovvio che le grandi religioni, vere o false, hanno avuto mille ragioni per fare ciò che hanno fatto, senza per questo essere maniache del masochismo o del sadismo (Chesterton, Perché sono cattolico)


REALISMO DEI LIMITI
Il mondo è come lo descrissero i santi e i profeti: non migliora né peggiora. Ma c'è una cosa che il mondo fa: barcolla. Lasciato a se stesso, non va da nessuna parte; ma se viene guidato dai giusti riformatori della vera religione e filosofia, può migliorare sotto molti aspetti, e a volte per dei periodi abbastanza lunghi. Tuttavia preso in sé non è sinonimo di progresso, non è neanche in movimento: è solo la moda del momento destinata a durare poco. La vita in sé non è una scala, ma un'altalena.
Ora, questo è ciò che la Chiesa sostiene da sempre, e da quattrocento anni a questa parte è costantemente disprezzata proprio perché afferma questo. La Chiesa non ha mai detto che le ingiustizie non possono o non devono essere corrette; o che lo stato della società non possa e non debba essere migliorato; o che non vale la pena dedicarsi alle esigenze del secolo strettamente materiali; o che non è un bene che la buona educazione venga promossa, che le comodità vengano incrementate e che le crudeltà vengano diminuite. Ma ha detto che non dobbiamo contare sulla sicurezza che le comodità vengano incrementate e le crudeltà diminuite, quasi che questa fosse un'inevitabile tendenza sociale verso un'umanità senza peccato e non una tendenza umana, forse migliore, che può essere seguita da una peggiore. Non dobbiamo odiare o disprezzare l'umanità, tantomeno rifiutarci di aiutarla, ma non dobbiamo confidare nell'umanità, nel senso di fidarci di una tendenza umana, quasi fosse impossibile che possa tramutarsi in qualcosa di negativo. «Non confidate nei principi, in uomini in cui non è salvezza» (Salmo 145, 2-3). Ecco il punto fermo di questo tipo di politica molto pragmatica. Si può essere monarchici (e ci sarebbe molto da dire, e molto è già stato detto, proprio naie) e si può considerare la monarchia come la soluzione migliore, ma non confidate nella monarchia, nel senso di aspettarvi che il monarca si comporti in maniera diversa rispetto agli altri uomini. Si può essere democratici (e io riterrò sempre che è questo il modo più generoso e più cristiano di fare politica), esprimendo il vostro concetto della dignità umana attraverso il suffragio universale o ogni altra forma di eguaglianza, ma non confidate nel suffragio universale o negli uomini. C'è solo un piccolo difetto riguardante l'uomo, immagine di Dio, meraviglia del mondo e re del creato: non ci si può fidare. Se lo identificate con qualche ideale, che ritenete essere coessenziale alla sua natura e alla sua specifica finalità, il momento che lo vedrete realizzato vi apparirà improvvisamente come un traditore.
Non ci troviamo agli inizi di un'alba eterna e in espansione, ma abbiamo a che fare con l'alba che, tutti i giorni, è seguita dal giorno e, quindi, dalla notte; e la fede, come dice Belloc, «è l'unico faro in questa notte, se il faro ci sarà».
Nel cuore della cristianità, nei vertici della Chiesa, nel centro di quella civiltà che chiamiamo cattolica, lì e in nessun movimento, né in nessun futuro, si trovano la stabilità del senso comune, le tradizioni veraci, le riforme razionali, che l'uomo moderno ha cercato senza trovarle lungo tutto il cammino della modernità. Da questa volontà, e non da quella di coloro che faranno i governanti del futuro in questa terra distratta e inquieta, deriva il memento che la misericordia è stata trascurata e la memoria gettata via. Ecco il fatto che abbiamo finalmente scoperto; ed ecco perché lo pongo come prioritario. Tra i fatti che ho scoperto, dopo aver scoperto la verità, non è il primo cronologicamente, ma è il primo in importanza; e se mi fossi ancora trovato nell'oscurità, sarebbe stato il fatto che mi avrebbe condotto alla porta per uscirne (Chesterton, Perché sono cattolico)

PROGRESSISTI
Il progresso è un comparativo di cui non abbiamo scoperto il superlativo (Chesterton, Eretici, in blog Uomo vivo)

CROCE
La Croce non può conoscera la disfatta, perché essa è la Disfatta (Chesterton, La sfera e la Croce)


VEGETARIANI
Invitato a una cena di gala, Chesterton si trovò accanto a una nobildonna, e la malcapitata gli confidò orgogliosa di essere vegetariana. Chesterton annuì compito e le propose cortesemente di accompagnarlo a vedere una certa cosa. Si alzarono e il corpulento giornalista e scrittore inglese aprì la porta della serra dei suoi ospiti e le mostrò sorridendo una gigantesca pianta carnivora, così che la signora potesse rammentarsi che neppure le piante sono vegetariane (Edoardo Rialti, L'uomo che ride)


