Fra Noi

Letture francescane

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view post Posted on 23/3/2015, 18:55

Fra Noi

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Convento francescano di Mogliano

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Giovedì dopo le Ceneri
Una bellissima vergine aveva cinque fratelli e tutti erano molto poveri; ed essa aveva una pietra preziosa di grande valore. Di questi suoi fratelli uno era citaredo, un altro pittore, un altro cuoco, un altro speziale e un altro ruffiano. Venne dunque il primo a sua sorella e le disse: “Tu vedi che io sono povero; ti prego di darmi la tua pietra preziosa”. Ma essa rispose: “Non te la voglio dare, perché la voglio per me”. Ed egli: “Voglio comprartela”. Ed ella rispose: “Che cosa mi vuoi dare?”. Ed egli: “Ti farò un bellissimo suono con il mio strumento”. Allora ella a lui: “Che cosa farò poi, passato il suono? Di che vivrò io? Non te la darò per tal prezzo. Anzi voglio, grazie ad essa, sposarmi e vivere onestamente e onoratamente”.
Poi venne il secondo, chiedendo similmente a lei la pietra; e, negandola ella, disse di volerla comprare, offrendo come prezzo una pittura. Il terzo poi offriva come prezzo un pasticcio. Il quarto una buona spezieria. Il quinto diceva che l’avrebbe condotta per i lupanari. Nello stesso modo si comportarono tutti, prima chiedendo in dono, poi offrendo i detti prezzi, ed essa nello stesso modo rispose a tutti, e come buona e sapiente li lasciò andar via tutti e conservò per sé la pietra preziosa. Dopo ciò venne a lei un re magnifico e le chiese la pietra. Ed ella rispose: “Non ho altro che questa pietra. Che cosa me ne darai?”. Rispose il re: “Per questa pietra ti prenderò come mia sposa e ti farò grande regina e ti darò la vita eterna e abbondanza di tutti i beni che la tua anima ha desiderati”. Ed ella: “Signore, è tanta la vostra magnificanza, che non posso negarvi la pietra: volentierissimo ve la dono”. E gliela diede. Questa vergine è l’anima, la pietra che ha, è la volontà, o consenso del libero arbitrio. I cinque fratelli sono i cinque sensi del corpo: il primo, che è citaredo, è l’udito; il secondo, che è pittore, è la vista; il terzo, che è speziale, è l’odorato; il quarto, che cuoco, è il gusto; il quinto, che è ruffiano, è il tatto e poiché in esso ha più forza la sensualità, più per esso si abbassa l’anima ad opera illecita.
Come dunque sarebbe stata stoltissima quella vergine, se per qualcuno di quei prezzi tanto vili avesse dato una pietra preziosa, così senza paragone stoltissima è l’anima che si lascia condurre a qualche consenso illecito da qualche senso del corpo; ma piuttosto deve astenersi con ogni sforzo da quel piccolo diletto che potrebbe ricevere attraverso i sensi del corpo, e conservare il suo consenso, costanza e virtù con grande gratitudine al sommo Re, che l’ha fatta sua sposa e l’ha resa così grande. (fra Jacopone da Todi)

Venerdì dopo le Ceneri
Ogni anima che possiede la fede può vedere e conocere quanto sia piccola e modesta la mortificazione rispetto alla colpa umana e alla pena meritata, e a confronto del premio sperato e della gloria promessa. La nostra colpa fu ed è infinita, come infinita è la maestà di Dio offesa, per cui il castigo deve corrispondere alla colpa. Ma la maestà divina, volendo richiamare l’anima alla sua misericordia, riduce la pena infinita, dicendole: «Fa’ penitenza, così che tu possa giungere fino a me; fanne tanta quanto io, Figlio di Dio, ne feci in questo mondo per salvarti. Allora cancellerò le tue offese, perdonerò le tue colpe e ti libererò da ogni pena». Si tratta di un patto di incomparabile importanza che la bontà di Dio stringe con l’anima: «Tu non devi fare altro per me, se non quello che io ho fatto per te. Però non sei tu che soffri per la mia colpa, ma sono io che soffro per la tua: io senza speranza di ricevere da te alcun bene, tu con la speranza di avere da me un bene infinito». Se vuoi conoscere la piccola, modesta e limitata mortificazione che Dio vuole da te, o anima, ti dirò: «Tanta egli ne chiede quanta facilmente ne puoi fare. E vuole che questa tua mortificazione duri finché tu viva sulla terra, non di più. Se vivi un’ora, fa’ penitenza un’ora; se vivi di più, fanne di più, perché Dio vuole giustamente che tu ti mortifichi tanto quanto vivi, non di più». L’esempio, il modo e la forma della penitenza dell’anima sono insegnati veramente e perfettamente dalla stessa vita di Cristo, dalla sua mortificazione e dalla compagnia che egli si scelse durante tutta l’esistenza terrena. Infatti, dall’istante in cui l’anima di Cristo fu creata e infusa nel sacro corpo, in seno alla sua santissima Madre, fino all’ultimo momento in cui quell’anima uscì dal corpo per la spietata morte di croce, mai si staccò da quella compagnia: una compagnia che non gli mancò mai in questo mondo, ciò che non accadde invece agli apostoli, né ad alcuno dei suoi discepoli. Quale fu questa compagnia così fedelmente vicina a lui, così costante, così piena d’amore? Credo che si tratti appunto di quella che Dio Padre volle che il Figlio avesse nel corso di tutta la sua vita, la compagnia cioè della perfetta, perseverante e somma povertà, la compagnia del perfetto, permanente e sommo disprezzo e la compagnia del perfetto, ininterrotto, altissimo dolore. Questa fu la compagnia da cui Cristo fu sempre seguito nella sua continua penitenza; una mortificazione che durò proprio in tutta la sua vita nel mondo; per essa egli salì al cielo nella sua umanità. Sulla stessa strada l’anima può e deve camminare verso Dio e in Dio e al di fuori di essa non ce n’è un’altra. Bisogna infatti che la via percorsa dal Capo, sia percorsa anche dalle membra e che la compagnia che seguì lui, accompagni anche le sue membra (S. Angela da Foligno)

Sabato dopo le Ceneri
Vi è un tempo in cui la grazia domina l’anima e un tempo in cui l’anima domina la grazia. La grazia domina l’anima, quando l’anima è molto avida di cercare consolazioni e doni e così via. Invece l’anima domina la grazia, allorché viene in tanta libertà che non si cura di tali cose. Poiché, considerandosi fatta ad immagine di Dio, creatore di tutte le cose, non si contenta di nessuna creatura, non solo di quei doni e sentimenti, che sono creature, ma neppure degli angeli o dei santi, per trasferirsi con purezza nel Creatore stesso. E con tanta confidenza allora gioca con Dio, che quando vuole, riceve i doni offertile, e quando non vuole, li disprezza e respinge e cerca solo lui. E per questo viene a tanto amore, che poi ama dieci volte di più di prima non solo gli angeli e i santi, ma anche qualsiasi piccola creatura, e abbraccerebbe e bacerebbe con tutti i visceri tutte le creature anche insensibili, non per esse, ma per amore del Creatore, che vede in ogni creatura.
Duplice è il rinnegamento, cioè corporale e spirituale. Rinnegamento corporale è il disprezzare per Dio tutte le cose che sono del mondo, cioè tutte le cose corporali. Rinnegamento spirituale è il disprezzare tutte le cose spirituali, cioè le consolazioni proprie e il sentire, anche questo per Dio. È ciò fa l’anima quando con purezza ama Dio. Vi è infatti un tempo in cui l’anima ama Dio per se stessa, cioè per la dolcezza che ne prende, e per le consolazioni che ne riceve, e perciò lo cerca. Infatti tali consolazioni e doni sono nell’anima come un mondo spirituale, che essa molto ama. E vi è un tempo in cui l’anima ama Dio con purezza e allora si rinnega in tutte queste cose e disprezza tutto, per far con purezza e interamente la sua volontà e per amare con purezza lui per se stesso, perché è buono, anche se non riceve nessun compenso nella vita presente e nella futura (fra Jacopone da Todi).

Lunedì I settimana di Quaresima
Ero tutta protesa nella volontà di liberarmi da ogni altro pensiero, per meditare con assoluto raccoglimento la passione e la morte di Cristo. E mentre me ne stavo così, all’improvviso sentii una voce che mi disse: «Non ti ho amato per scherzo». Queste parole mi colpirono come una ferita di dolore e subito gli occhi della mia anima si aprirono e compresi com’erano vere quelle parole e vidi quanto aveva fatto il Figlio di Dio per manifestarmi il suo amore. Scorgevo tutte le prove che questo Dio-uomo sofferente aveva sostenuto in vita e in morte per quel suo indicibile e smisurato amore. E vedendo in lui tutti i segni del vero amore, comprendevo anche l’assoluta verità di quelle parole, poiché Gesù mi amò non per scherzo [inganno], ma con amore perfetto e totale. Dall’altra parte vedevo che in me c’era tutto il contrario, perché non lo amavo che per scherzo e con poca verità. E questa constatazione mi era divenuta una pena mortale, così intollerabile che mi pareva proprio di morire. Poi mi furono dette altre parole che aumentarono ancora di più il mio dolore.
Dopo quel “non ti ho amato per scherzo” che mi fece capire che l’affermazione era vera per lui, ma non per me, tanto da restare afflitta quasi da morirne, egli aggiunse: «Non ti ho servita per simulazione»; poi: «Non ti ho conosciuta standomene lontano». In quel momento — ricordo — la mia pena e il mio dolore raggiunsero il massimo e la mia anima gridò: «Maestro, quanto dici che in te non si trova è invece tutto in me, poiché io non ho saputo amarti che per scherzo e con finzione, e mai ho voluto avvicinarmi a te nella verità, per sentire un po’ dei dolori che tu hai sofferto e sopportato per me, e mai ti ho servito se non per simulazione e non veracemente». Vedevo che mi aveva amato con verità, scorgevo in lui tutti i segni e le opere dell’amore vero: come si era immolato totalmente per servirmi, come si era avvicinato a me fino a farsi uomo per portare veramente sulle sue spalle i miei dolori. E riconoscevo che in me era avvenuto tutto l’opposto, tanto che per la pena di questo, mi pareva di morire, e per un simile dolore sentivo che le costole del petto si disgiungevano e mi sembrava che il cuore stesse per spaccarsi in due. Mentre ripensavo a quelle sue parole: «Non ti ho conosciuta standomene lontano», egli disse: «Sono più intimo alla tua anima di quanto la tua anima non lo sia a se stessa». Ma ciò accresceva il mio dolore, perché, quanto più vedevo che egli era diventato intimo a me, tanto più non potevo non riconoscere che io me ne ero rimasta lontana da lui. Poi aggiunse altre espressioni che mi manifestarono il suo immenso amore. E disse: «Se ci fosse qualcuno che volesse sentirmi nella sua anima, non mi sottrarrei; e se ci fosse qualcuno che volesse vedermi, gli concederei con gioia di potermi vedere; e se ci fosse qualcuno che volesse parlare con me, con grande letizia gli parlerei». Tali parole suscitarono il desiderio di non voler sentire, né vedere, né parlare di cosa alcuna nella quale potesse esserci offesa a Dio. Ed è questo che Dio chiede in modo speciale ai suoi figli: poiché sono stati chiamati da lui ed eletti a vederlo, sentirlo e parlargli, esige che si guardino da tutte quelle cose che sono contrarie a questo. (S. Angela da Foligno)


