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Il signor H.G. Wells e i giganti, Chesterton - cap. V di Eretici

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view post Posted on 3/2/2014, 19:43

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Il signor H.G. Wells e i giganti


Noi dovremmo vedere abbastanza a fondo in un ipocrita, da vedere persino la sua sincerità. Noi dovremmo essere interessati a quella parte più oscura e reale di un uomo, in cui albergano, non i vizi che non mostra, ma le virtù che non può mostrare. E quanto più affronteremo i problemi della storia umana con questa sottile e penetrante carità, tanto più si ridurrà lo spazio che concederemo alla pura ipocrisia di qualunque genere. Gli ipocriti non ci indurranno a crederli santi; ma neppure ci indurranno a crederli ipocriti. E un numero crescente di casi si affollerà nel nostro campo di indagine, casi in cui non sussiste alcuna questione di ipocrisia, casi in cui le persone erano così sincere da sembrare assurde, e così assurde da sembrare in malafede.
C’è un esempio clamoroso di un’ingiusta accusa d’ipocrisia. Agli uomini religiosi delle epoche passate viene sempre rimproverata, come un tratto di incoerenza e duplicità, la tendenza a combinare una professione di quasi strisciante umiltà con una fiera lotta per il successo mondano e un considerevole trionfo nel momento in cui lo raggiungevano. Così, pare un vero e proprio imbroglio, che un uomo potesse mostrare tanto puntiglio nel dichiararsi un miserabile peccatore e altrettanto puntiglio nel dichiararsi re di Francia. Ma la verità è che, tra l’umiltà e la rapacità di un cristiano, non c’è una più consapevole incoerenza che fra l’umiltà e la rapacità di un amante. La verità è che per nessun obiettivo gli uomini compiranno sforzi erculei, come per quello di cui si sanno indegni. Non ci fu mai uomo innamorato che non dichiarasse che, anche se avesse dovuto tendere ogni nervo fino a spezzarlo, avrebbe posseduto l’oggetto del suo desiderio. E non ci fu mai uomo innamorato che non dichiarasse, al contempo, che non avrebbe dovuto possederlo. L’intero segreto del successo pratico del cristianesimo risiede nell’umiltà cristiana, per quanto imperfettamente sviluppata. Poiché, abolita ogni questione di merito o ricompensa, l’anima è improvvisamente liberata per incredibili viaggi. Se noi chiediamo a un uomo ragionevole quanto meriti, subito la sua mente si ritrae d’istinto. È dubbio se meriti due palmi di terra. Ma se gli domandate che cosa possa conquistare, ebbene, egli può conquistare le stelle. Così nasce quella cosa detta romanzo, un prodotto squisitamente cristiano. Un uomo non può meritare le avventure; non può procurarsi draghi e ippogrifi. L’Europa medievale che asseriva l’umiltà, acquisì il Romanzo; la civiltà che acquisì il Romanzo, ha acquisito il globo abitabile. Una famosa citazione ha espresso in modo ammirevole tutta la differenza tra questa e la mentalità pagana e stoica. Così Addison1 fa dire al grande stoico2:
«’Tis not in mortals to command success;
But we’ll do more, Sempronius, we’ll deserve it»3.

Ma lo spirito del romanzo e del cristianesimo, lo spirito che è in ogni amante, lo spirito che si è messo in arcioni sul mondo con l’avventura europea, è del tutto opposto. «Non è dato ai mortali di meritare il successo: Ma noi faremo di più, Sempronio, l’otterremo.»
E questa gaia umiltà, questa inclinazione a tenersi in poco conto e tuttavia pronti per un’infinità di trionfi immeritati, questo stesso segreto, è così semplice, che tutti hanno supposto che dovesse essere qualcosa di quanto mai sinistro e misterioso. L’umiltà è una virtù così pratica che gli uomini pensano debba essere un vizio. L’umiltà è a tal punto coronata dal successo, che viene scambiata per orgoglio. E tanto più facilmente, perché, in generale, si accompagna con una certa, semplice attrazione per lo splendore, che si riassume nella vanità. L’umiltà andrà sempre, di preferenza, abbigliata d’oro e scarlatto; l’orgoglio, in quell’abito che rifiuta di permettere che l’oro e lo scarlatto esercitino una troppo forte impressione o lusinga. In una parola, il fallimento di questa virtù risiede in effetti nel suo successo; ha troppo successo, come investimento, per essere creduta una virtù. L’umiltà è semplicemente troppo buona per questo mondo; troppo pratica per questo mondo; quasi stavo per dire, troppo mondana per questo mondo.