CATTOLICESIMO
«Con tutta l’intensità con la quale si può essere superbi di una religione radicata nell’umiltà, mi sento molto orgoglioso della mia religione: e mi danno un senso di particolare orgoglio quelle parti della mia religione, che quasi tutti chiamano superstizione. Mi glorio d’essere incatenato da dogmi antiquati e di essere lo schiavo di credi morti (come i miei amici dediti al giornalismo ripetono con tanta ostinazione), perché so molto bene che morti sono i credi eretici e che solamente il dogma ragionevole ha una vita così lunga da poter essere chiamato antiquato. Mi glorio di ciò che la gente chiama il mestiere, le arti del prete, perché proprio questo termine insultante, di seconda mano, esprime la verità medioevale che un prete, come ogni altro uomo, dovrebbe essere un artigiano. Mi glorio di ciò che la gente chiama Mariolatria: fu essa che diede alla religione, nelle età più oscure, quell’elemento di cavalleria che ora trova la sua espressione nella forma ammuffita ed ammaliziata del femminismo. Mi glorio di essere ortodosso in ciò che riguarda i misteri della Trinità e della Messa; mi glorio di credere nel confessionale; mi glorio di credere nel Papato». (G. K. Chesterton, “Come essere un pazzo”, in “Autobiografia”)

NICHILISTI
Anche se arriveranno con carta e penna e avranno l’aspetto serio e pulito dei chierici, da questo segno li riconoscerete, dalla rovina e dal buio che portano; da masse di uomini devoti al Nulla, diventati schiavi senza un padrone, da un cieco e remissivo mondo idiota, troppo cieco per essere disprezzato; dal terrore e da storie crudeli di una macchia segnata nelle ossa e nelle stirpe, dalla vittoria dell’ignavia e della superstizione, maledette fin dal principio, dalla presenza di peccatori, che negano l’esistenza del peccato; da questa rovina silenziosa, dalla vita considerata una pozza di fango, da un cuore spezzato nel seno del mondo, dal desiderio che si spegne nel mondo; dall’onta scesa su Dio e sull’uomo; dalla morte e dalla vita rese un nulla, riconoscerete gli antichi barbari, saprete che i barbari sono tornati. (Chesterton, La ballata del cavallo bianco", Raffaelli editore, p.155)

PATRIOTTISMO
L'irlandese medio autoctono è patriota perché è legato alla sua terra; è attaccato alle tradizioni domestiche, perché vive sulla sua terra; accetta una teologia dottrinaria ed una elaborata liturgia, perché è vicino alla sua terra. In breve, egli è vicino al cielo, perché è vicino alla terra... Shaw non ha tradizioni vive, né ricordi d'infanzia o di scuola che lo leghino ad altri uomini; non usa brindare, non usa festeggiare gii anniversari, e per quanto appassionato di musica, non credo si riuscirebbe ad indurlo a cantare. Tutto ciò fa molto pensare ad un albero con le radici per aria. La miglior maniera per abbreviare l'inverno è prolungare il Natale, ed il miglior modo di godere il sole d'aprile è il fare il Pesce d'aprile. Quando fu richiesto a Shaw di presiedere il terzo Centenario Shakespeariano a Stratford, egli rispose con degnazione tutta sua : «Non sono solito osservare il mio compleanno, non vedo quindi perché dovrei osservare quello di Shakespeare». Io penso che se Shaw avesse sempre festeggiato il proprio compleanno, sarebbe stato in grado di apprezzare meglio quello di Shakespeare, ed anche la poesia di Shakespeare. (Chesterton, Shaw)

«Sono felice nel sentirti dire che, per usare le tue stesse parole, "è bello per noi essere qui" - cioè dove siamo ora. La stessa affermazione, se ricordo bene, fu fatta sulla montagna della Trasfigurazione. È uno di quei sermoni che ripeto sempre a me stesso, perché penso che quella frase di Pietro pronunciata di fronte a quella visione in quel momento straordinario, dovrebbe essere pronunciata da tutti noi, contemplando ogni cambiamento nel panorama di quella lunga Visione che chiamiamo vita - altre cose potremo dirle superficialmente, ma questa deve essere sempre presente al fondo. "È bello per noi essere qui... è bello per noi essere qui", ripeterlo eternamente». (Chesterton, da una lettera a sua moglie Frances Blogg, 1899)


LITIGI
Io ho discusso tutta la vita senza mai litigare, perché la cosa brutta dei litigi è che interrompono le discussioni (Chesterton, Autobiografia)


CARPE DIEM
La religione del carpe diem non è la religione di persone felici, bensì di persone molto infelici. La grande gioia non coglie i boccioli di rosa finché può; i suoi occhi sono fissati sulla rosa immortale che Dante poté vedere. La grande gioia ha in sé il senso dell’immortalità; lo stesso splendore della giovinezza risiede nella sensazione di avere tutto lo spazio per distendere le gambe. (Chesterton, Eretici, VII)