Martedì I settimana di Quaresima
Miei figlioli, padri e fratelli, - ci disse la Beata Angela - cercate di amarvi a vicenda e di avere veramente l’amore divino, perché attraverso l’amore reciproco l’anima merita in eredità i beni celesti. Io non faccio altro testamento che quello di raccomandarvi l’amore vicendevole e vi lascio tutta la mia eredità, cioè la vita di Cristo, vale a dire la povertà, il dolore e il disprezzo».
Poi impose le mani sul capo di ciascuno, proseguendo: «Siate benedetti da Dio e da me, figlioli miei, voi e tutti gli altri che non sono presenti. Come mi è stata manifestata e indicata da Cristo questa benedizione eterna, così la concedo e la do con tutto il cuore a voi presenti e anche assenti. Cristo stesso ve la impartisce con la mano trafitta dai chiodi sulla croce. Coloro che avranno questa eredità, cioè la vita di Cristo, e saranno veri figli della preghiera, senza dubbio avranno in eredità la vita eterna.
In ciò che affermo, io non c’entro, ma è tutta opera di Dio. Infatti, piacque alla divina bontà di darmi la preoccupazione e la cura dei suoi figli e delle sue figlie che sono nel mondo [...]. Io li ho custoditi, per loro mi sono addolorata e le mie sofferenze sono state più di quante ne conoscete.
O mio Dio, ora li consegno a te, perché tu li custodisca e difenda da ogni male. Voi, figlioli miei, cercate di avere l’amore per tutti gli uomini, perché veramente la mia anima ha ricevuto più da Dio quando ho pianto e provato dolore con tutto il cuore per i peccati del prossimo, che quando ho versato lacrime per i miei. Davvero non c’è amore più grande sulla terra che provare dolore per i peccati del prossimo.
Il mondo si burla di questo, perché il fatto che uno possa addolorarsi e piangere per i peccati del prossimo come o più che per i suoi sembra essere contro natura, ma l’amore che lo fa fare non è di questo mondo.
Figlioli miei, cercate di avere questo amore e non giudicate nessuno, anche se lo vedete peccare mortalmente. Non dico che non vi deve dispiacere il peccato e che non dovete abolirlo, ma solo che non dovete emettere giudizi nei confronti di quelli che peccano, perché non conoscete i giudizi di Dio...
Sono in grado di affermare che per alcuni, che avete disprezzato e che vanno rovinando le opere buone iniziate, ho sicura speranza che Dio li ricondurrà sulla sua strada». (Il Libro, Istruzione XXXVI)

Mercoledì I settimana di Quaresima
- Le strade per le quali l’Amico cerca il suo Amato sono lunghe, pericolose, cosparse di meditazioni, sospiri e pianti, e illuminate dall’amore (Beato Raimondo Lullo, 2).
- Chiesero all’Amico dov’era il suo Amato. Rispose: Lo troverete nella dimora più nobile tra tutte le cose nobili create; lo troverete nel mio amore, nei miei desideri e nei miei pianti (RL, 24).
- Dissero all’Amico: Dove vai? Vado dal mio Amato. Da dove vieni? Vengo dal mio Amato. Quando tornerai? Starò con il mio Amato. Quando starai con il tuo Amato? Fino a quando staranno in lui i miei pensieri” (RL, 25).
- Le strade dell’amore sono lunghe e brevi perchè l’amore è limpido, puro, trasparente, vero, accorto, semplice, forte, perseverante, luminoso, traboccante di pensieri nuovi e di antichi ricordi (RL, 70)
- Dimmi, folle Amico: se il tuo Amato non t’amasse più, che cosa faresti? Rispose che amerebbe per non morire, poiché non amare è morte e l’amore è vita.
- L’Amico diceva al suo Amato: Tu sei tutto, per tutto, in tutto e con tutto. Tutto io ti voglio, perché io ti abbia e sia tutto me. Rispose l’Amato: Non puoi avermi tutto, se tu non sei mio. E l’Amico disse: Possiedimi tutto, e che io ti abbia tutto. Rispose l’Amato: E che avrà tuo figlio, tuo fratello e tuo padre? Disse l’Amico: Talmente tutto tu sei, che puoi essere tutto per chiunque si offre tutto a te (RL, 68).
- Chiesero all’Amico quali erano i frutti dell’amore. Rispose: Gioie, meditazioni, desideri, sospiri, ansie, tribolazioni, pericoli, tormenti, pene. Senza questi frutti, l’amore non si lascia toccare dai suoi servitori (RL 71)

Giovedì I settimana di Quaresima
Ecco Gesù di nuovo di fronte a Pilato. Con sfrontatezza e testardaggine oltre misura, continuano a martellarlo d’accuse. Ma Pilato, che non trova un capo d’accusa sufficiente per condannarlo a morte, cerca di rimetterlo in libertà. Dice pertanto: «Gli darò una lezione, e poi lo libererò».
O Pilato! Pilato! Tu dai una punizione al tuo Signore? Ma tu agisci da incosciente, perché non merita né morte né staffilate! Faresti meglio, come lui vorrebbe, a cambiar vita tu!
Ordina pertanto che venga flagellato. E Gesù viene spogliato, legato a una colonna e crudelmente flagellato. E’ lì piedi, nudo di fronte a tutti, giovane dal corpo armonioso e riservato, lui, il più bello degli uomini. Quella sua carne innocente, delicata, pura e bella oltre ogni dire viene segna da violenti e lancinanti colpi di frusta da parte di due sporchi delinquenti. Il fiore più bello di ogni carne e di tutta la specie umana viene coperto di lividi e di ferite. Ogni parte del suo corpo schizza tutt’intorno sangue vivo. Le frestate piovono, a ripetizione; livido si aggiunge a livido, lacerazione a lacerazione. Finché tutti quanti, boia e spettatori ormai stanchi, si dà ordine di slegarlo.
Si avvera così quanto aveva detto Isaia: «L’abbiamo visto: non aveva più alcuna bellezza e l’abbiamo preso quasi per un lebbroso che Dio aveva umiliato».
Gesù, mio Signore, chi è stato quello sfacciato temerario che ti ha spogliato? Chi sono stati quegli sfacciatissimi che ti hanno legato? E quelli più temerari ancora che ti hanno flagellato con tanta violenza? È che tu, Sole di giustizia, non li hai più illuminati con i tuoi raggi, e loro sono stati ridotti a tenebra, col potere delle tenebre. Tutti sono più potenti di te!
Il Signore, slegato dalla colonna, nudo com’è e lacerato nella carne, viene trascinato per casa a raccattare i vestiti buttati qua e là da chi lo aveva spogliato. Osservalo bene mentre sfinito trema dal freddo.
Mentre Gesù sta per rivestirsi qualcuno dei più perfidi va da Pilato a dirgli: «Eccellenza, costui s’è fatto re, e allora vestiamolo noi e incoroniamolo come un re». Prendono di fatto un mantello di seta rossa e glielo mettono addosso, e lo incoronano con un fascio di spini. Gesù si lascia vestire di porpora, porta sul capo quella corona di spini, tiene in mano la canna; e mentre quelli lo salutano come un re inginocchiandosi, non apre bocca. E’ la pazienza fatta silenzio. (Giovanni de Caulibus)

Venerdì I settimana di Quaresima
Abbiamo bisogno di te, di te solo, e di nessun altro. Tu solamente, che ci ami, puoi sentire per noi tutti che soffriamo la pietà che ciascun di noi sente per sè stesso. Tu solo puoi sentire quanto è grande, immisurabilmente grande, il bisogno che c’è di te, in questo mondo, in questa ora del mondo. Nessun altro, nessuno dei tanti che vivono, nessuno di quelli che dormono nella mota della gloria, può dare, a noi bisognosi, riversi nell’atroce penuria, nella miseria più tremenda di tutte, quella dell’anima, il bene che salva. Tutti hanno bisogno di te, anche quelli che non lo sanno, e quelli che non lo sanno assai più di quelli che sanno. L’affamato s’immagina di cercare il pane e ha fame di te; l’assetato crede di voler l’acqua e ha sete di te; il malato s’illude di agognare la salute e il suo male è l’assenza di te. Chi ricerca la bellezza nel mondo cerca, senza accorgersene, te che sei la bellezza intera e perfetta; chi persegue nei pensieri la verità, desidera, senza volere, te che sei l’unica verità degna d’esser saputa ; e chi s’affanna dietro la pace cerca te, sola pace dove possono riposare i cuori più inquieti. Essi ti chiamano senza sapere che ti chiamano e il loro grido è inesprimibilmente più doloroso del nostro. Noi non gridiamo verso di te per la vanità di poterti vedere come ti videro Galilei e Giudei, né per la gioia di guardare una volta i tuoi occhi, né per l’orgoglio matto di vincerti colla nostra supplicazione. Non chiediamo, noi, la grande discesa nella gloria dei cieli, né il fulgore della Trasfigurazione, né gli squilli degli angeli e tutta la sublime liturgia dell’ultima Venuta. C’è tanta umiltà, tu lo sai, nella nostra irrompente tracotanza! Noi vogliamo soltanto te, la tua persona, il tuo povero corpo trivellato e ferito, colla sua povera camicia d’operaio povero; vogliamo veder quegli occhi che passano la parete del petto e la carne del cuore, e guariscono quando feriscono collo sdegno, e fanno sanguinare quando guardano con tenerezza. E vogliamo udire la tua voce che sbigottisce i demoni da quanto è dolce e incanta i bambini da quanto è forte. Tu sai quanto sia grande, proprio in questo tempo, il bisogno del tuo sguardo e della tua parola. Tu lo sai bene che un tuo sguardo può stravolgere e mutare le nostre anime, che la tua voce ci può trarre dallo stabbio della nostra infinita miseria ; tu sai meglio di noi, tanto più profondamente di noi, che la tua presenza è urgente e indifferibile in questa età che non ti conosce. Sei venuto, la prima volta, per salvare ; nascesti per salvare parlasti per salvare; ti facesti crocifiggere per salvare la tua arte, la tua opera, la tua missione, la tua vita è di salvare. E noi abbiamo, oggi, in questi giorni grigi e maligni, in questi anni che sono un condensamento, un accrescimento incomportabile d’orrore e dolore, abbiamo bisogno, senza ritardi, d’esser salvati ! Se tu fossi un Dio geloso e acrimonioso, un Dio che tiene il rancore, un Dio vendicativo, un Dio solamente giusto, allora non daresti ascolto alla nostra preghiera. Perché tutto quello che gli uomini potevan farti di male, anche dopo la tua morte, e più dopo la morte che in vita, gli uomini l’hanno fatto; noi tutti, quello stesso che ti parla insieme agli altri, l’abbiamo fatto. Milioni di Giuda ti hanno baciato dopo averti venduto, e non per trenta denari soli, e neppure una volta sola; legioni di Farisei, sciami di Caifa ti hanno sentenziato malfattore, degno d’esse rinchiodato; e milioni di volte, col pensiero e la volontà ti hanno crocifisso; e migliaia di Pilati, vestiti di nero o di vermiglio, usciti appena dal bagno, profumati d’unguenti, ben pettinati e rasati, ti hanno consegnato migliaia di volte agl’ impiccatori dopo averti riconosciuto innocente. Ma tu hai perdonato tutto e sempre. (Giovanni Papini)

