Fra Noi

Posts written by Fra Roberto Brunelli

view post Posted: 13/11/2017, 20:46 Accidia - Testi tosti
ACCIDIA Come la tristezza è forza di gravità che trascina in basso. L’accidia è uno sgonfiamento dell’Essere. Il termine deriva dal greco ἀ (senza) + κῆδος (cura): privo di impegno, di lavorio. Colui che non ha cura delle cose, che scappa dalla fatica, fondamentalmente l’indolente. È “il non fare ciò che andrebbe fatto”. E’ quel tipo di demone che ci porta a rimandare le cose importanti, a restare bloccati nella futilità, a restare anche nelle cose nauseanti e noiose, a rimandare all’infinito le cose urgenti e doverose. Il problema dell’accidia è “l’evitare qualcosa”. Dietro l’accidia c’è sempre una rimozione, uno si sente spossato al solo pensiero di fare certe cose che andrebbero fatte, è odio per la sana urgenza, è voglia di dimenticare e rimandare ciò che va fatto al punto di arrivare al disastro, al non ritorno.
L’accidioso tende a rovinare il bene che ha tra le mani, è impastato di eterna insoddisfazione, di pessimismo.
Molti iperattivi sono accidiosi travestiti, perché continuano a fare tante cose tranne ciò che devono fare e affrontare. L’accidioso non vuole essere inchiodato a qualcosa di doveroso e sfoga questa insoddisfazione con la mormorazione. Si lamenta di tutto, parla tanto e fa poco, o fa quello che non va fatto. La nostra società consumistica incoraggia l’accidioso, perché è un consumatore fantastico: insoddisfatto ha bisogno sempre di comprarsi qualcosa.
L’accidioso è indifferente a ciò che lo circonda, non coglie la bellezza del reale, mormorando su tutto. Prevale il cinismo; è un amaro accusatore che diventerà un depresso spirituale. È nemica della preghiera, e della cura per le cose belle e importanti della vita.
Quali sono i sintomi? Innanzitutto la paura esagerata degli ostacoli: essi diventano dei mostri, tutto diventa drammatico. È la ricerca costante della scorciatoia e del modo di evitare le cose. Un altro segno è l’indolenza all’osservare le regole, l’ordine e le cose stabilite. Se da una parte la spontaneità dei bimbi è importante, è però anche importante dare dei punti fermi: i piccoli hanno bisogno di confini. Un’altra caratteristica dell’accidia è l’incapacità di resistere alle tentazioni. Uno non oppone nessuna resistenza, in una spiritualità senza combattimento... Noi non saremo mai obbligati a fare il bene: dovremo sempre sceglierlo e forse sceglierlo sempre a costo di qualche cosa. L’accidioso infatti non sa ingaggiare antagonismo con le sue basse pulsioni e quindi arriva alla degenerazione. Un altro aspetto tipico dell’accidia è l’antipatia verso le persone che fanno le cose fatte bene! (è un’accusa vivente). L’accidioso va avanti a casaccio, è un demone girovago, si vive di zapping, di pausa caffè. Si dà libertà ai sensi, alla curiosità, al divertirsi: usare tutto, parlare di tutto … si è in realtà molto superficiali. Questo da cosa nasce? La “filautia”, l’amore del proprio sè disordinato, in questo campo ci porta nella assolutizzazione delle percezioni: si crede alla prima impressione. Si parte dalla autoesaltazione e si finisce nell’incuria di se stessi, dalla assolutizzazione e nella drammatizzazione delle proprie percezioni e quindi dei propri stati d’animo. L’accidioso dà agli stati d’animo un’importanza totale perché dà un’importanza esagerata a un falso sé, a un ego che non è quello vero, ma è quello materiale, meccanico, non profondo.
Tutto però parte dalla rimozione di una relazione, perché l’accidioso è intimamente solo, perché ha rifiutato di confrontarsi con la Verità e appunto per la sua tendenza a sopravvalutare i suoi stati d’animo, è uno che non vuole essere relativizzato e quindi e rifiuta la relazione con Dio e gli altri. Dio è per lui uno a cui chiedere o pretendere cose, non uno con cui si misura, con cui si fronteggia. Per questo l’accidioso rimuove la relazione con Dio e con gli altri, quindi rimuove la preghiera e l’amore. Dotato di poco senso pratico per quanto riguarda le reali urgenze, è di estrema analisi degli atti altrui quando si tratta della critica. Il confine fra l’accidia e il vittimismo è molto piccolo. L’accidia ha tra le sue cause fondamentali la tristezza, che ama e che coltiva. L’accidioso è una compagnia sgradevole che evita di intraprendere relazioni. Il pigro peraltro si pensa simpatico ma non lo è per niente: distratto, sempre insoddisfatto, ingrato, indifferente. L’accidioso pur di evitare di entrare nella Verità farà anche 1000 esperienze spirituali, però poi non farà mai il salto nella guarigione.