BERE
Bevete perché siete felici, ma mai perché siete infelici. Non bevete mai quando, senza l’alcool, vi sentite derelitti, o sarete come il bevitore di gin dalla faccia grigiastra nel suo tugurio; ma bevete quando, anche senza alcol, sareste felici, e sarete come il ridente contadino italiano. Non bevete mai perché ne sentite il bisogno, perché è un modo razionale di bere, e la via per la morte e per l’inferno. Bevete perché non ne sentite il bisogno, perché questa è la maniera irrazionale di bere e l’antica salute del mondo. (Chesterton, Eretici, VII)


IDEALI
Molti, per esempio, seguirono apertamente Cecil Rhodes perché aveva una visione. Essi avrebbero potuto altrettanto bene seguirlo perché aveva un naso; un uomo che non vagheggi un qualsiasi ideale di perfezione è una mostruosita come un uomo senza naso. D’un tal uomo la gente mormora appassionatamente: «Sa quel che vuole»; il che sarebbe come mormorare, con la stessa passione: «Si soffia il naso». Il fatto è che la natura umana non può sussistere senza una speranza e un fine di qualche genere, come disse la saggezza del Vecchio Testamento: «Dove non vi è una visione, il popolo perisce». Ma proprio perché un ideale è necessario all’uomo, accade che senza ideali l’uomo si trovi in perenne pericolo di fanatismo. (Chesterton, Eretici, XX)

UNIVERSALI
È ben vero che noi vediamo una luce fioca che, confrontata con una cosa più scura, è luce, ma che, confrontata con una luce più chiara, è tenebra. Ma la qualità della luce rimane la stessa, altrimenti noi non definiremmo una luce più forte, né la riconosceremmo come tale. Se il carattere della luce non fosse fissato nella mente, con altrettanta probabilità noi definiremmo un’ombra più densa come una luce più forte, o viceversa. (Chesterton, Eretici, V)


PERICOLO
Non è possibile uscire dal pericolo se non per una via pericolosa (G. Chesterton)


NICHILISMO
Stevenson faceva parte di quel gruppo di artisti che iniziarono a mostrare di voler abbandonare l'arte per abbracciare la vita; fu uno dei pochi decadenti che si rifiutarono di abbracciare il decadimento... . Stevenson pareva dire ai semisuicidi che si ammassavano inquieti ai tavolini da caffè, bevendo assenzio immersi in conversazioni sull'ateismo: «Al diavolo, l'eroe di carta che si compra per un penny era un uomo migliore di voi! Ritagliare le figurine di carta in bianco e nero e a colori era un'arte più degna di persone vere dell'arte che andate professando. Dipingere cartoncini con pirati e ammiragli valeva molto più di questo! C'era divertimento, c'era battaglia, c'era la vita e l'allegria, e se non posso fare altro, dannazione proverò a fare proprio questo!» (Chesterton, Stevenson, IV)..



ASCETISMO
I razionalisti di Blatchford accusavano il cristianesimo di essere «una cupa faccenda d’ascetismo», di santi austeri e disumani, disposti a rinunciare alla famiglia e alla felicità per macerarsi nel fisico e mortificare la sessualità. Al che Chesterton rispondeva che forse i partigiani laici non avevano mai pensato: "... che proprio la stranezza e la totalità dell’abbandono di quegli uomini avrebbero dovuto indurre a pensare che necessariamente qualcosa di tangibile e di concreto doveva esistere nell’idea a cui si davano anima e corpo. Essi rinunciavano a tutti i piaceri per un unico piacere. Rinunciavano a tutte le esperienze umane per amore dell’unica esperienza sovrumana. Può darsi fossero disumani, ma tutto induce a credere che quell’esperienza fosse concretamente umana. E proseguiva: Si può giustamente affermare che quell’esperienza era pericolosa ed egoistica, come il bere. L’uomo che si riduce a brandelli e senza una casa per una visione può essere repellente e immorale quanto l’uomo che si riduce a brandelli e senza una casa per il brandy. È un’affermazione del tutto ragionevole. Ma palesemente non è un’affermazione ragionevole, e anzi non sarebbe lontana dall’essere insensata, quella secondo cui la miseria e la degradazione intontita di quell’uomo proverebbero che non esiste una cosa come il brandy. Ecco cosa tenta di sostenere il laico! Egli cerca di provare che non esiste una cosa come l’esperienza soprannaturale, portando a sostegno della propria tesi le persone che per quell’esperienza hanno rinunciato a tutto. Cerca di provare che non esiste il soprannaturale portando a sostegno della propria tesi le persone che non vivono d’altro" (in Ffinch, 157)