Sabato I settimana di Quaresima
Gesu, oggi i più degli uomini non vogliono, non sanno trovarti. Se non fai sentire la tua mano sopra il loro capo e la tua voce nei loro cuori seguiteranno a cercare solamente sé stessi, senza trovarsi, perché nessuno si possiede se non ti possiede. Noi ti preghiamo dunque, Cristo, noi, i rinnegatori, i colpevoli, i nati fuori di tempo, noi che ci rammentiamo ancora di te, e ci sforziamo di viver con te, ma sempre troppo lontani da te, noi, gli ultimi, i disperati, i reduci dai precipizi, noi ti preghiamo che tu ritorni ancora una volta fra gli uomini che ti uccisero, fra gli uomini che seguitano a ucciderti, per ridare a tutti noi, assassini nel buio, la luce della vita vera. Più d’una volta sei apparso, dopo la Resurrezione, ai viventi. A quelli che credevan d’odiarti, a quelli che ti avrebbero amato anche se tu non fossi figliolo di Dio, hai mostrato il tuo viso ed hai parlato con la tua voce. Gli asceti nascosti tra le ripe e le sabbie, i monaci nelle lunghe notti dei cenobi, i santi sulle montagne, ti videro e ti udirono e da quel giorno non chiesero che la grazia della morte per riunirsi con te. Tu eri luce e parola sulla strada di Paolo, fuoco e sangue nello speco di Francesco, amore disperato e perfetto nelle celle di Caterina e di Teresa. Se tornasti per uno perché non torni, una volta, per tutti ? Se quelli meritavano di vederti per i diritti dell’appassionata speranza, noi possiamo invocare i diritti della nostra deserta disperazione. Quell’anime ti evocarono col potere dell’ innocenza ; le nostre ti chiamano dal fondo della debolezza e dell’avvilimento. Se appagasti l’estasi dei Santi perché non dovresti accorrere al pianto dei Dannati? Non dicesti d’esser venuto per gli infermi e non per i sani, per quello che si è perduto e non per quelli che sono rimasti ? Ed ecco tu vedi che tutti gli uomini sono appestati e febbricitanti e che ognuno di noi cercando sé, s’è smarrito e ti ha perso. Mai come oggi il tuo Messaggio è stato necessario e mai come oggi fu dimenticato o spregiato. Il Regno di Satana è giunto ormai alla piena maturazione e la salvezza che tutti cercano brancolando non può esser che nel tuo Regno. La grande esperienza volge alla fine. Gli uomini, allontanandosi dall’Evangelo, hanno trovato la desolazione e la morte. Più d’una promessa e d’una minaccia s’è avverata. Ormai non abbiamo, noi disperati, che la speranza d’un tuo ritorno. Noi, gli Ultimi, ti aspettiamo, Ti aspetteremo, ogni giorno, a dispetto della nostra indegnità e d’ogni impossibile. E tutto l’amore che potremo torchiare dai nostri cuori devastati sarà per te, Crocifisso, che fosti tormentato per amor nostro e ora ci tormenti con tutta la potenza del tuo implacabile amore (Giovanni Papini)

Lunedì II settimana di Quaresima
Scriverò solo qualche parola, così come essa mi esce dal cuore. Scrivo con le mani legate, ma è meglio così che se fosse incatenata la volontà. Talvolta Dio ci mostra apertamente la sua forza, che Egli dona agli uomini che lo amano e non preferiscono la terra al cielo. Né il carcere, né le catene e neppure la morte possono separare un uomo dall’amore di Dio e rubargli la sua libera volontà. La potenza di Dio è invincibile.
«Siate ubbidienti e sottomettetevi alle autorità»: queste parole vi arrivano oggi da ogni parte, anche da persone che non credono quasi per nulla in Dio e alle Sacre scritture. Se ci si dedicasse con la stessa assiduità con cui si è tentato di salvarmi dalla morte terrena a mettere in guardia ciascun uomo contro il peccato mortale, e perciò contro la morte eterna, ci sarebbe davvero già il paradiso in terra. C’è sempre chi tenta di opprimerti la coscienza ricordandoti la sposa e i figli. Forse le azioni che si compiono diventano giuste solo perché si è sposati e si hanno figli? O forse l’azione è migliore o peggiore solo perché la compiono anche altre migliaia di cattolici? Forse anche fumare è diventato una virtù perché lo fanno migliaia di cattolici? Si può allora anche mentire perché abbiamo moglie e figli e per di più giustificarsi attraverso un giuramento? Cristo stesso non ha forse detto: “Chi ama la moglie, la madre e i figli più di me non è degno di me”? Per quale motivo preghiamo Dio e i sette doni dello Spirito santo, se dobbiamo comunque prestare in ogni caso cieca obbedienza? A che pro Dio ha fornito agli uomini un intelletto e una libera volontà se non ci è neppure concesso, come alcuni dicono, di giudicare se questa guerra che la Germania sta conducendo sia giusta o ingiusta? A cosa serve allora saper distinguere tra bene e male? Io credo che si possa anche prestare cieca obbedienza, ma solo se così facendo non si danneggia nessuno. Se al giorno d’oggi gli uomini fossero un po’ più sinceri ci dovrebbe essere, credo, anche qualche cattolico che dice: “Sì, mi rendo conto che quello che stiamo compiendo non è bene, tuttavia non mi sento ancora pronto a morire”. Se Dio non mi avesse dato la grazia e la forza di morire, se necessario, per difendere la mia fede, forse farei semplicemente ciò che fa la maggior parte della gente. Dio può infatti concedere la propria grazia a ciascuno come Egli vuole. Se altri avessero ricevuto le molte grazie che ho ricevuto io, forse avrebbero fatto cose molto migliori di me.
Un santo disse: “Anche se una sola menzogna detta per adeguarsi alle circostanze permettesse di spegnere tutto il fuoco dell’inferno, non bisognerebbe dirla perché mentendo, anche per necessità, si offende Dio”. Qualcuno potrà pensare che simili considerazioni nel XX secolo possono sembrare ridicole. Sì, è vero, noi uomini siamo cambiati in molte cose, ma Dio non ha tolto uno iota dai suoi comandamenti. Perché poi si vuole sempre cercare di rimandare la morte, come se non si sapesse che prima o poi dovrà arrivare? Forse i nostri santi si sono comportati così? Non credo proprio. O forse dubitiamo della misericordia di Dio, come se potesse davvero aspettarci l’inferno dopo la nostra morte. In realtà me lo sarei meritato, con i miei numerosi e gravi peccati, ma Cristo non è venuto nel mondo per i giusti, bensì per cercare ciò che era smarrito.
Se un nostro buon amico ci proponesse un lungo viaggio di piacere, naturalmente gratis e con trattamento di prima classe, cercheremmo di rimandarlo continuamente o addirittura lo terremmo in serbo per la vecchiaia? Non credo proprio. E cos’è dunque la morte: non si tratta anche in questo caso di un lungo viaggio che dovremo fare, anche se da questo non ritorneremo? Ma può esservi un momento più gioioso di quello nel quale ci accorgeremo di essere felicemente approdati sulle rive del paradiso? Naturalmente non dobbiamo dimenticare che prima ci dovremo purificare nel purgatorio, ma esso non dura in eterno e chi in vita si è sforzato di aiutare con le proprie preghiere le povere anime dei morti ed è stato devoto alla Madre di Cristo può essere sicuro di non doverci stare a lungo. Si potrebbe quasi svenire nel pensare alle gioie eterne del cielo! Come ci rende subito felici una piccola gioia che proviamo in questo mondo! Eppure che cosa sono le brevi gioie terrene rispetto a quelle che Gesù ci ha promesso nel suo regno? Nessun occhio ha mai visto, nessun orecchio ha mai udito e nessun cuore d’uomo ha mai conosciuto ciò che Dio ha preparato per coloro che lo amano.
Se dunque le gioie del Cielo sono così grandi, non dobbiamo disprezzare tutti i piaceri di questa terra? (beato Franz Jägerstätter, terziario francescano)

Martedì II settimana di Quaresima
Tre cose nella vita sono le più alte e le più utili. La prima è se sopporti in pace, con l’aiuto di Dio, ogni guaio che ti capita. L’altra, se di ogni cosa che fai e ricevi tu senti più che altro una maggiore umiltà. L’ultima, se mantieni in cuore la fedeltà a quei beni che l’occhio umano non può vedere.
Le cose più sbeffate e trascurate dalla gente del mondo, quelle sono tenute in grande onore da Dio e dai suoi santi. Le cose che più sono amate, abbracciate, riverite dalla gente del mondo, quelle sono più odiate, trascurate, sprezzate da Dio e dai suoi santi. La gente odia tutto ciò che deve essere amato e ama tutto ciò che deve essere odiato.
Che danno può fare un breve male a chi aspetta con certezza un bene grande ed eterno? E che cosa serve un breve bene a chi si deve aspettare un grande e interminabile male?
Tutti i sapienti e i santi antichi, di questo tempo e di quello a venire, hanno parlato o parleranno di Dio. Tuttavia non hanno detto né diranno mai di lui, a paragone di ciò che è veramente, se non quanto è la punta di un ago a paragone del cielo e della terra e di tutte le creature che sono contenute in essi. Difatti tutta la sacra Scrittura parla a noi quasi con rotte voci infantili, come fa la madre col bambino, perché questi non sa intendere in altro modo le parole.
Un peccatore non deve mai disperare della misericordia di Dio, fin tanto che vive. Non si trova quasi un tronco così ruvido e nocchieruto che gli uomini non lo possano sgrossare, spianare e lavorare. Molto più non esiste nel mondo un così gran peccatore che Dio non lo possa ornare di grazia e di virtù.
Quanto più uno godrà del bene del prossimo, tanto più ne sarà a parte. Se vuoi perciò essere a parte del bene di tutti, rallegrati del bene di tutti. Questa è una via di salvezza: rallegrarsi del bene del prossimo e dolersi del suo male, pensare degli altri bene e male di sé, onorare gli altri e disprezzare se stessi.
Guarda come i buffoni e i giocolieri esaltano in modi sperticati i signori che regalano a loro qualche straccio d’abito. E che cosa non dovremmo fare noi verso il Signore Dio nostro? Dovresti essere molto fedele ad amare Colui che ti vuole liberare da ogni male e ricolmare di ogni bene.
(Beato Egidio da Assisi)