L’esempio più citato ai nostri giorni è la cosiddetta umiltà dell’uomo di scienza; e questo, di sicuro, è un esempio calzante, oltre che moderno. Agli uomini riesce estremamente difficile credere che un uomo che sta palesemente sradicando le montagne e dividendo i mari, demolendo i templi e tendendo le mani alle stelle, sia in realtà un tranquillo, vecchio signore che chiede soltanto di poter indulgere al suo innocuo, vecchio passatempo e seguire il suo innocuo, vecchio naso. Quando un uomo divide un granello di sabbia, e l’universo, di conseguenza, viene rovesciato, è difficile rendersi conto che, per chi l’ha fatto, la divisione del granello di sabbia è la questione capitale, e il ribaltamento del cosmo una questione del tutto trascurabile. È difficile entrare nella sensibilità di un uomo che considera un nuovo cielo e una nuova terra alla stregua di prodotti secondari. Ma, indubbiamente, è a questa innocenza quasi arcana dell’intelletto, che i grandi uomini del grande periodo scientifico, che ora pare vicino a chiudersi, dovettero le loro enormi capacità e trionfi. Se avessero abbattuto i cieli come un castello di carte, la loro giustificazione non sarebbe stata neppure che l’avevano fatto per principio; la loro giustificazione, inattingibile a qualunque risposta, sarebbe stata che l’avevano fatto per caso. Quando c’era, in loro, una minima punta di orgoglio per quanto avevano fatto, c’era un buon motivo per attaccarli; ma finché rimasero totalmente umili, essi furono totalmente vittoriosi. C’erano possibili risposte a Huxley; non c’era risposta possibile a Darwin4. Darwin era convincente per via della sua inconsapevolezza; si potrebbe quasi dire per la sua ottusità. Questa mentalità infantile e prosaica incomincia a sparire nel mondo della scienza. Gli uomini di scienza stanno cominciando a vedersi, come si dice felicemente, nella parte; stanno cominciando a essere fieri della loro umiltà. Stanno incominciando ad assumere una piega estetizzante, come il resto del mondo, incominciando a scrivere verità con la V maiuscola, incominciando a parlare di fedi che immaginano di avere distrutto, delle scoperte compiute dai loro predecessori. Come i moderni inglesi, stanno incominciando a nutrire un debole per la loro durezza. Stanno incominciando a diventare consapevoli della loro stessa forza, vale a dire, stanno diventando deboli.
Ma nei decenni che a rigore diciamo moderni, è emerso un uomo puramente moderno che reca nel nostro mondo la chiara semplicità personale dell’uomo di scienza. Un uomo di genio che è un artista, ma che è stato un uomo di scienza e che sembra contrassegnato, sopra ogni cosa, da questa grande umiltà scientifica. Intendo il signor H.G. Wells. E nel suo caso, come nei casi illustrati più sopra, deve sussistere una grave difficoltà preliminare nel convincere l’uomo comune che si possa asserire una simile virtù in un simile uomo. Il signor Wells ha esordito nella sua carriera letteraria con visioni violente, visioni degli ultimi spasimi del nostro pianeta; può essere che un uomo che esordisce con visioni violente sia umile? Egli si è avventurato in storie sempre più sfrenate di bestie tramutate in uomini e angeli presi a fucilate come uccelli. È umile l’uomo che spara agli angeli e trasmuta le bestie in uomini? Da allora, ha fatto qualcosa di ancora più audace di entrambe queste empietà; ha profetizzato il futuro politico di tutti gli uomini; l’ha profetizzato con un’aggressiva autorità e una squillante pregnanza di particolari. È umile il profeta del futuro di tutti gli uomini? Davvero, sarà difficile nelle presenti condizioni del pensiero attuale su tratti quali l’orgoglio e l’umiltà, rispondere alla domanda di come possa essere umile un uomo che fa cose così importanti e così ardite. Perché la sola risposta è la risposta che ho dato al principio di questo saggio. È l’uomo umile, che fa le grandi cose. È l’uomo umile che fa le cose ardite. È l’uomo umile che vede i sensazionali scorci che gli sono accordati e per tre ovvii motivi: in primo luogo, egli sforza i suoi occhi più di chiunque altro per vederli; in secondo luogo, quando sopravvengono, ne è sopraffatto ed esaltato più degli altri; in terzo luogo, li registra con maggiore precisione e sincerità e con minori falsificazioni imputabili al suo io più ordinario e presuntuoso della vita di ogni giorno. Le avventure sono per coloro a cui riescono più inaspettate, vale a dire, per i più romantici. Le avventure sono per i timidi; in questo senso, le avventure sono per coloro che non sono avventurosi.