RELIGIONE
Il problema è cosa sia normale nell’uomo o, più semplicemente, che cosa in lui sia umano. Alcuni, come Blatchford, vedono nell’esperienza religiosa dei secoli passati un fatto anormale, una morbosità giovanile, un incubo da cui l’uomo si sta gradualmente risvegliando; altri, come me, vedono invece nella moderna civiltà razionalista un fatto anormale, il perdersi delle antiche facoltà umane di percezione dell’estasi nel febbrile cinismo delle città e dell’impero. Noi riteniamo che non solo l’uomo sia parte di Dio, ma che Dio sia parte dell’uomo, una cosa connessa con la sua natura, come il sesso. Noi diciamo che (alla luce della storia attuale) se si recide il soprannaturale ciò che resta è l’innaturale. Noi affermiamo che, proprio nelle epoche in cui l’uomo ha creduto nel soprannaturale, l’uomo è vissuto all’aperto, ha danzato e raccontato storie intorno al fuoco. Noi diciamo che, proprio nelle epoche in cui l’uomo ha perso la fede, ci sono stati imperatori effemminati, gladiatori e poeti minori che hanno sfoggiato garofani verdi e cantato cose innominabili. Noi affermiamo che, presa la storia dell’uomo nel suo complesso, le più sfrenate fantasie della superstizione non sono nulla in confronto alla fantasia del razionalismo (Chesterton, Daily News, 12 dicembre 1903)

MISTICA
Questo è ciò che sento... adesso, a ogni ora del giorno. Tutte le cose buone sono una cosa sola. Tramonti, scuole di filosofia, bambini, costellazioni, cattedrali, opere d’arte, montagne, cavalli, poesie; sono solo travestimenti. Un’entità soltanto si muove sempre tra noi, celandosi sotto il manto grigio della chiesa o nel verde dei prati. Lui c’è sempre, dietro a ogni cosa, soltanto lui può indossare quei travestimenti in modo tanto splendido. E questo è ciò che gli Ebrei dell’antichità, soli tra gli altri popoli, hanno percepito; per questo il loro rozzo dio tribale è stato innalzato sopra le rovine di tutte le civiltà politeiste. Poiché i Greci, i Vichinghi e i Romani videro solo i conflitti della natura e trasformarono il sole in un dio, e così pure il mare, e così pure il vento. Non furono attraversati, come qualche rude israelita, una notte, nella solitudine del deserto, dall’improvvisa, abbagliante idea che tutto il mondo era la manifestazione di un solo Dio: un’idea degna di un romanzo poliziesco (Chesterton, Lettera Frances)


SCUOLA
Il tempo della scuola è il periodo in cui fui istruito da qualcuno, che non conoscevo, su qualcosa che non volevo conoscere. (Chesterton)


MORTE DI SAN FRANCESCO
Noi non sappiamo se un qualche brivido passò attraverso tutti i ladri, i banditi, i proscritti, per dir loro che cosa era accaduto a Lui che non conobbe mai la natura del disprezzo. Ma infine sotto i portici della Porziuncola fu una improvvisa calma, nella quale le brune figure stettero immobili come statue di bronzo: perché si era fermato quel grande cuore che non s’era infranto fin quando non contenne il mondo. (Chesterton, San Francesco)


MIRACOLI
E' tanto logico per chi ha fede in Dio di credere nel miracolo, quanto per un ateo non credere in esso. In altre parole, vi è una sola ragione per la quale un uomo può non credere nei miracoli: perché crede nel materialismo (Chesterton, San Francesco)


STORICI
Io non ho mai compreso perfettamente la natura della ragione per la quale gli storici accettarono da quella gente una messe di particolari come definitivamente veri e improvvisamente negarono quella verità quando uno dei particolari era di natura soprannaturale. Non compiango il loro scetticismo, non comprendo perché non siano ancora più scettici. Quegli scettici scriverebbero, ad esempio: «Il fanatismo dei frati amava divulgare la voce che alla tomba di Tommaso Becket si verificavano miracoli». Perché non avrebbero detto egualmente bene: «Il fanatismo dei monaci divulgò la calunnia che quattro cavalieri della corte di re Enrico avevano assassinato Tommaso Becket nella Cattedrale»?. (Chesterton, San Francesco)


SAN FRANCESCO
Dobbiamo ricordarci che San Francesco fu un poeta e può essere compreso soltanto come poeta. Ed ebbe un privilegio poetico negato a molti: quello di potersi chiamare il solo poeta felice fra i tanti poeti infelici del mondo. Tutta la sua vita fu un poema: vediamo in lui non tanto un menestrello, semplice cantore delle proprie canzoni, quanto un autore drammatico che rappresento per intero il suo dramma. Le cose che disse furono più fantasiose di quelle che scrisse; quello che operò fu più fantasioso di quello che disse (Chesterton, San Francesco)


PANTEISMO
San Francesco come poeta, fu perfettamente l’opposto di un panteista. Non disse sua «Madre» la natura, ma chiamò «Fratello» un determinato somaro, e « Sorella » una certa tortora. Se avesse chiamato la femmina del pellicano «sua zia» e un elefante «suo zio» - come potrebbe aver fatto - egli avrebbe voluto intendere che quelle erano creature particolari destinate dal loro Creatore a compiti speciali, e non semplice prodotto della evoluzione. (Chesterton, San Francesco)