Mercoledì II settimana di Quaresima
Il leone udì una volta che i frati avevano fatto capitolo e in esso si accusavano peccatori delle colpe commesse. Dice il leone: Oh! Se i frati fanno tale capitolo davanti al superiore, questo devono fare anche tutti gli animali davanti a me. E subito fece venire tutti gli animali davanti a sé. Si sedette. Fece sedere e cominciò: Noi non dobbiamo essere peggiori dei frati; perciò voglio che ciascuno dica a me i suoi peccati. Fu detto all’asino d’andare per primo. L’asino andò davanti al leone, si inginocchiò e disse: Misericordia! Gli dice il leone: Che hai fatto di male? Dillo! Dice l’asino: Messere il mio padrone mi carica troppo ed è tirchio; perciò spesso, a sua insaputa, gli mangio il fieno, che mi fa portare. Sentenzia il leone: Male! Sei un ladro! Caricatelo di bastonate! E così fu fatto. Dietro l’asino andò la volpe. Lamenta: Io con furbizia entro nel pollaio e rubo galline. Sentenzia il leone: Oh! Quanti scrupoli che hai! E’ naturale per una volpe fare questo! Questo non è peccato! Partita costei, vi andò il lupo: Signor mio, leone, io sbrano le pecore! Gli dice il leone: E’ naturale! Non darti pena! Continua pure così! E così, partito il lupo, vi andò la pecora, col capo basso, piangendo: Beh! Beh! Dice il leone: Che hai fatto, ipocrita? Ella risponde: Messer leone, spesso passando per strada, ho brucato l’erba sui cigli dei campi altrui, soprattutto se tenera. Allora sentenzia il leone: O maledetta ladra! Sei stata capace di così grande peccato! Vai dicendo: Beh! Beh! e intanto rubi per strada! Bastonatela per bene e lasciatela tre giorni senza mangiare!
Capito la morale? Quando sarà uno cattivo lupo o una volpe a far qualcosa, si copre, si copre, affinché non si vegga, come fa la gatta. Ma se è la pecoruccia o la capra a sbagliare, cioè la vedova, o un povaretto che dica o faccia una piccola cosa, eccolo bastonato e derubato così che non gli rimane nulla. Lupo e lupo non si mangiano insieme, ma mangiano l’altrui carne. E perciò vi dico: O tu che governi, non bastonare l’asino e la pecora per una piccola cosa, e non perdonare il lupo e la volpe per il grande errore. Che devi fare? Tèmpera il liuto con discrezione, discernendo difetto da difetto. (San Bernardino da Siena)

Giovedì II settimana di Quaresima
Un santo padre, pratico delle cose del mondo, avendo osservato che in esso non si poteva vivere in nessun modo contro chi voleva detrarre, disse a un suo monachetto: “Figliuolo, vieni con me e prendi il nostro asinello”. Il piccolo monaco ubbidiente prese l’asino. Il santo padre montò su e si avviò mentre il fanciulletto lo seguiva a piedi. Passando tra la gente in una strada molto fangosa, uno dice: “Guarda quanta crudeltà! Lascia andare a piedi quel monacuccio fra tanto fango, ed egli va a cavallo!”. Udita questa parola il santo padre scende e pone il fanciullo in groppa all’asino. “Come” dice un altro “guarda che stranezza: il vecchio va a piedi e lascia andare a cavallo questo fanciulletto che non si cura nè del fango nè della fatica dell’anziano! A parte il fatto che, se volessero, potrebbero andare entrambi su quell’asino”. E allora il santo padre monta su anche lui. “Guarda quei due” osserva ancora un altro “chissà che gran bene vorranno a quell’asino! Finiranno per scorticarlo vivo”. Udito questo, il santo padre smonta, fa scendere il fanciulletto e si avviano entrambi a piedi. “Ma che pazzia è questa di costoro?” dice infine un altro “ma come, hanno un asino e se ne vanno a piedi in mezzo a tanto fango?”. A questo punto il santo padre disse: “Basta, torniamo a casa”. Una volta a casa dice al monaco: “Hai capito, figliolo, la morale di questa novella?”.
“Quale novella?” risponde il fanciullino. E il santo padre: “Non hai visto che in ogni modo noi siamo andati, se n’è detto male? Figliolo mio, impara questo: sappi che chi sta nel mondo facendo quanto bene egli può fare, e si ingegna di farne quanto a lui è possibile, non può fare a meno che non sia detto male di lui. (San Bernardino da Siena)

Venerdì II settimana di Quaresima
I filosofi sbarbatelli dei nostri tempi raccontano, scrivono e stampano moltissime «novità»; anzi, si autodefinisce addirittura «progressista» colui che pronuncia affermazioni tanto «sagge» come: «Dio non esiste», «l’intelligenza dell’uomo è al di sopra di tutto» e via dicendo.
Questo potrebbe sembrare realmente una novità. Invece non lo è affatto. È vecchio quanto il mondo, anzi più vecchio ancora. Ancora non esisteva l’uomo sulla terra e già il ribelle Lucifero affermava: «Salirò in cielo... sarò simile all’Altissimo» (Is 14, 13-14). «Io, dunque, io stesso salirò fino al cielo e sarò... Dio».
La stessa cosa accadde ai nostri progenitori nel paradiso terrestre. Avendo ascoltato dal tentatore la promessa: «Sarete come dei» (Gen 3, 5), si lasciarono sedurre, commisero un peccato di disobbedienza e introdussero l’infelicità nel mondo.
Anche i nostri sapientoni sono convinti, o piuttosto vorrebbero convincersi, di avere, proprio loro, l’aureola della sapienza, perciò sono già dei semidei, se non addirittura dei per intero. L’intelligenza divinizzata, questa nostra intelligenza limitata, si è ritrovata, infatti, perfino su un altare durante la rivoluzione francese, personificata in una donnaccia spudorata. Ma a Dio preferirebbero non pensare, non parlare di Lui; meglio ripetere come degli automi: «Dio non esiste», poiché... se esistesse, beh, allora... bisognerebbe vivere in modo tutto diverso. Dove sta la causa di questa decadenza?
E’ forse immorale e irragionevole lo stesso desiderio di grandezza e l’aspirazione verso di essa? No, poiché ognuno di noi sente in se stesso questo desiderio e tende ad esso in ogni azione che compie. Si tratta, quindi, di un desiderio innato, naturale. La nostra natura è tutta protesa verso un perfezionamento sempre maggiore, verso la grandezza... e addirittura, in un certo senso di questo termine, alla divinizzazione.
Anche i libri sacri esortano espressamente a imitare Dio, a rendersi simili a Dio. In che cosa consiste, dunque, la colpa?
Dio è verità infinita; di conseguenza, non può soffrire la menzogna, la falsità. D’altra parte, però, l’uomo, questa creatura chiamata dal nulla all’esistenza, è di per se stesso un nulla, un nulla assoluto. Perciò, tutto quello che ha e che può lo ha ricevuto da Dio, o piuttosto lo riceve in ogni istante della vita, poiché perdurare nell’essere vuol dire ricevere l’esistenza in ogni istante, a meno che uno non l’abbia da se stesso, come Dio. E tutta la possibilità di progresso e le perfezioni acquisite, tutto questo, tutto senza la minima eccezione, proviene da questa Fonte di esistenza. Ammesso ciò, che figura fa, dunque, quel pazzo che ardisce affermare che continuerà a perfezionarsi da solo, senza l’aiuto di Dio, anzi che raggiungerà il massimo grado di perfezione?!. E quale intelligenza, accorgendosi di essere da se stessa un nulla, di ricevere ogni cosa dal di fuori, può pronunciare la frase: «Dio non esiste»???!!! (San Massimiliano Maria Kolbe)

Sabato II settimana di Quaresima
Una saggia e buona matrona di Roma, la quale essendo rimasta vedova, giovana e ricca, avendo fermo il pensiero di non voler condurre vita disonesta, poiché era giovana e bella, temeva, dicendo in cuor suo: “Io non so se io potrò restare vedova.” E si diceva tra sé: «Se io piglio marito, che si dirà di me? Si dirà che io non sia potuta stare senza.” E pure desiderando nel suo animo di prender marito, volle prima provare la fantasia del popolo, e fece in questo modo. Fece scorticare un cavallo, e disse a uno suo familiare: “Monta su questo cavallo, e va’ per tutta Roma, e poni mente a quello che si fa o si dice di questo cavallo.” Il parente, subito montato a cavallo, va per Roma. Beato colui che poteva correre a vedere questo cavallo scorticato! E così la sera egli tornò a casa. La donna domandò: “Che s’è detto di questo cavallo per Roma?” Egli rispose: “Oh!! tutta Roma correva per vederlo, e ognuno diceva: Che meraviglia è questa? Pareva che fosse beato colui che lo poteva vedere, tanta era la gente!” Costei il giorno dopo ne fece scorticare un altro, e lo diede di nuovo a costui, dicendogli che facesse quello che aveva fatto il giorno prima. Costui andò di nuovo per Roma cavalcando questo cavallo, e non tanta gente corse a vederlo, come aveva fatto con l’altro cavallo. E ritornato la sera, la donna gli domandò come era andata. Egli rispose: “Poca gente è corsa a vederlo rispetto a ieri.”
Di nuovo il dì seguente ne fece scorticare un altro, e similmente mandò questo parente per Roma e quasi nessuno andava a vedere questo cavallo. Tornato la sera a casa, ella domandò: “Che s’è detto per Roma di questo cavallo?” Egli rispose: “Quasi nessuno è venuto a vederlo, e poco si parla di ciò.” Allora la donna disse: “O, io posso pigliar marito; che se pure la gente vorrà parlare di me, parleranno poco tempo, perché alla fine si stancaranno: dopo pochi giorni non vi sarà più nessuno che parli dei fatti miei. E come pensava così fece: prese marito. E come l’ebbe preso, la gente cominciò a dire: “Oh! la tal giovana ha preso marito; ella forse non poteva stare in tal modo”. E questo durò due o tre giorni, e poi non si parlava di lei quasi più. E dico che costei fece molto bene a far questo. (San Bernardino da Siena)