Ora, questa stupefacente umiltà intellettuale del signor H.G. Wells può essere, come molte altre caratteristiche vivide e vitali, difficile da illustrare con esempi, ma se mi chiedessero di fornirne uno, io non avrei difficoltà a decidere con quale incominciare. L’aspetto più interessante nel signor H.G. Wells, è che egli è l’unico, fra i suoi molti, brillanti contemporanei, che non ha smesso di crescere. Si potrebbe restare svegli di notte e sentirlo crescere. E, di questa crescita, la manifestazione più evidente è un graduale mutamento di opinione; ma non di un mero mutamento di opinione si tratta. Non è un perpetuo balzare da una posizione all’altra come quello del signor George Moore5. E un’avanzata quasi ininterrotta lungo una strada quanto mai solida in una direzione perfettamente definibile. Ma la prova principale che esclude l’incostanza e la vanità, risiede nella circostanza che, nel complesso, si è trattato di un’avanzata da opinioni più sorprendenti a opinioni più trite. In un certo senso, si è trattato perfino di un’avanzata da opinioni non convenzionali a opinioni convenzionali. Questo fatto stabilisce l’onestà del signor Wells e dimostra che non è un poseur. Il signor Wells una volta riteneva che le classi superiori e inferiori sarebbero state così differenziate nel futuro, che l’una avrebbe mangiato l’altra. Certamente, nessun ciarlatano incline al paradosso, che avesse trovato, una volta, argomenti per un punto di vista così sorprendente, l’avrebbe mai abbandonato se non per qualcosa di ancora più sorprendente. Il signor Wells l’ha abbandonato a favore dell’ineccepibile convinzione che entrambe le classi, alla fine, saranno subordinate o assimilate a una sorta di classe media versata nella scienza, una classe di ingegneri. Egli ha abbandonato la teoria sensazionale con la stessa onorevole gravità e semplicità con cui l’aveva adottata. Allora pensava che fosse vera; ora pensa che non sia vera. È giunto alla più temibile conclusione a cui possa giungere un uomo di lettere, la conclusione che il punto di vista comune è giusto. È solo l’ultimo e più folle genere di coraggio, che può levarsi su una torre davanti a diecimila persone e dire loro che due più due fa quattro.
Oggi, il signor Wells esiste in una gaia ed esilarante condizione progressiva di conservatorismo. Sempre più va scoprendo che le convenzioni, per quanto silenziose, sono vive. ll suo mutamento di opinione in merito alla scienza e al matrimonio offre un bell’esempio, fra tutti, di questa sua umiltà e assennatezza. Una volta, io credo, egli sosteneva l’opinione, ancora sostenuta da alcuni singolari sociologi, che fosse possibile accoppiare e allevare con successo le creature umane al modo dei cani e dei cavalli. Ora non sostiene più quell’opinione. Non solo non sostiene più quell’opinione, ma ne ha scritto nella Formazione del genere umano con un acume e un umorismo così devastanti, che trovo difficile pensare che qualcun altro possa ancora sostenerla. È vero che la sua principale obiezione alla proposta risiede nella sua impossibilità fisica, un’obiezione, a mio parere, quanto mai debole e quasi trascurabile in confronto ad altre. La sola obiezione al matrimonio scientifico degna di definitiva attenzione è semplicemente questa, che solo schiavi e codardi inimmaginabili accetterebbero un’imposizione simile. Io non so se i matrimonialisti scientifici abbiano ragione (come dicono) o torto (come dice il signor Wells), quando affermano che la supervisione medica produrrebbe uomini forti e sani. Io ho solo la certezza che il primo atto di uomini forti e sani sarebbe di sbaragliare la supervisione medica.