CAVALLERIA
E' concepibile che alcuni barbari possano cercare di distruggere la cavalleria in amore come i barbari governanti a Berlino la distrussero nella guerra. Se questo accadesse avremmo gli stessi sciocchi sogghigni e le banali domande: gli uomini chiederebbero quale egoistico avido tipo di donna era quello che pretendeva un tributo in forma di fiori, o chiedeva oro massiccio in forma di monili, e domanderebbe ancora quale crudele divinità poteva chiedere sacrificio e rinnegamento di sé. Essi avrebbero perduto il senso di quanto gli innamorati hanno inteso per amore e non comprenderebbero che quei doni avvenivano perché non richiesti. (Chesterton, San Francesco)


CREATURE
Trovandosi questi in un certo senso mistico dall’altro lato delle cose, (san Francesco) le vede procedere dalla divinità come fanciulli uscenti da una casa familiare e gradita, invece d’incontrarle come accade a molti di noi, già vaganti sulle strade del mondo. (Chesterton, San Francesco)

DEPRESSIONE
Opprimere le persone è un peccato terribile; ma deprimerle è un peccato peggiore (Chesterton, in La serietà non è una virtù, p. 41)

SERIETA'
I gatti sono seri come la Sfinge che, a giudicare dalla posa, deve essere una sorta di gatto. Ma le ricche e anziane signore che amano i gatti sono altrettanto serie riguardo i gatti e loro stesse. Anche gli antichi egizi veneravano i gatti, oltre ai coccodrilli, agli scarabei e a ogni genere di essere; ma quei felini erano serissimi e trasmettevano questa serietà ai loro adoratori. L’arte egizia era volutamente dura, diretta e tradizionale; tuttavia sapeva rappresentare con grande vivezza uomini che lavoravano, cacciavano, combattevano, banchettavano e pregavano. Eppure bisogna attraversare molti corridoi decorati da quest’arte colorata e quasi crudele prima di poter vedere un uomo che ride. Gli dei non spronavano gli egiziani a ridere. Le massaie mi hanno rivelato che gli scarabei ridono di rado. I gatti non ridono, tranne il Gatto del Cheshire (che però non vive in Egitto); e perfino quest’ultimo sogghigna soltanto. I coccodrilli non ridono. Versano lacrime. (Chesterton, Sulla serietà)

VITELLO GRASSO
Non adorerò il Vitello d’Oro; ancor meno adorerò il Vitello Grasso. Al contrario, me ne ciberò (Chesterton, Sulla serietà)


ANIMALI
Spesso si discute se gli animali siano in grado di ridere. Dicono che la iena ride: ma la sua risata ricorda piuttosto il «grido d’incoraggiamento ironico» di un parlamentare. Tutt’al più fa una risata ironica. In generale è vero che tutti gli animali tranne l’uomo sono seri. E credo che lo dimostri il fatto che anche tutti gli esseri umani con uno spiccato interesse per gli animali sono seri; molto più seri di quanto non siano gli uomini riguardo a qualsiasi altro argomento (Chesterton, Sulla serietà)


MEDIOEVO ITALIANO
Era stata dichiarata guerra tra Assisi e Perugia. Sarebbe di moda usare un certo spirito satirico, oggi, dicendo che quelle guerre non scoppiavano, ma duravano indefinitamente tra i comuni dell’Italia medioevale. Sarà sufficiente dire che se una di quelle guerre fosse realmente durata, senza interruzioni, per un secolo, avrebbe probabilmente ucciso un numero di uomini infinitamente minore di quanti ne uccide in un anno una delle nostre guerre scientifiche fra i grandi moderni imperi industriali.
Ma i cittadini delle repubbliche medioevali potevano essere chiamati a morire solo per quanto di più sacro avevano, per le case che abitavano, per gli altari che veneravano, per i governatori o delegati che conoscevano: non esisteva per loro la più vasta visione che chiama adesso a morire per le recentissime notizie di lontane colonie riferite da giornali anonimi.
E se ne deduciamo per nostra esperienza che la guerra doveva paralizzare la civiltà, dobbiamo almeno ammettere che quelle cittadine guerriere dettero un buon numero di paralitici che rispondono ai nomi di Dante e Michelangelo; Ariosto, Tiziano, Leonardo, Colombo, non escludendo Caterina da Siena e il Soggetto di questa storia (Chesterton, San Francesco, 1923)


PECCATO ORIGINALE
Vi è nell’uomo una tendenza a inclinarsi come nelle bocce: il Cristianesimo servì a correggerla e a colpire nel segno. Molti sorrideranno, ma è profondamente vero che la lieta buona novella recata dal Vangelo fu quella del peccato originale (GK Chesterton, San Francesco)