Lunedì III settimana di Quaresima
C’era un frate del nostro ordine, il quale fu valentissimo predicatore, e diceva cose tanto sottili, tanto sottili che era una meraviglia; più sottile che il filato delle vostre figliuole. E questo frate aveva un fratello opposto a lui: tanto grossolano, che era una confusione.
Egli andava a udire le prediche di questo suo fratello, e avvenne che, una volta, avendo udita la predica di questo suo fratello intelligente, egli si mise in cerchio con altri frati, e disse: “Oh, se foste venuti stamattina alla predica di mio fratello!” Costoro risposero: “E che disse?” “Oh! egli disse le più nobili cose che voi avete mai udito.” “Ma dicci quello che disse!” Ed egli: “Disse le più nobili cose del cielo. Perché non siete venuti anche voi?” “Dicci quello che disse!” E costui ancora: “Oh, voi avete perduto la più bella predica che avreste mai potuto udire!” Infine, avendo costui ripetuto questo molte volte, esclamò: “Egli parlò tanto alto che io non ho capito nulla.” Ora dico a voi: bisogna dire e predicare la dottrina di Cristo in modo che ognuno la intenda; bisogna che il nostro dire sia inteso. Sai come? Parlare chiarozzo chiarozzo, affinché chi ascolta se ne vada contento e illuminato, e non imbarbagliato.
C’era poi un santo padre che abitando in una povera celletta in una selva, aveva con sé un giovane frate, il quale non teneva a mente nulla che egli udisse a suo ammaestramento; e per questo non andava a sentire nessuna predica o conferenza. E chiedendogli il motivo per cui non andava alle prediche, egli disse: - Io non tengo a memoria nulla! - . Allora questo santo padre gli disse: - Piglia questa padella - . Aveva lì una padelletta per cuocere il pesce, e gli disse: - Fa bollire quest’acqua e quando l’acqua bolle, mettine un bicchiere in questa padelletta che è tutta unta - . Così fece. – Và, versala fuori, senza strofinarla - . E così fece, e gli disse: - Ora guarda, è così unta com’era prima? - . Disse che era meno unta. Gli disse: - Metti ancora altra acqua e poi versala fuori -. E così fece. Era ancora più pulita. E così fece fare parecchie volte: ogni volta era più netta. E poi gli disse: - Tu dici che non tieni a mente nulla! Sai perché? Perché tu hai la tua mente unta come quella padella - . Và, e mettivi dell’acqua, e subito vedrai se la mente si purificherà. Mettivene ancora di più, e sarà più netta; e quante più volte udirai la parola di Dio, più si purificherà la mente tua, e più potrai udire la parola di Dio, più la tua mente sarà tutta netta e purificata, senza alcuna bruttura.
(San Bernardino da Siena)



Martedì III settimana di Quaresima
La settima arma con la quale possiamo vincere i nostri nemici è la memoria della santa Scrittura, che dobbiamo portare nel nostro cuore e da essa, come da fedelissima madre, trarre consiglio in tutte le cose che dobbiamo fare, così come si legge della prudentissima e sacra vergine santa Cecilia, della quale si dice: «Portava sempre nascosto nel suo seno il Vangelo di Cristo». E con questa arma il nostro salvatore Cristo Gesù vinse e confuse il diavolo nel deserto, dicendo: «Sta scritto». Pertanto, dilettissime sorelle, non lasciate cadere a vuoto le quotidiane lezioni che si leggono in coro e alla mensa; e anche pensate che i Vangeli e le Epistole, che ogni giorno udite nella messa, siano sempre nuove lettere inviate a voi dal vostro celeste Sposo, e con grande e fervente amore riponetele nel vostro petto e, quanto più spesso potete, pensate ad esse, soprattutto quando siete in cella, affinchè meglio e più sicuramente possiate dolcemente e castissimamente abbracciare colui che ve le manda. E così facendo, sarete continuamente consolate, vedendo che così di frequente ricevete notizie da colui che sommamente amate. O quanto è dolce e soave il divino parlare di Cristo Gesù nell’anima di colei che in verità di lui è infiammata! La dottrina evangelica non è la parola che esce proprio dalla bocca di Cristo, dolce come il miele? Certamente sì; dunque, quanto attentamente dovete intenderla e gustarla!
Pongo qui fine alle predette armi; ma di questo vi prego, carissime sorelle, che prudentemente le sappiate usare e mai ve ne troviate prive, affinchè meglio possiate ottenere il trionfo della vittoria contro i vostri avversari. E guardatevi bene che non siate ingannate sotto specie di bene, poiché il diavolo talora appare in sembianza di Cristo o della Vergine Maria o in figura di angelo o di santo. Perciò, in ogni apparizione che accadesse, prendete l’arma della Scrittura, la quale manifesta l’atteggiamento che la madre di Cristo tenne, quando le apparve l’angelo Gabriele, rivolgendosi a lui così: «Che vuol dire il tuo saluto?». E questo tenete anche voi in ogni apparizione e suggestione che capiti, così da voler verificare molto bene se quello è uno spirito buono o cattivo, prima che ad esso si dia ascolto. (Santa Caterina Vigri da Bologna)


Mercoledì III settimana di Quaresima
Il mio gran libro, da cui qui innanzi dovrò attingere con maggior cura ed affetto le divine lezioni di alta sapienza, è il Crocifisso. Mi devo fare un abito di giudicare dei fatti e di tutta la scienza umana alla stregua dei principi di questo gran libro. È troppo facile lasciarmi ingannare dalle vane apparenze e dimenticarmi della vera fonte della verità. Guardando al Crocefisso sentirò sciogliermi tutte le difficoltà, le questioni moderne, teoriche e pratiche, nel campo degli studi. «Cristo è la soluzione di ogni difficoltà».
Se dovessi ricordare tutti i buoni pensieri e sentimenti che il Signore si è compiaciuto farmi concepire e sentire in questi giorni, considerando la passione di Gesù, non mi basterebbe una settimana. Quando il mio amor proprio, approfittandosi di qualche momento di disattenzione, costruirà i suoi castelli in aria, mi vorrà far volare, volare, io mi faccio una legge di pensare sempre a questi tre luoghi: il Getsemani, la casa di Caifas, il Calvario. Il Crocifisso mi deve essere sempre argomento di grande conforto e sollievo nelle mie miserie. Gesù estende le sue braccia sulla croce per abbracciare i peccatori. Quando avrò commesso qualche mancanza o mi sentirò turbato, mi immaginerò di prostrarmi ai piedi della croce, come la Maddalena, e di ricevere sul mio capo quella pioggia di sangue e di acqua che uscì dal cuore ferito del Salvatore. Il Calvario, afferma san Francesco di Sales, è il monte degli amanti, l’accademia della dilezione. Per questo io devo rendermelo familiare assai, anche perché là fu fatta la prima e più solenne apparizione del Sacro Cuore. Oh dolcezza ineffabile! Il mio buon Gesù, morendo, ha chinato il suo capo per baciare i suoi diletti. E noi tante volte diamo baci a Gesù quanti sono i nostri atti di amore. Sant’Agostino, scrive che Longino « Con la lancia, mi aprì il costato di Cristo; vi entrai e là me ne sto al sicuro. Tra le braccia del mio Salvatore desidero vivere e morire; là
canterò le lodi divine» (Sal 30,2). (San Giovanni XXIII)

Giovedì III settimana di Quaresima
La quarta arma è la memoria della gloriosissima peregrinazione di quell’immacolato agnello Cristo Gesù e soprattutto della sua sacratissima morte e passione, portando sempre la presenza della sua castissima e verginale umanità davanti agli occhi dell’intelletto. Questo è ottimo rimedio per vincere ogni battaglia e senza di essa non riporteremo vittoria sui nostri nemici e ogni altra arma poco gioverebbe senza questa che supera tutte le altre.
O passione gloriosissima e rimedio di ogni nostra ferita.
O madre fedelissima, che conduci i tuoi figli al Padre celeste.
O vero e soave rifugio in tutte le avversità.
O nutrice che sostieni e guidi le piccole menti alla somma perfezione.
O specchio rilucente, che illumini chi ti guarda e ricomponi le sue deformità.
O scudo impenetrabile che elegantissimamente difendi chi dietro te si nasconde.
O manna saporita ricolma d’ogni dolcezza, tu sei colei che proteggi i tuoi amanti da ogni mortale veleno.
O scala altissima che innalzi agli infiniti beni chi sopra di te stende il suo volo.
O vero e ristoratore ospizio alle anime pellegrine.
O fonte inesauribile che rinfreschi gli assetati infiammati di te.
O mare abbondantissimo a chi remeggia in te con la barca diritta.
O soavissimo olivo che spandi i tuoi rami per tutto l’universo.
O sposa delicata dell’anima che di te sempre è innamorata e ad altri non guarda.
Perciò in questa, carissime ed amatissime sorelle, esercitatevi infaticabilmente, specchiandovi nel suo radiante splendore, affinchè possiate, per suo tramite, conservare la bellezza delle anime vostre. E veramente la passione è quella sapientissima maestra che condurrà voi, dilettissime novizie, alla bellezza di tutte le virtù e attraverso lei raggiungerete la palma della vittoria. A lode di Cristo. Amen. (Santa Caterina Vigri da Bologna)









Venerdì III settimana di Quaresima
Nessuno può arrivare a conoscere Dio, se non per la strada dell’umiltà. La strada di andare in su è andare in giù. Tutti i pericoli e le grandi cadute che avvennero in questo mondo non avvennero che per orgogliosa alzata di testa. Come appare in quello che fu creato nel cielo, e in Adamo e nel fariseo del Vangelo e in tanti altri. E tutti i grandi e felici avvenimenti che accaddero si compirono per un piegare della testa. Come si dimostra nella beata Vergine, nel pubblicano, nel buon ladrone e altri ancora.
Potessimo portare addosso una macina pesante, che tenesse sempre piegata la nostra testa. Se considerassimo i doni e le grazie di Dio, dovremmo inchinare la testa, e se riguardassimo le nostre colpe, egualmente dovremmo inchinarla. Male è invece gloriarsi della propria cattiveria.
Altro frutto dell’umiltà è restituire le cose degli altri e non farle proprie, e perciò riconoscere che vengono da Dio tutte le cose buone, e da se stessi le cattive.
Beato chi non vuole nelle parole e nel comportamento comparire diverso da quello che la grazia di Dio l’ha fatto. Beato chi sa custodire e nascondere le cose che Dio gli ha rivelato. Beato chi si umilia davanti agli uomini come si è trovato dappoco davanti a Dio. Beato chi da se stesso si giudica in questo mondo, perché non dovrà comparire a quell’altro giudizio. Beato chi va avanti con fedeltà col lume e sotto l’obbedienza di un altro. Ciò fecero anche gli apostoli, dopo che furono ripieni di Spirito Santo. Chi vuole avere pace e serenità faccia conto che ognuno sia migliore di lui.
Rassomiglierei l’umiltà alla folgore. La folgore urta e percuote terribilmente e poi niente se ne trova. Così l’umiltà dissipa ogni male, è nemica di ogni colpa, fa che l’uomo stimi se stesso un niente.
Per la strada dell’umiltà l’uomo ritrova grazia agli occhi di Dio e pace con gli altri uomini. Un gran re che avesse da mandare una figliuola in un certo paese, non la metterebbe sul dorso di un cavallo selvatico, fiero e bizzarro, ma sopra una cavalcatura mansueta e dal passo quieto. Allo stesso modo il Signore non colloca la sua grazia nei superbi, ma negli umili. La mente trova riposo nell’umiltà, e raccoglie il frutto nella pazienza. (Beato Egidio di Assisi)