L’errore di tutti questi discorsi medici risiede nel fatto stesso che collegano l’idea di salute con l’idea di avvedutezza. Che cosa ha a che vedere la salute con l’avvedutezza? La salute ha a che vedere con l’incuranza. In casi speciali e fuori dalla norma l’avvedutezza può diventare necessaria. Ma, anche allora, noi cerchiamo solo di diventare sani per essere incuranti. Se siamo medici, stiamo parlando a uomini eccezionalmente malati, a cui dobbiamo dire di essere avveduti. Ma quando siamo sociologi, ci stiamo rivolgendo all’uomo normale, ci stiamo rivolgendo all’umanità. E all’umanità bisognerebbe dire di essere l’avventatezza fatta persona. Perché, in un uomo sano tutte le funzioni dovrebbero svolgersi, in modo assoluto, con piacere e per il piacere; non dovrebbero svolgersi, in modo assoluto, con precauzione o per precauzione. Un uomo dovrebbe mangiare perché ha un buon appetito da soddisfare, e non mai, in modo assoluto, perché ha un corpo da nutrire. Un uomo dovrebbe fare esercizio, non perché è troppo grasso, ma perché ama le piste degli animali selvatici o i cavalli o le alte montagne, e le ama in sé e per sé. E un uomo dovrebbe sposarsi perché si è innamorato, e non mai, in modo assoluto, perché bisogna popolare il mondo. Il cibo rinnoverà veramente i suoi tessuti se egli non penserà ai suoi tessuti. L’esercizio lo metterà veramente in forma se penserà a qualcosa d’altro. E il matrimonio si presenterà veramente come una possibilità di produrre una generazione dal sangue generoso, se avrà origine nella sua naturale e generosa eccitazione. La prima legge della salute è che non dobbiamo accettare le nostre necessità come necessità; dovremmo accettarle come lussi. Siamo avveduti, dunque, sulle piccole cose, come un graffio o una piccola malattia, o qualunque cosa a cui si possa rimediare con l’avvedutezza. Ma in nome di tutto ciò che è sano, siamo incuranti sulle cose che contano, come il matrimonio, o la fonte della nostra stessa vita verrà a mancare.
Il signor Wells, tuttavia, non è abbastanza libero dalla più angusta prospettiva scientifica, per vedere che ci sono cose che in effetti non dovrebbero essere scientifiche. Egli è leggermente affetto dal grande errore scientifico; intendo l’abitudine di incominciare, non dall’anima umana, che è la prima cosa di cui l’uomo viene ad apprendere, ma da un’entità come il protoplasma, che è più o meno l’ultima. L’unico difetto nella sua splendida attrezzatura intellettuale è che non tiene abbastanza conto della sostanza o la materia degli uomini. Nella sua Nuova Utopia, per esempio, dice che un aspetto fondamentale dell’Utopia sarà la negazione della credenza nel peccato originale. Se avesse cominciato dall’anima umana, vale a dire, se avesse cominciato da sé, avrebbe scoperto che il peccato originale è pressoché la prima cosa in cui credere. Avrebbe scoperto, per dirla in breve, che è dal mero fatto di avere un io, e non da qualunque accidente legato all’educazione o ai maltrattamenti subiti, che insorge una possibilità permanente di egoismo. E la debolezza di tutte le utopie è questa, che prendono la più grave difficoltà dell’uomo e presumono che sia superata, dopo di che, forniscono un resoconto elaborato del superamento di quelle minori. Queste teorie presumono che nessun uomo vorrà mai più della sua spettanza, dopo di che, spiegano in modo assai ingegnoso se la sua spettanza sarà consegnata in automobile o in pallone. E un esempio ancora più evidente dell’indifferenza del signor Wells per la psicologia umana si può trovare nel suo cosmopolitismo, l’abolizione, nella sua Utopia, di qualunque confine patriottico. Nel suo modo innocente, egli dice che Utopia dovrà essere uno Stato mondiale, o la gente vi farà guerra. Non sembra passargli per la testa che, se fosse uno stato mondiale, molti di noi ugualmente vi farebbero guerra fino alla fine del mondo. Perché, se ammettiamo che debbano esserci diversità nell’arte e nelle opinioni, che senso c’è nel pensare che non ci saranno diversità nelle forme di governo? Il fatto è molto semplice. A meno che impediate deliberatamente che una cosa sia buona, non potete impedire che sia degna di una qualche lotta. È impossibile prevenire un eventuale conflitto di civiltà, perché è impossibile prevenire un eventuale conflitto tra ideali. Se non ci fosse più la moderna contesa fra le nazioni, ci sarebbe soltanto una contesa tra Utopie. Perché la cosa più alta non tende soltanto a unire; la cosa più alta tende anche a differenziare. Potrete spesso indurre gli uomini a lottare per l’unione; ma non potrete mai impedire loro di lottare anche per la differenziazione. Questa sfaccettatura insita nella cosa più alta è il significato dell’acceso patriottismo, dell’acceso nazionalismo della grande civiltà europea. È anche, sia detto per inciso, il significato della dottrina della Trinità.