CONTENTEZZA
"La vera contentezza è una cosa attiva come l’agricoltura. È la capacità di tirar fuori da una situazione tutto quello che contiene. È difficile ed è rara." (G.K. Chesterton)

BEATITUDINE
Per i cattolici è dogma fondamentale di fede che ogni essere umano senza eccezione alcuna viene particolarmente fatto, formato e aguzzato come freccia lucente allo scopo di colpire nel centro della Beatitudine (G. K. Chesterton, La Chiesa Viva)


PUBBLICITA'
«E' meno ripugnante vedere un povero mendicare rispetto a un ricco che domanda altro denaro. La pubblicità è il ricco che chiede altri soldi» (G.K. Chesterton, La nuova Gerusalemme, 1920)

MATRIMONIO
Se si sostiene che il matrimonio è per la gente comune, mentre il divorzio è per gli spiriti liberi e nobili, tutte le persone deboli ed egoiste si precipiteranno a chiedere il divorzio mentre i pochi spiriti liberi e nobili (proprio perché sono liberi e nobili) continueranno a lottare per il loro matrimonio. Infatti è uno dei segni distintivi della vera dignità d’animo non volersi allontanare dall’onore e dalla tragedia dell’intera specie. (Chesterton, da “La serietà non è una virtù”)

UOMO COMUNE
Tutti gli uomini sono uomini comuni; gli uomini straordinari sono quelli che si rendono conto di ciò.
Il punto debole dell’asserzione secondo la quale il vincolo del matrimonio va bene per il gregge ma può essere proficuamente infranto da speciali “sperimentatori” e pionieri, consiste nel fatto che non si considera il male dell’orgoglio.
… In sintesi, il grande uomo è un uomo; è sempre l’uomo meschino ad essere il Superuomo. (Gilbert K. Chesterton, da “La serietà non è una virtù”)


PROGRESSO
"Il progresso è la provvidenza senza Dio. Cioè, è la teoria che tutto sia da sempre andato verso il bene casualmente. È una specie di ottimismo estetico, basato su una coincidenza perenne di gran lunga più miracolosa di un miracolo". Gilbert Keith Chesterton, What I saw in America

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Come minimo sei volte, in questi ultimi anni, mi sono trovato in situazioni tali da non avere altra scelta che quella di farmi cattolico. E l'avrei fatto, se questo passo avventato non mi fosse stato impedito dalla fortunata coincidenza che già lo ero. (Chesterton, Il pozzo e le pozzanghere, p. 35)


Non amo la serietà, penso che sia antireligiosa. Ho meglio, è un vezzo di tutte le false religioni (G.K. Chesterton)



Da noi, la classe di governo si dice di continuo: «Quali leggi faremo». In uno stato autenticamente democratico, si direbbe sempre: «A quali leggi possiamo obbedire?». Forse, uno stato autenticamente democratico non è mai esistito. Ma perfino le epoche feudali, nella pratica, erano così democratiche, che ogni governante feudale sapeva che, qualunque legge avesse emanato, con ogni probabilità s... Altro...




"Cristo non scelse come pietra angolare il geniale Paolo o il mistico Giovanni, ma un imbroglione, uno snob, un codardo: in una parola, un uomo. E su quella pietra Egli ha edificato la Sua Chiesa...Tutti gli imperi e tutti i regni sono crollati, per questa intrinseca e costante debolezza, che furono fondati da uomini forti su uomini forti. La Chiesa fu fondata su un uomo debole, e per questo motivo è indistruttibile. Poiché nessuna catena è più forte del suo anello più debole" (Chesterton)



Una gran quantità del moderno ingegno viene spesa per trovare giustificazioni alla condotta ingiustificabile dei potenti (Chesterton, Eretici, XIII, 1905 )



Noi non potremo godere della natura, né del vino, né di alcun’altra cosa, se avremo l’atteggiamento sbagliato verso la felicità.. se dobbiamo essere veramente gai, dobbiamo credere che c’è una qualche eterna gaiezza nella natura delle cose. Non possiamo neppure godere appieno di un pas-de-quatre a un ballo benefico, se non crediamo che le stelle stiano danzando alla stessa musica. (Eretici, VII, GK Chesterton)



La superstizione del buon gusto

Quando i vecchi liberali tolsero il bavaglio a tutte le eresie, la loro idea era che così sarebbero divenute possibili nuove acquisizioni religiose e filosofiche. La loro opinione era che la verità cosmica fosse così importante, che ognuno avrebbe dovuto recare una testimonianza indipendente. L’idea moderna è che la verità cosmica sia di così scar...


"Il matrimonio è un duello all'ultimo sangue che nessun uomo d'onore dovrebbe declinare". (Chesterton)




"Una cosa morta può andare con la corrente, ma solo una cosa viva può andarvi contro" (Gilbert Keith Chesterton)



Fra comunismo e capitalismo la grandezza di Chesterton

L'uomo medio non può dipingere il tramonto con i suoi colori preferiti, però può dipingere la propria casa della tinta che vuole e, quand'anche decidesse di dipingerla di verde pisello a pallini rosa, sarebbe comunque un artista, perché avrebbe operato una scelta. La proprietà non è altro che l'arte della democrazia. In altre parole, ogni uomo ...