Sabato III settimana di Quaresima
La memoria, perché si abitui ad occuparsi continuamente di Dio e aderisca a Lui, deve imparare a frequentare e percorrere cinque vie che sono: lectio (lettura), collatio (confronto), medidatio de Deo (meditazione), oratio (orazione, preghiera) e contemplatio (contemplazione).
La lettura e il confronto sono come i semi e la materia di una buona meditazione. Per cui quando preghi e quando mediti avrai davanti le cose su cui la memoria si è fermata nel colloquio o nella lettura e nelle occupazioni, poiché il vaso profuma del liquido che gli hai versato dentro, e nell’orto del tuo cuore cresceranno le erbe a seconda dei semi che vi hai piantato.
La collatio spirituale illumina l’intelletto, infiamma l’affetto, feconda la memoria con la parole dei buoni pensieri; così al contrario la conversazione oziosa fa perdere infruttuosamente tempo, raffredda l’affetto, mette nel cuore pensieri inutili; rode la coscienza, impedisce il progresso spirituale, procura la pena.
Si pratichi una lettura che durante la preghiera aiuti a riflettere, illumini per la conoscenza di Dio, infiammi dell’amore suo, insegni le abitudini buone, aiuti a superare le avversità, inculchi il disprezzo del mondo e il desiderio della patria celeste, insegni a distinguere i vizi e le virtù e a vincere le tentazioni, e tutto ciò che è utile alla salvezza.
L’orazione interrompa spesso la lettura e le altre occupazioni, perché la mente possa elevarsi a Dio, da cui ci viene ogni bene.
La nostra volontà qualche volta si muove per Dio, qualche volta verso Dio, qualche volta in Dio.
Per Dio si muove nell’azione, che eseguiamo principalmente per lui, anche se durante l’azione non pensiamo a Lui direttamente. Verso Dio si muove durante la lettura, il confronto e la meditazione, quando la nostra mente si occupa del Signore e in qualche modo lo cerca, ma non ci rivolgiamo a Lui come a un tu.
In Dio si muove durante l’orazione, quando la mente lo pensa e gli parla, lo abbraccia e aderisce a Lui con l’affetto della devozione. Di queste cose la più utile è semplicemente quella che più unisce l’uomo con Dio, poiché tutta la beatitudine dell’uomo consiste nell’essere trasformato in Dio. (Davide d’Augusta)




Lunedì IV settimana di Quaresima
Immaginiamo che una donna molto timida e semplice abbia un figlio unico teneramente amato, che per un delitto sia stato preso dal re e venga condotto alla forca. Forse che essa, la timida e la semplice, non urlerà a gran voce e non correrà, con i capelli sciolti al cospetto del re, a supplicare per la liberazione del figlio? Come questa semplice ha imparato parole e gesti per domandare la grazia? Non sono stati l’amore del figlio e la necessità estrema a fare di essa, prima timida e a mala pena solita a mettersi sull’uscio di casa, una donna ardita, quasi senza ritegno, che corre per le piazze in mezzo alla gente, urlando, da semplice diventata sfacciata? Così saprebbe bene e vorrebbe fare orazione chi venisse veramente a conoscere i suoi mali, e i pericoli e i danni che gli stanno sopra
Gli diceva una volta un tale: «So di molti che, appena entrano in orazione, pare abbiano subito la grazia della devozione e del pianto. Ma io a fatica riesco a provare qualcosa». Frate Egidio rispose: «Dura nell’orazione con fedeltà e pietà, perché la grazia che Dio non da una volta, potrà darla un’altra. E quanto non ti dona in un giorno, in una settimana, in un mese, in un anno, potrà donartelo in un altro giorno, in un’altra settimana, in un altro mese, in un altro anno. Tu affida nelle mani di Dio la tua fatica spirituale, e Dio ti riempirà della sua grazia, secondo la misura della sua benigna volontà. Il fabbro, che ha da foggiare un coltello, da molte battiture sopra il ferro dal quale lo tira fuori, prima che gli riesca finito. Ma poi, con un colpo, ecco il coltello perfetto».
Molte opere di misericordia sono raccomandate dalla sacra Scrittura, come rivestire gli ignudi, dare da mangiare agli affamati, e tante altre. Tuttavia è dell’orazione che parla il Signore, dove dice: “Tali adoratori il Padre domanda” (Gv 4,23). Le opere ornano l’anima, ma l’orazione è qualcosa di più grande».
(Beato Egidio di Assisi)

Martedì IV settimana di Quaresima
La contemplazione ha sette gradi: fuoco, unzione, estasi, contemplazione, gusto, quiete, gloria.
Per fuoco intendo una sorta di luce, la quale appare prima a rischiarare l’anima. Subentra poi l’unzione del profumo spirituale, da cui viene una specie di meraviglioso odore, ricordato nel Cantico: “Dietro il profumo dei tuoi unguenti”, con quel che segue (Ct 1,3). Poi l’estasi: l’anima, goduto il profumo, è rapita e tratta fuori dalla carne. Segue la contemplazione, poiché l’anima, a quel modo quasi disincarnata, contempla con mirabile chiarezza Dio. Viene quindi il gusto, che è quella meravigliosa dolcezza provata dall’anima nella contemplazione. Di essa canta il salmo: “Gustate e vedete”, con ciò che segue (Sal 33,9). Sussegue la quiete, quando l’anima, gustata quella dolcezza spirituale, in essa si distende. E alla fine appare nell’anima la gloria, poiché in tanta pace essa si riveste di grandezza e si colma di immensa allegrezza. Il salmo appunto canta: “Sarò sazio quando si scoprirà la tua gloria” (Sal 16,15)».
Diceva anche: «A contemplare la gloria della maestà divina nessuno può salire se non nell’ardore dello spirito e con l’orazione incessante. L’uomo è veramente acceso di questo ardore spirituale e disposto a salire alla contemplazione, quando il cuore con le altre membra è così pienamente disposto a essa che non vuole e non può pensare niente altro all’infuori di ciò che ha e sente.
La vita contemplativa sta nella rinuncia a ogni cosa creata per amore di Dio, nella ricerca delle sole cose dell’alto, nella fedeltà all’orazione, nella frequente lettura spirituale, nella lode incessante rivolta a Dio con inni e cantici.
Buon contemplativo è chi, coi piedi e le mani tagliate, cavati gli occhi, troncati naso, orecchie e lingua, per la grandezza del dolcissimo, inestimabile odore, gaudio, sapore, non si curasse delle sue membra, né di altra cosa immaginabile di questo mondo. E non desiderasse altro all’infuori di ciò che ha e sente. Così Maria sorella di Marta “sedeva ai piedi del Signore” e provava tanta dolcezza della parola di Dio da non avere membro che sapesse o volesse fare altra cosa di quella che faceva in quel momento. Lo mostra il fatto che alla sorella, la quale si doleva di non avere aiuto da lei, non diede risposta con alcuna parola o cenno. E allora Cristo prese le sue difese, rispondendo in luogo di Maria, che non poteva rispondere» (cf. Lc 10,38-42).
(Beato Egidio di Assisi)






Mercoledì IV settimana di Quaresima
L’anima è rinvigorita e fortificata dall’esempio di Cristo che abita in lei, e che per lei sostenne tali e tante prove; per la qual cosa più fortemente ella si infiamma ad imitarlo nelle tribolazioni e gode in esse e non ne è quasi per nulla turbata. Perciò l’anima consegue anche la stabilità dei sensi corporali, poiché, da quando per amore del Creatore ha lasciato tutte le realtà create, non vaga più dietro ad esse in maniera illecita per mezzo dei sensi, ma li regola e li rende stabili, raccomandandoli con fiducia a Dio, e dicendo così quando si distacca dall’orazione: «Signore, custodisci tu e regola i miei sensi e non permettere che mi allontani da te».
E di solito da questa nudità l’anima consegue il dominio del proprio corpo, e c’è tanta pace e accordo tra anima e corpo, che non discordano in nulla; e volentieri il corpo si sottomette all’anima e la segue in tutto quello che ella vuol fare: così nel disprezzo, nel rigore, nell’astinenza e nelle veglie, come pure in tutte le fatiche e i fastidi. Infatti, quando il corpo ricorda le angustie e le gravi fatiche che egli era solito tollerare per l’impazienza, l’ira, l’invidia, le ambizioni e gli intrighi delle cose temporali, e vede che ora invece si trova in tanta pace, volentieri allora soffre tutte queste fatiche, pur di evitare quelle altre, infruttuose, dannose e più affliggenti. Come se qualcuno, che fosse certo che per ogni cento denari gliene sarebbero dati mille, non troverebbe pesante dare i suoi cento, anzi più volentieri ancora ne darebbe duecento: così il corpo, ricavandone un gran guadagno, sopporta lietamente tutte queste fatiche e volentieri segue l’anima, anzi cerca perfino di correrle innanzi e di prevenirla. Dunque è davvero utilissimo e di grande aiuto che gettiamo via tutti i «mezzi», espropriamo noi stessi e muoriamo a tutte le cose create, disperiamo totalmente di noi stessi e di ogni creatura e ci gettiamo con fiducia in Dio, che ci accoglierà benevolmente, ci governerà con amore e ci condurrà alla beate fine. Se infatti vediamo che i mercanti si affaticano e disperano per i guadagni temporali, affrontando i pericoli della strada e del mare, e che i cavalieri, per l’onore del mondo, fanno lo stesso, affrontando la spada e la guerra e la morte; e spesso tuttavia gli uni non realizzano il guadagno voluto e gli altri non raggiungono l’onore desiderato, e anche quando li ottengono sono certi che dovranno perderli: quanto più noi, che oltrettutto non ci esponiamo neppure a pericoli, dovremo darci da fare per un guadagno ed onore spirituale, che sono veri e certi e destinati a durare per sempre? Ancor più, e di certo, se qualcuno realizzasse bene, con fedeltà e purezza, una tale espropriazione, in poco tempo e nello spazio di pochi giorni comincerebbe a sentire qualcosa di quel che s’è detto e a gustare la dolcezza di Dio. E perseverando in quella stessa espropriazione, proverebbe con certissima esperienza che tutto quanto abbiamo detto è vero; tanto che uscendo dall’orazione abbraccerebbe con vivacità e amorevolezza solo le realtà divine, guardandosi intorno con una certa inquietudine e stupore, come uno attonito, diventato diverso e trasformato, quasi appena giunto da un altro mondo, e stimerebbe invece ben poca cosa tutto questo mondo; e a stento e con noia ne sopporterebbe la vista, perché l’animo già se n’è allontanato e s’è compiuta una giocondissima trasformazione in Dio. (Beato Rizzerio di Muccia)