Ma io credo che l’errore principale nella filosofia del signor Wells sia un errore in qualche misura più profondo, un errore a cui egli dà voce in modo assai avvincente nell’introduzione alla nuova Utopia. La sua filosofia, in certo senso, si riduce a una negazione della possibilità della filosofia stessa. Perlomeno, egli ritiene che non ci siano ideali solidi e sicuri su cui possiamo fondarci con una definitiva convinzione intellettuale. Risulterà, tuttavia, più chiaro e, insieme più divertente, citare lo stesso signor Wells.
«Nulla dura» egli dice, «nulla è certo e preciso (salvo la mente di un pedante)... L’essere, ma via! Non c’è alcun essere, ma un divenire universale degli individui, e Platone voltò le spalle alla verità quando si rivolse al suo museo di ideali specifici.» E, ancora, dice il signor Wells: «Non c’è alcuna cosa durevole in ciò che conosciamo. Noi passiamo da luci più deboli a luci più forti, e ogni luce più potente trapassa le nostre fondamenta fin’allora opache e rivela nuove e diverse opacità al di sotto». Ora, quando il signor Wells dice cose del genere, io parlo con tutto il rispetto quando dico che non osserva un’evidente distinzione mentale: non può essere vero che non ci sia nulla di durevole in ciò che conosciamo. Perché, se così fosse, noi non lo conosceremmo per intero e non lo definiremmo come la nostra conoscenza. La nostra condizione mentale può essere molto diversa da quella di qualcun altro vissuto diverse migliaia di anni addietro; ma non può essere interamente diversa, altrimenti non saremmo coscienti di una differenza. Di sicuro, il signor Wells deve rendersi conto del primo e più semplice fra i paradossi che posa accanto alle fonti della verità. Di sicuro deve vedere che, se due cose sono diverse, questo implica anche che siano simili. La lepre e la tartaruga possono differire nella qualità della velocità, ma devono concordare nella qualità del movimento. La lepre più veloce non può essere più veloce di un triangolo isoscele o dell’idea del rosa. Quando diciamo che la lepre si muove più in fretta, noi diciamo che la tartaruga si muove. E quando diciamo di una cosa che si muove, noi diciamo, senza bisogno di altre parole, che altre cose non si muovono. E nell’atto stesso in cui diciamo che le cose mutano, noi diciamo che c’è qualcosa di immutabile.
Ma certamente il miglior esempio dell’errore del signor Wells si trova nell’esempio scelto da lui stesso. È ben vero che noi vediamo una luce indistinta che, confrontata con una cosa più scura, è luce, ma che, confrontata con una luce più chiara, è tenebra. Ma la qualità della luce rimane la stessa, altrimenti noi non definiremmo una luce più forte, né la riconosceremmo come tale. Se il carattere della luce non fosse fissato nella mente, con altrettanta probabilità noi definiremmo un’ombra più densa come una luce più forte, o vice versa. Se il carattere della luce diventasse instabile anche solo per un istante, se diventasse dubbio anche solo di un niente, se, per esempio, s’insinuasse nella nostra idea della luce una qualche vaga idea di azzurrità, allora, in quel lampo, noi saremmo diventati dubbiosi riguardo al fatto se la nuova luce abbia più o meno luce. In breve, il progresso può essere mutevole come una nube, ma la direzione deve essere inflessibile come una strada francese. Nord e Sud sono relativi nel senso che io mi trovo a nord di Bournemouth e a sud delle Spitzbergen. Ma se ci fosse qualche dubbio sulla posizione del polo nord, un eguale dubbio sussisterebbe sul fatto che io mi trovi a sud delle Spitzbergen. L’idea assoluta di luce può essere pressoché inattingibile. Noi potremo essere incapaci di procurare la luce pura. Potremo essere incapaci di arrivare al polo nord. Ma dal fatto che sia irraggiungibile, non consegue che il polo nord sia anche indefinibile. Ed è solo perché il polo nord non è indefinibile, che noi possiamo tracciare una mappa soddisfacente di Brighton e Worthing.