Teniamo l’occhio in esercizio fino a quando impara a vedere le realtà sensazionali che corrono attraverso il campo visivo, cioè quelle ordinarie come una staccionata dipinta. Diventiamo atleti oculari. Impariamo a scrivere saggi su un gatto randagio o una nuvola colorata.
(Chesterton, da La Nonna del drago e altre serissime storie)



La cassetta postale è uno degli ultimi templi. Impostare una lettera e sposarsi sono fra i pochi atti a noi rimasti che siano compiutamente romantici; perché, per essere compiutamente romantico, un atto deve essere irrevocabile. Si chiama cassetta postale, ma è una casa della vita e della morte, è un santuario delle parole umane. (Chesterton, Eretici, cap.3)



"Non nego che debbano esserci i preti per rammentare agli uomini che un giorno dovranno morire. Dico soltanto che, in certe epoche strane, è necessaria un'altra specie di preti, chiamati poeti, per ricordare agli uomini che ancora non sono morti". (Gilbert Keith Chesterton, L' Uomo vivo)


"Spero sappiate che che i quattro fiumi dell'Eden scorrevano latte, acqua, vino e birra. Le acque gassate comparvero sulla terra solo dopo la caduta dell'uomo". (Chesterton)

Edited by fra roberto - 22/9/2014, 20:32
view post Posted: 21/9/2014, 15:19 Chesterton 2 - Aforismi
IRLANDESI
Gli inglesi si affrettarono ad abbandonare l'Inghilterra per correre dietro al signor Kipling ed alle sue immaginarie colonie; e si affrettarono inoltre ad abbandonare il Cristianesimo per un certo giudaismo piuttosto morboso di marca kiplinghiana.
Tale fermento morale suscitato da un libro, sarebbe stato impossibile in Irlanda, perché il cervello dell'irlandese sa ben distinguere la vita dalla letteratura. B. Shaw ha sintetizzato la cosa, come in tanti altri casi, con una frase incisiva pronunciata alla presenza di chi scrive: «l'irlandese ha due occhi ». Egli alludeva al fatto che esso con un occhio corre dietro ad un sogno affascinante o sublime, ma con l'altro si rende conto che, dopo tutto, non è che un sogno; e sia l'umorismo che il sentimentalismo degli inglesi non hanno su di lui effetto alcuno se non di fargli strizzare l'altro occhio (Chesterton, Shaw)

SAGGEZZA
Gli irlandesi dicono degli spropositi per la stessa ragione per cui accettano le bolle papali; ossia perché è meglio parlare assurdamente di cose sagge, come i santi, che saggiamente di cose assurde, come i professori universitari (Chesterton, Shaw)

GIORNALISMO
L'unica scusa valida per fare letteratura è rendere nuove le cose; e la principale iattura del giornalismo è renderle vecchie (Chesterton, Impressioni irlandesi)

POLITICI
Il politico moderno conduce le sua vita pubblica in privato. A volte accondiscende a compensare la cosa, fingendo di condurre la sua vita privata in pubblico. Metterà il suo bambino o il suo album di compleanno sui giornali illustrati; mentre i suoi affari con i milioni colossali dei milionari cosmopoliti, li metterà in tasca, o nella sua cassaforte. Possiamo sapere tutto dei suoi cani e gatti; ma niente di quei più grandi e pericolosi animali, i Tori e gli Orsi (in inglese sono termini usati i borsa) (Chesterton, Impressioni Irlandesi)

PROTESTANTI
Il protestante dice in generale: "Io sono un buon protestante", mentre il cattolico dice sempre: "Io sono un cattivo cattolico" (Chesterton, Impressioni irlandesi)

PATRIOTA
La cosa che impedisce l'imperialismo è il nazionalismo. Era esattamente perché la Germania non era una nazione, che desiderava sempre più essere un impero. Perché il patriota è un amante, e un amante è una specie d'artista; e l'artista amerà sempre troppo una forma per desiderare che diventi informe, anche per diventare più grande (Chesterton, Impressioni Irlandesi)