Giovedì IV settimana di Quaresima
Se vuoi vedere bene, cavati gli occhi e sii cieco. E se vuoi udire bene, diventa sordo. Se vuoi camminare bene, troncati i piedi. E se vuoi operare bene, mozzati le mani. Se vuoi vivere bene, mortifica te stesso. E se vuoi guadagnare bene, sappi perdere. Se vuoi essere ricco, diventa povero. E se vuoi stare tra i godimenti, affliggiti. Se vuoi stare sicuro, sta sempre con timore. E se vuoi essere esaltato, umiliati. Se vuoi essere onorato, disprezzati e onora chi ti disprezza. E se vuoi avere il bene, sopporta il male. Se vuoi stare in quiete, fatica. E se vuoi essere benedetto, desidera di essere maledetto. Quanto grande sapienza è sapere operare queste cose! Ma appunto perché sono grandi, a pochi sono date.
Se l’uomo vivesse mille anni e non avesse altro da fare all’esterno, abbastanza avrebbe da fare dentro di sé. E non potrebbe venire a capo dell’opera, tanto avrebbe da fare unicamente all’interno del proprio cuore.
L’uomo si fa di Dio un’immagine come gli pare. Ma Dio è sempre tale e quale.
La parola di Dio non è di chi l’ascolta o la predica, ma di chi la pratica.
Molti non esperti del nuoto si buttarono in acqua per aiutare quelli che affogavano, ma si persero con quelli che si perdevano. Prima il danno era uno solo, poi raddoppiò. Se lavori fruttuosamente alla salvezza della tua anima, lavorerai fruttuosamente alla salvezza di tutti i tuoi amici. Se fai bene il fatto tuo, fai bene anche quello dei tuoi amici. Il predicatore della parola di Dio è posto dalla mano del Signore come una candela, uno specchio e il portabandiera del suo popolo. Beato chi guida gli altri per la via diritta, ma in maniera che non trascuri lui di percorrerla. Beato chi spinge gli altri ad avanzare con buon passo, ed egli stesso seguita a correre. Beato chi da una mano agli altri perché arricchiscano, senza per questo diventare lui povero. Il buon predicatore parla più per se stesso che per gli altri. (Beato Egidio di Assisi)
Venerdì IV settimana di Quaresima
Chiunque vuole giungere alla conoscenza della verità per via breve e diritta, e possedere la pace perfetta nell’anima, occorre che si espropri totalmente dell’amore di ogni creatura e anche dell’amore di sé stesso; affinchè totalmente si getti in Dio, senza trattenere nulla per sé, neppure il tempo, e nulla sia disposto secondo il proprio sentimento, così da essere sempre disponibile, docile e pronto al comando di Dio e alla sua chiamata.
Per chi vuoi essere unito a Dio conviene non mantenere alcun «mezzo» tra sé e Dio: ma poiché ci sono tanti «mezzi» quante sono le cose che ciascuno ama, per non impedire l’unione con Dio, andrà tolto di mezzo ogni amore. Questa, infatti, è la causa per cui molte persone, che sembrano spirituali, e che osservano alcune buone pratiche in modo davvero rigoroso, sollecito e continuo, tuttavia sono sempre tiepide e non giungono ad una condizione perfetta e stabile: proprio perché conservano ancora qualcosa di proprio, che fa da «mezzo» tra loro e Dio. E a causa di tali «mezzi» che conservano nell’anima, essi si rendono oggetti all’instabilità, poiché se pure talvolta percepiscono la dolcezza di Dio, e addirittura perseverano nelle preghiere, nelle devozioni ed in altre buone pratiche, ed hanno qualche sentimento di Dio, nondimeno poi se ne ritornano alle favole, ai pettegolezzi e ai discorsi del mondo ed alle altre esteriorità che amano, come se non avessero percepito nulla di Dio. E si comportano come le mosche, che ora si posano sul miele, ora sullo sputo e sull’immondizia.
E infatti, qual è mai il motivo per cui la passione di Cristo, pur essendo di tanta forza ed efficacia da dover spezzare anche i cuori più duri in un solo atto di meditazione, non cambia affatto molte persone che, per cinque o dieci anni o anche più, si sono esercitate in tale meditazione?
Ciò accade perché, nonostante costoro provino in tale meditazione compunzione e diletto e sentimenti intcriori, tuttavia non cambiano la propria vita; e quando se ne distaccano, ritornano alla dissoluzione, secondo il loro solito. Certamente non vi è altro motivo se non che i «mezzi» che conservano in sé stessi non permettono all’anima di accedere a Cristo, né a Cristo di giungere ad essa. E se pure talvolta scompaiono tali «mezzi», tuttavia poi se ne tornano indietro, come alla propria casa vuota. Ma da quando l’anima si espropria totalmente di ogni amore creato ed ha la vera povertà di spirito con tutto il cuore, poiché non si diletta di alcuna creatura, allora viene attirata e riempita dall’amore divino, nel quale si getta totalmente. (Beato Rizzerio di Muccia)

Sabato IV settimana di Quaresima
La bocca dalla quale escono parole buone è «quasi la bocca di Dio». Quella dalla quale escono cattive parole è simile alla bocca del diavolo.
Quando i servi di Dio si ritrovano in un luogo a parlare, dovrebbero conversare della bellezza delle virtù, per sentire gusto di esse. Perché, se delle virtù provassero piacere, si darebbero a praticarle, e praticando le virtù, crescerebbe in loro maggiormente l’amore di esse.
Quanto più un uomo è pieno di vizi, tanto più ha bisogno di sentir discorrere delle virtù. Come uno, per ascoltare spesso discorsi viziosi, cade con più grande facilità nei vizi, così, per il frequente discorrere intorno alle virtù, l’uomo si sente dolcemente condotto e disposto ad esse. Ma come parlare di queste cose? Del bene non sappiamo dire la bellezza, del male non riusciamo a mostrare la bruttezza. Del bene non arriviamo a scoprire l’eccellenza, del male non giungiamo a intendere quanto grandi colpe e castighi produce. Perché il bene e il male non possono essere compresi per intero dalla nostra mente.
Io non credo minore virtù sapere bene tacere che sapere bene parlare. E mi pare che l’uomo dovrebbe avere un collo come la gru, in modo che la parola dovesse passare per molti nodi prima di uscire dalla bocca.
Certe volte si vede in mare qualche bella e grande nave, uscita appena dal cantiere, carica di merci preziose. Ma, ecco, allo scatenare della tempesta, non sa riguadagnare il porto e va miseramente perduta. Che cosa le servì tutta la sua solidità e bellezza? Qualche altra volta esce in mare una nave sdrucita, misera, vecchia, che nessuno ammira. Ma, governata con molta abilità, riesce a scampare alla furia delle onde e a riparare faticosamente in porto. Essa sola merita lode. Accade la stessa cosa tra gli uomini di questo mondo. Perciò tutti hanno ragione di temere.
Che cosa mi servirebbe mendicare per cento anni il regno dei cieli, se non dovessi poi avere una buona fine? Credo che due sono i grandi beni dell’uomo: amare Dio e guardarsi sempre dal peccato. Chi questi due beni ha, tutti i beni ha. (Beato Egidio di Assisi)




Lunedì V settimana di Quaresima
Il religioso di grande obbedienza somiglia a un cavaliere, coperto di una buona armatura, saldo sopra un buon cavallo, che passa sicuro in mezzo ai nemici, nessuno dei quali gli può fare danno. Il religioso che obbedisce di malanimo somiglia invece a un cavaliere senza armatura, montato sopra un cavallo scadente. Quando capita nel folto dei nemici è buttato di sella, preso, legato, ferito, incarcerato e qualche volta ammazzato.
Con quanto più saldi e stretti nodi il religioso, per amore di Dio, sta legato al giogo dell’obbedienza, tanto più grande frutto porterà. E quanto più il religioso, per amore di Dio, si fa obbediente e soggetto a chi sta sopra di lui, tanto più compare povero e libero da colpa agli occhi degli uomini del mondo.
A me pare che quando uno avesse così grande grazia da parlare con gli angeli, se venisse chiamato in quel momento dall’uomo, al quale ha promesso obbedienza, dovrebbe lasciare il colloquio con gli angeli e obbedire alla persona a cui si è sottomesso per amore del Creatore. Lo mostra un fatto che si legge nel primo libro dei Re. Il Signore non rivelò la sua volontà a Samuele, prima che questi non avesse avuto il permesso da Eli di ascoltarla (1Sam 3,1-10).
Quando il bue tiene il capo sotto il giogo, i granai si ricolmano di frumento. Ma quando lo scuote e va libero per la campagna e crede di essere diventato un gran signore, i granai non si riempiono. Uomini grandi e dotti mettono umilmente il capo sotto il giogo dell’obbedienza, ma gli stolti lo tirano fuori e non si adattano a obbedire. Più gran cosa stimo obbedire per amore di Dio a chi sta sopra, che obbedire al Creatore stesso, il quale direttamente ingiungesse il comando. (Beato Egidio di Assisi)

Martedì V settimana di Quaresima
Mio Dio, fammi degna di conoscere l’altissimo mistero, che il tuo ardentissimo e ineffabile amore realizzò, insieme all’amore del Padre e dello Spirito Santo, cioè l’altissimo mistero della tua santissima incarnazione per noi. Essa fu l’inizio della nostra salvezza e opera in noi due cose: ci riempie d’amore e ci rende sicuri della nostra redenzione.
O incomprensibile carità! O amore al di sopra del quale non c’è amore più grande! Esso ha fatto sì che il mio Dio si facesse uomo per farmi Dio. O amore appassionato! Tu, quando hai assunto la nostra forma, ti sei donato per salvarmi. Non è che tu abbia perduto qualcosa, come se fosse stato tolto qualcosa a te e alla tua divinità, ma è la profondità del tuo concepimento che mi fa dire parole appassionate.
Tu, l’Incomprensibile, sei divenuto comprensibile. Tu, l’Increato, sei divenuto creatura. Tu, l’Impensabile, sei ora pensabile. Tu, l’Intangibile, puoi essere toccato.
O Signore, fammi degna di vedere la profondità dell’altissimo amore che ci hai comunicato nella santissima incarnazione. Due cose perciò dobbiamo considerare nell’incarnaziona del Figlio di Dio. La prima è l’amore.
La seconda cosa, è che ci rende sicuri della nostra salvezza.
Egli infatti è nato per morire per noi. Cinque cose si devono considerare nella morte di Gesù Cristo. La prima è che ci rende sicuri della nostra salvezza; la seconda è che ci ha donato la forza con cui abbiamo vinto i nostri nemici; la terza è la manifestazione della pienezza e della sovrabbondanza dell’amore di Dio; la quarta è che ci riempie di una profonda, appassionata e altissima verità, cioè ci fa conoscere, vedere e capire che Dio Padre nella santissima incarnazione, nella nascita e nella morte, ci ha mostrato, insegnato, spiegato e manifestato suo Figlio; la quinta è che il Figlio di Dio, attraverso l’obbedienza, che esercitò per tutta la vita e che ebbe termine con la morte, ci ha rivelato il Padre e ha risposto a lui al posto di tutto il genere umano.