In altre parole, Platone voltò la faccia verso la verità, ma le spalle al signor H.G. Wells, quando si rivolse al suo museo di ideali specifici. È precisamente qui che Platone mostra la sua assennatezza. Non è vero che tutto muta; le cose che mutano sono tutte le cose manifeste e materiali. C’è qualcosa che non cambia; ed è precisamente la qualità astratta, l’idea invisibile. Non senza ragione, il signor Wells dice che una cosa che abbiamo visto scura in un certo rapporto, possiamo vederla chiara in un altro rapporto. Ma la cosa comune a entrambi gli accidenti è la mera idea di luce, che noi non abbiamo mai visto. Il signor Wells potrebbe diventare sempre più alto per infiniti coni, fino a che la sua testa si levasse sopra la stella più solitaria. Posso immaginare che scriva, su questa idea, un bel romanzo. In quel caso, vedrebbe gli alberi prima come cose lunghe e poi come cose corte; vedrebbe le nuvole prima come cose alte e poi come cose basse. Ma, attraverso le epoche, in lui rimarrebbe, in quella solitudine siderale, l’idea di altezza; negli spazi spaventevoli, avrebbe come compagnia e come conforto l’idea precisa di diventare sempre più alto e non (per esempio) sempre più grasso.
E ora mi viene in mente che il signor H.G. Wells ha, in effetti, scritto un romanzo delizioso sugli uomini che diventano alti come alberi; e che, anche qui, sembra essere rimasto vittima di questo vago relativismo. L’alimento degli dei, come la commedia del signor Bernard Shaw, in essenza è uno studio sull’idea del Superuomo. E si espone, io credo, anche attraverso il velo di un’allegoria quasi da pantomima, allo stesso attacco intellettuale. Non si può supporre che noi abbiamo una qualunque considerazione per una grande creatura se, in qualche misura, non si conforma ai nostri criteri. Poiché, a meno che soddisfi al nostro criterio di grandezza, non potremo neppure chiamarla grande. Nietzsche ha riassunto tutto ciò che vi è d’interessante nell’idea del Superuomo quando ha detto: «L’uomo è qualcosa che deve essere sorpassato». Ma la parola stessa «sorpassare» implica l’esistenza di un criterio comune a noi e alla creatura che ci sorpassa. Se il Superuomo è più uomo degli uomini, questi, naturalmente, alla fine lo deificheranno, anche se capiterà che prima l’uccidano. Ma se è semplicemente più superumano, gli uomini potrebbero rimanere del tutto indifferenti davanti a lui come davanti a qualunque altra mostruosità apparentemente senza scopo. Egli deve sottomettersi al nostro esame anche per superannichilirci. La forza o, perfino, la mole degli uomini è un criterio; ma questo, da solo, non indurrà mai gli uomini a pensare che un uomo sia superiore a loro. I giganti, come nelle vecchie, sagge fiabe, sono feccia. I superuomini, se non sono uomini buoni, sono feccia.