AGRICOLTURA
Il mio argomento era confinato al valore particolare della piccola proprietà come arma di democrazia militante, ed era basato sull'idea che il cittadino che resiste a un'ingiustizia non può trovare un sostituto alla proprietà privata; perché ogni altro potere impersonale, anche se democratico in teoria, sarebbe burocratico nella forma. Ho detto, con una frivola figura retorica, che affidare la proprietà a ufficiali, sarebbe come lasciare le proprie gambe al guardaroba assieme al bastone o all'ombrello. Il punto è che un uomo potrebbe aver bisogno delle proprie gambe a ogni minuto, per dare un calcio a un uomo o per ballare con una signora; e recuperarle potrebbe essere ritardato da qualsiasi inciampo, dalla perdita del biglietto alla fuga dolosa dell'ufficiale. Così in una crisi sociale, come in uno sciopero, un uomo dev'essere libero di agire senza ufficiali che lo impediscano o tradiscano; e chiesi quanti scioperi avrebbero avuto successo se ogni scioperante avesse avuto un orticello per garantirsi la sopravvivenza. Il mio oppositore replicò che era sempre stato favorevole a una piccola riserva di proprietà proletaria, ma che la preferiva comune, invece che individuale; il che mi sembra lasci le cose al punto di prima; perché ciò che è comune dev'essere ufficiale, altrimenti sarà caotico (Chesterton, Impressioni irlandesi)

IRLANDESI
Un aneddoto del vecchio Parlamento irlandese descrive un oratore che alludeva graziosamente alla presenza della sorella di un oppositore nella galleria delle Signore, pregando che l'ira divina colpisse l'intera maledetta generazione «dalla vecchia befana sdentata che ghigna nella galleria, fino al poltrone senza fegato che trema quaggiù». La storia viene spesso narrata per suggerire la fiera divisione dei partiti irlandesi; ma è altrettanto importante come suggerimento dell'unione delle famiglie irlandesi (Chesterton, Impressioni irlandesi)

ARISTOCRATICI
Il senso della famiglia è come un cane e segue la famiglia; il senso dell'aristocrazia è come un gatto e continua ad abitare la casa (Chesterton, Impressioni irlandesi)


NOMI
Potrebbe emergere alla fine, anche presso i pedagogisti, che c'è un valore tanto nel contenuto quanto nell'ampiezza della cultura; o (in altre parole), che conoscere novecento parole non è sempre più importante che conoscere ciò che alcune di esse significano. È strettamente e sobriamente vero che ogni contadino, in una capanna di fango nella contea di Giare, quando da al proprio figlio il nome Michael, può realmente percepire il senso della presenza che ha abbattuto Satana, le braccia e il piumaggio del paladino del paradiso. Non so se sia così del tutto probabile che ogni impiegato in ogni villa su Clapham Common, quando mette il nome John al proprio figlio, abbia una visione dell'aquila santa dell'Apocalisse, o anche del vaso mistico del discepolo che Gesù amò. Di fronte a questo semplice fatto, non ho dubbi su chi sia l'uomo più istruito; e anche una lettura del "Daily Mail" non sposta gli equilibri. Si dice spesso, e forse è vero, che un contadino di nome Michael non può scrivere il proprio nome. Ma è altrettanto vero che l'impiegato di nome John non può leggere il proprio nome. Non può leggerlo perché è in una lingua straniera, e non è mai stato messo in grado di rendersi conto a cosa alluda quel nome. Non sa che John significa John, mentre l'altro sa che Michael significa Michael. In questo senso strettamente realistico, perfino il figlio dell'intellettualismo industriale non conosce il suo stesso nome (Chesterton, Impressioni irlandesi, p.49)

IRLANDESI
Ogni attacco alla classe contadina irlandese è come un tentativo di abolire l'erba; che non solo ne è il simbolo nell'antico canto nazionale, ma ne è il vero, autentico simbolo in ogni più recente storia filosofica; un simbolo della sua uguaglianza, della sua ubiquità, della sua molteplicità, della sua potente capacità di tornare. Combattere contro l'erba è combattere contro Dio; possiamo solo gestire così male la nostra città e i nostri cittadini, che l'erba crescerà nelle nostre strade. E anche così saranno le strade a morire; e l'erba vivrà ancora. (Chesterton, Impressioni irlandesi)

AGRICOLTURA
Non so fino a che punto l'Europa moderna sia sotto la minaccia bolscevica, oppure sotto un mero terrore del capitalismo. Ma so che se dev'essere offerta un'onesta resistenza al puro ladrocinio, la resistenza dell'Irlanda sarebbe la più onesta, e probabilmente la più importante. Potrebbe avvenire che l'internazionale israeliana lanci contro di noi, dall'Est, una folle semplificazione dell'unità dell'Uomo, come l'Islam una volta lanciò contro di noi, dall'Est, una folle semplificazione dell'unità di Dio. Se fosse così, è dove la proprietà è ben distribuita che sarà ben difesa. Il posto d'onore sarà con coloro che combattono secondo verità per la loro propria terra. Se mai venisse un'orda selvaggia di dervisci contro di noi, sarebbero i carri e gli elefanti della plutocrazia che cadrebbero in confusione e in rotta; e le squadre della fanteria contadina resisterebbero (Chesterton, Impressioni Irlandesi, A.D. 1919)

TRADIZIONI
Sono gli inglesi (e non gli irlandesi) che sono strambi perché non vedono le fate. Sono gli abitanti di Kensington che sono stravaganti e folli perché non cantano vecchie canzoni e non si uniscono in strane danze (XIII)
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