Mercoledì V settimana di Quaresima
Appena battezzato Gesù riprende il cammino nel deserto e sale su un’altura, chiamata monte della Quarantena, dove passa in digiuno quaranta giorni e quaranta notti.
Osserva, o anima cristiana, come Gesù si ritira in solitudine, digiuna, prega, veglia, si stende a dormire sulla nuda terra e vive con la sola compagnia degli animali. Vengono qui toccati quattro punti che fanno parte dell’uomo spirituale e che si aiutano straordinariamente bene l’un l’altro, vale a dire: la solitudine, il digiuno, la preghiera, la mortificazione del corpo. Sono i mezzi più importanti per raggiungere la purezza di cuore, purezza cui dobbiamo tenderere con tutte le forze per il fatto che in un certo senso racchiude in sé tutte quante le virtù. Contiene infatti la carità, l’umiltà, la pazienza ed è incompatibile con qualunque vizio perché se uno ha un vizio o manca di una virtù non può avere la purezza di cuore. La purezza di cuore, effettivamente, è quella che fa meritare all’uomo di vedere Dio, come appunto dichiara il Signore nel Vangelo con le parole «Beati i puri di cuore, perché essi vedranno Dio».
Pensa spesso a Gesù in questa solitudine mentre di notte è disteso in terra. Ogni cristiano dovrebbe fargli visita almeno una volta al giorno, soprattutto durante la Quaresima.
Al termine dei quaranta giorni il Signore sente fame. Gli si avvicina allora il tentatore allo scopo di accertarsi se è Figlio di Dio. Lo mette alla prova approfittando della sua fame e gli dice: «Se sei Figlio di Dio, di’ a queste pietre di cambiarsi in pane», ma non riesce ad ingannare il Maestro, perché la sua risposta e il suo comportamento sono tali che né cede alla tentazione della gola né permette all’avversario di sapere ciò che vuole. Non nega ma neanche afferma di essere Figlio di Dio, bensì lo fa zittire citando la Scrittura.
Ricorda quest’esempio del Signore, se vuoi resistere al vizio della gola, perché se si vuoi vincere i vizi bisogna cominciare proprio dal digiuno. Per questo si dice che chi cede alla gola diventa impotente a superare o evitare gli altri vizi. (Giovanni de Caulibus)

Giovedì V settimana di Quaresima
Il nome di Gesù, considerato rispetto alla perseveranza, è aiuto degli incostanti, ossia dei tiepidi, degli ammalati spirituali, che si arrestano nella via del bene. Per cui san Bernardo, esclama: «Non senti, forse, confortato ogni volta che rammenti il nome di Gesù? Quale altra cosa rinvigorisce la mente di chi lo ripensa? Che cos’altro rafforza le virtù, solleva i sensi abbattuti, suscita i buoni costumi ed i santi affetti, più di questo nome adorabile?». Se dunque la pigrizia e il torpore, impossessandosi di te ti arrestano per la via intrapresa della perfezione, Gesù invocato ti guarirà con l’accendere in te novello fervore... Accade molte volte che ci sentiamo all’improvviso oppressi dalla mestizia e dal tedio: ci sentiamo aridi, freddi, distratti; la solitudine ci spaventa, noiosa ci diviene la lettura. E quantunque ci intratteniamo allora più lungamente nella preghiera, pure quel poco di fervore, che dolcemente gustiamo, viene sopraffatto da quella tiepidezza che ci avvince; né la considerazione del premio eterno, né il pensiero dei castighi infernali hanno la potenza di scuoterci dal sonno letargico in cui siamo caduti. Ma ecco che, appena invocato Gesù con tutto l’affetto del cuore, un gaudio immenso ed ineffabile torna finalmente ad impossessarsi dell’anima nostra... E così, invocato umilmente e con intimo desiderio il suo nome, Gesù torna ad inebriarci di santa letizia e a corroborare la nostra incostanza.
(S. Bernardino da Siena, Splendore del nome di Gesù)

Venerdì V settimana di Quaresima
Il nome di Gesù ci mette nella possibilità di assaporare questo cibo delizioso; nome che, profondamente meditato, in sé contiene ogni sapore e dolce soavità... Perciò gustando la dolcezza del nome di Gesù, dica ognuno di noi col profeta (Sal 53, 8): Darò lode al tuo nome, o Signore, perché è buono!... Giustamente è detto nel Libro dei Proverbi (18, 10): Una torre fortissima è il nome del Signore; vi accorre il giusto, è sarà sollevato. E san Giromo commenta: Non senza ragione il nome del Signore è chiamato torre fortissima, poiché in esso non solo riceviamo la fortissima e grandissima virtù di resistere agli attacchi dei nostri nemici spirituali e alla piena irrompente dei vizi, ma anche perché da quello, come da un luogo eminente, possiamo contemplare la moltitudine dei gaudi eterni. E il Crisostomo soggiunge: Il nome di Dio quanto più ardentemente è amato ed invocato, tanto più altamente ci solleva in Dio. E questo ben conobbe per esperienza il beato Egidio, compagno di san Francesco; poiché fin da quando il Divin Redentore gli apparve presso la montagna di Cetona, trattenendosi lungamente con lui dal Natale alla festa dell’Epifania, fu ripieno di tanta dolcezza che, dopo, al solo udire il nome di Gesù si sollevava spesso da terra, rapito in estasi. E volendo accertarsi di ciò il papa, lo chiamò presso di sé in una camera appartata; e allorché nel discorrere a bella posta nominò Gesù, immediatamente frate Egidio, sollevato da terra, fu rapito in estasi. Oh, che anch’io di tanta abbondanza di grazia, di tanta letizia di gloria che allieta gli abitatori celesti in paradiso ed i contemplativi in terra, possa, anche una sola volta, ricevere una sola stilla nell’arida anima mia, per così assaporare ed amare con tutto il cuore Gesù, per pensare sempre a lui!
Inaccessibile tu sei, o Signore, a noi che, ubriacati dall’amarezza della carne, non siamo altro che dei semplici e lontani spettatori delle ineffabili dolcezze celesti! Ma a noi, poveri pellegrini sulla terra, ci basta uno spiraglio da cui contemplare l’immensità della tua dolcezza riservata ai figli tuoi diletti, per poter correre dietro all’odore soave dei tuoi profumi! Questa soavità supera qualsiasi delizia, poiché l’odore tuo, o Signore, genera desideri eterni!... Oh, se un giorno sarò annoverato tra i beati comprensori del cielo, anch’io potrò allora esclamare con Abacuc (3, 18): Io mi rallegrerò nel Signore, ed esulterò in Dio mio Gesù. (S. Bernardino da Siena, Splendore del nome di Gesù)

Giovedì Santo
È il giovedì santo, il gran giorno del Cuore di Gesù, il giorno delle sue nozze e insieme del suo testamento d’amore! Come di un tratto un fulgido raggio di sole scioglie le nubi del cielo e richiamala vita, così il mio buon Maestro si è degnato sollevarmi, rischiararmi in questo giorno che per me è forse il più solenne di tutto l’anno. Mi sono sentito inondare da una grande abbondanza di pace, quando mi sono accostato a riceverlo; ho sentito tutta la gioia della sua presenza, ho ascoltato con commozione il suo ultimo sermone, le ultime parole di addio, e dolcemente tremando in tutta la persona per una non so qual tenerezza che mi inumidiva le ciglia, l’ho accompagnato alla sua custodia. Oh! come sempre più mi fa intendere il suo desiderio, che in tutto mi strugga di amore per lui nella devozione al Ss. Sacramento. Dal Ss. Sacramento, io debbo ripetermi quel desiderio che sento, che mi agita, di non vivere che per Gesù, e la grazia di essere preservato da tanti peccati che certamente avrei commesso senza il suo aiuto. Come posso io rimanere insensibile a questo invito?
Nell’ultima cena Gesù, il pontefice sommo, istituì il sacerdozio, ed ora chiama anche la mia miserabile persona alla partecipazione di sì alto ministero. Preparato già da parecchi anni per diversi gradi ed ordini minori al grande atto, ora mi vuole al suo servizio con una dedizione più solenne ed una promessa indissolubile di fedeltà a lui solo, e di separazione totale dalle creature del mondo. O Gesù, io anelo a quel momento da sì gran tempo aspettato. Vedete, o Gesù, abbandono patria, parenti, le mie povere reti, tutto; io vengo con voi. Ricevetemi come accoglieste Pietro, Giovanni, Matteo e gli altri. Se io non sono degno di assidermi alla vostra mensa, almeno mi metterò ai vostri piedi, a raccogliere le briciole che cadono in terra (Mc 7,27). «Stare sulla soglia della casa del mio Dio è meglio che abitare nelle tende degli empi» (Sal 84,11). Una cosa sola desidero: che rimanga costante nel vostro santo amore, uno con voi, come voi siete uno col Padre vostro. Ohimè! come attraverso le vostre ultime parole, nella mestizia del vostro divino sembiante, leggo lo scoppio infernale del bacio di Giuda, del traditore (Mt 26,50). Gesù, ve ne scongiuro a mani giunte, tremando di spavento; se voi sapete che io sia un giorno per mancare alle mie promesse, fatemi morire sull’istante prima che io compia il gran passo e vi giuri la mia fede. (San Giovanni XXIII)
 
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