L’alimento degli dei è la storia di Jack l’Ammazzagiganti raccontata dal punto di vista del gigante. Questo, credo, non è mai stato fatto nella letteratura; ma io ho ben pochi dubbi che la sua sostanza psicologica esistesse già di fatto. Io ho ben pochi dubbi che il gigante ucciso da Jack si considerasse un Superuomo. È abbastanza probabile che considerasse Jack come una persona dalle vedute anguste e provinciali che voleva frustrare un grande movimento in avanti della forza vitale. Nel caso (non infrequente) che avesse due teste, avrebbe additato quella massima elementare secondo cui due sono meglio di una. Si sarebbe dilungato sulla sottile modernità di una simile attrezzatura che permetterebbe a un gigante di guardare un oggetto da due punti di vista, o di correggersi con prontezza. Ma Jack era il campione dei durevoli criteri umani, del principio «un uomo, una testa» e «un uomo, una coscienza», ovvero «una sola testa e un solo cuore e una sola vista». Jack non si lasciò affatto impressionare dalla questione se il gigante fosse un gigante particolarmente gigantesco. Tutto quello che voleva sapere era se fosse un gigante buono, vale a dire, un gigante buono a qualcosa. Quali erano le opinioni religiose del gigante; quali erano le sue opinioni sulla politica e i doveri dei cittadini? Amava i bambini, o li amava solo in un senso tenebroso e sinistro? Per usare un’espressione felice che indica la salute emotiva, il suo cuore era al posto giusto? Jack, in taluni casi, doveva fare a pezzi il gigante con una spada, per scoprirlo.
La vecchia, corretta storia di Jack l’Ammazzagiganti è semplicemente l’intera storia dell’uomo; se la comprendessimo, non avremmo bisogno di alcuna Bibbia né di libri di storia. Ma il mondo moderno, in particolare, sembra non comprenderla affatto. Il mondo moderno, quando loda i suoi piccoli Cesari, parla di essere forti e coraggiosi: ma non sembra vedere l’eterno paradosso implicito nella congiunzione di queste idee. Il forte non può essere coraggioso. Solo il debole può essere coraggioso; ma, ancora, solo i coraggiosi, nella pratica, ci danno la ragionevole certezza che, in un’epoca di dubbio, saranno forti. Il solo modo in cui un gigante potrebbe tenersi veramente in allenamento contro l’inevitabile Jack sarebbe di lottare di continuo contro giganti dieci volte più grandi di lui. Ovvero, cessando di essere un gigante e diventando un Jack. Così, quella simpatia che va ai piccoli e agli sconfitti in quanto tali, spesso rimproverata a noi liberali e nazionalisti, non è affatto un inutile sentimentalismo, come immaginano il signor Wells e i suoi amici. È la prima legge del coraggio pratico. Trovarsi nel campo più debole significa trovarsi alla scuola più forte. Né io posso immaginare nulla che possa fare maggior bene all’umanità dell’avvento di una razza di superuomini, così che l’umanità possa combatterli come altrettanti draghi. Se il Superuomo è migliore di noi, naturalmente noi non avremo bisogno di combatterlo; ma, in quel caso, perché non chiamarlo Santo? Ma se è soltanto più forte (fisicamente, mentalmente o moralmente più forte, non mi importa un fico secco), allora dovrà fare i conti con noi almeno in proporzione a tutta la forza che possediamo. Se siamo più deboli di lui, questo non è un motivo perché siamo più deboli di noi stessi. Se non siamo abbastanza alti da toccare le ginocchia del gigante, questo non è un motivo perché dobbiamo diventare più piccoli cadendo sulle nostre. Ma proprio questo, in fondo, è il significato della moderna adorazione dell’eroe e celebrazione dell’Uomo Forte, del Cesare, del Superuomo. L’idea che egli sia qualcosa di superiore all’uomo e che noi dobbiamo essere qualcosa di inferiore.
Senza dubbio, c’è un’adorazione dell’eroe più antica e migliore di questa. Ma l’antico eroe era un essere che, come Achille, era più umano dell’umanità stessa. Il Superuomo di Nietzsche è freddo e senza amici. Achille è così scioccamente affezionato al suo amico, che stermina interi eserciti nel tormento del suo lutto. Il malinconico Cesare del signor Shaw dice, nel suo desolato orgoglio: «Colui che non ha mai sperato, non può disperare». L’antico Dio‑Uomo risponde dalla sua atroce collina: «Ci fu mai dolore pari al mio dolore?». Un grand’uomo non è un uomo così forte, che sente meno degli altri uomini; è un uomo così forte, che sente di più. E quando Nietzsche dichiara: «Io vi do un nuovo comandamento, “siate duri”», in realtà dichiara: « Io vi do no nuovo comandamento, “siate morti”». La sensibilità è la definizione della vita.
Ricorro ancora, per un’ultima parola, a Jack l’Ammazzagiganti. Ho trattato questo argomento del signor Wells in relazione ai giganti, non perché la questione abbia un particolare spicco nella sua mente; so che il Superuomo non campeggia così massiccio nel suo cosmo come in quello del signor Bernard Shaw. L’ho trattato per il motivo opposto; perché questa eresia dell’immorale adorazione verso l’eroe, credo, ha fatto meno presa su di lui, e ancora è possibile impedirle di pervertire uno dei migliori pensatori di oggigiorno. Nella sua Nuova Utopia, il signor Wells fa più di un’ammirata allusione al signor W.E. Henley6. Quell’uomo intelligente e infelice visse nell’ammirazione di una violenza imprecisata, sempre tornando a rudi antichi racconti e rudi antiche ballate, a letterature forti e primitive, per trovarvi la lode della forza e la giustificazione della tirannia. Ma non riuscì a trovarla. Perché non c’è. La letteratura primitiva è espressa nella fiaba di Jack l’Ammazzagiganti. L’antica e forte letteratura è tutta in lode dei deboli. I rudi, antichi racconti sono teneri verso le minoranze come qualunque moderno politico idealista. Le rudi, antiche ballate mostrano una sollecitudine sentimentale verso i poveracci degna dell’Aborigines Protection Society. Quando gli uomini erano rozzi e coriacei, quando vivevano tra colpi duri e dure leggi, quando sapevano che cosa fosse veramente la lotta, avevano solo due tipi di canti. Il primo era una celebrazione perché il debole aveva vinto il forte, il secondo, un lamento perché il forte, per una volta, aveva vinto il debole. Poiché questa insofferenza dello status quo, questo sforzo costante di alterare l’equilibrio esistente, questa antica sfida ai potenti, costituisce l’intera natura e il segreto più intimo dell’avventura psicologica chiamata uomo. É la forza dell’uomo, sdegnare la forza. La speranza disperata non è soltanto una speranza reale, è la sola speranza reale del genere umano. Nelle più rozze ballate sugli uomini della foresta, gli uomini sono più ammirati quando sfidano, non solo il re, ma anche, ciò che è più pertinente al nostro argomento, l’eroe in persona. Nel momento in cui Robin Hood diventa una sorta di Superuomo, in quel momento, il cavalleresco cronista ce lo mostra picchiato di santa ragione dal povero calderaio che egli pensava di spingere da parte. E il cavalleresco cronista tributa a Robin Hood, mentre viene malmenato, un fiotto di ammirazione. Questa magnanimità non è un prodotto del moderno umanitarismo; non è il prodotto di alcuna inclinazione alla pace. Questa magnanimità è semplicemente una delle perdute arti della guerra. Gli ammiratori di Henley reclamano un’Inghilterra gagliarda e combattiva, e risalgono alle fiere, antiche storie dell’inglese gagliardo e combattivo. E ciò che trovano scritto ovunque in quella fiera, antica letteratura è «la politica di Majuba»7.

1) Joseph Addison (1672‑1719), letterato e uomo politico, fondò e diresse, fra il 1711 e il 1712, il celebre periodico The Spectator, poi ripreso nel 1714. (N.d.T.)
2) Dal Catone (1713) di Addison, atto I, sc. II, vv. 44‑45.
3) «Non è dato ai mortali di meritare il successo; / Ma noi faremo di più, Sempronio, l’otterremo». (N.d.T.)
4) Dopo avere pubblicato Sull’origine della specie nel 1859, Darwin non prese parte attiva nella controversia insorta. Thomas Henry Huxley lo fece, e si guadagnò il soprannome di «bulldog di Darwin».
5) George Moore (1852-1933), che aveva una cospicua reputazione come romanziere all’epoca in cui Chesterton scriveva, era stato allevato nella Chiesa cattolica, ma ne era diventato fiero antagonista.
6) Poeta e giornalista (1849‑1903). In una fase della sua opera, adottò la vena spavalda di Kipling e lodò le virtù delle avventure coloniali.
7) La montagna di Majuba, nel Natal settentrionale, dove i boeri sconfissero gli inglesi nel 1881.
 
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