Il triste è colui che ha un rapporto deformato con il tempo: vagheggia un passato ideale e aspetta un futuro sognante e comunque disprezza il presente. L’accidioso ha un rapporto deformato con lo spazio: vorrebbe sempre essere altrove, il posto in cui la Provvidenza lo mette è un posto da cui deve scappare. La natura essenziale dell’accidioso è la fuga. Fuga nell’alienazione, fuga nell’ozio, fuga nell’attività. E’ un fuggiasco, non ha una meta l’accidioso! Uno deve annotare i propri atteggiamenti accidiosi. E’ importante produrre un’alterità fra questo falso ego dell’accidioso e il contatto con il vero io, con l’Io profondo, quello che non è superficiale per niente, l’Io spirituale quello che ama il bene e cerca il bene.
L’accidia è un demone con cui non si può essere pacifici, perché distrugge tutto, perché svuota tutto dall’interno.
Il problema è che l’accidioso è quello che non combatte! Ma l’accidia viene dissolta di colpo quando la si attacca. Passati all’azione e dichiarata guerra, straordinariamente, l’accidia sparisce velocemente.
Però bisogna superare una terra di nessuno. L’accidia devasta tanto ma è un mostro di carta: una volta che uno ha attaccato scopre che si svuota. Perché? Perché è bello fare le cose belle! Perché quando uno inizia a pagare quello che deve pagare, a fare quello che deve fare, a mettere in ordine ciò che deve mettere ordine, inizia a stare bene, inizia a essere contento, inizia a essere grato alla vita. Allora bisogna resistere alla tentazione dello scoraggiamento che dice “non ce la puoi fare, è inutile che ingaggi questo combattimento”!
Bisogna mettersi a fare prescindendo dal proprio stato d’animo, disobbedendo al proprio senso, alle proprie impressioni e alle pulsioni superficiali. E’ un problema di contenitore: è come l’idea di andare a comprare qualcosa che viene venduto sfuso e dobbiamo portare la bottiglia, ciò che è adatto a tenere il materiale che compriamo. Dobbiamo portare il sacco della grazia! Il sacco ce lo dobbiamo mettere noi! L’accidioso spera di vincere il combattimento contro l’accidia senza alcuna regola, svegliandosi una mattina che gli va di fare le cose. Ma questo non succede! Dovrà coltivare una situazione dove può essere aiutato. Se per esempio l’accidioso non riesce a studiare chiede a Dio il dono della perseveranza, poi si mette a studiare obbligandosi, questo è il sacchetto della perseveranza, obbligandosi a restare lì, a non andarsene dalla scrivania. Scoprirà dopo tre ore che Dio gli ha dato la costanza, ma lo scoprirà dopo tre ore perché si sorprenderà che ha studiato, che è rimasto lì, ma deve imporsi di stare lì! La vittoria sull’accidia non arriva con la collaborazione della nostra libertà perché senza libera adesione non ci sarà mai nessun atto spirituale.
Il gusto viene dopo! Con l’accidia non si parte dalla vittoria, si arriva alla vittoria. Quindi chi vuole fare guerra all’accidia deve ignorare i propri gusti iniziali. Il cuore - che è l’assente ingiustificato dell’accidioso - è più profondo di queste sensazioni e di queste percezioni; per arrivare al cuore, alla profondità, bisognerà disobbedire all’accidia. Bisognerà andare contro se stessi! L’accidioso deve disobbedirsi per iniziare a costruire.
Nella tradizione spirituale sono i sette rimedi classici contro la pigrizia.
Il primo è la perseveranza, ossia non smettere.
Il secondo si chiama stabilitas: restare a combattere lì dove si è intrapreso il combattimento. Non esiste un luogo idoneo e uno spazio idoneo: esiste l’intenzione di mettersi a combattere Qui e Ora.
Il terzo rimedio fondamentale è la preghiera che fa entrare in relazione con Dio, fa gridare a Dio, fa dialogare con Lui. Da dove si comincia a pregare? Da quello che si sa fare! San Pio da Pietralcina diceva “Ognuno prega come può e sa”. La preghiera più facile è incominciare a leggere la parola di Dio e metabolizzarla. Quindi un altro strumento fondamentale è la vigilanza, la sobrietà; l’eliminazione dei fatti che confondono, che inebriano: bisogna iniziare a essere asciutti.
Molto spesso il combattimento con l’accidia parte dal digiuno: per questo tempo non guardo la televisione, per questo tempo spengo il telefono per diverse ore al giorno. Non è la vigilanza che vince l’accidia, è la grazia che vince l’accidia! Ma la vigilanza è la condizione per ricevere la grazia!
Un altro elemento molto serio è la cosiddetta “memoria mortis”. Il tempo non è infinito: Dio mi dà delle occasioni, mi apre le porte e io le devo saper sfruttare. Confrontarsi con il termine della propria vita fa molto bene.
Il penultimo strumento per combattere contro l’accidia è l’apertura del cuore al proprio padre spirituale, così gli darà la possibilità di agire molto molto efficacemente e di dare consigli mirati.
L’ultimo rimedio contro l’accidia è nientepopodimeno che il lavoro manuale!
Secondo Evagrio all’accidia si contrappone alla pazienza: il saper patire, il saper portare le difficoltà della vita.
“L’accidia è un’amica eterea” un’amica che sparisce, che non persevera con noi. E’ l’amico che non trovo nel momento del bisogno. “l’accidia è andarsene a spasso, è odio dell’operosità”.
“conflitto nella preghiera”: affrontare il dialogo con Dio, che poi sarà piacevolissimo, sembra la cosa più difficile.
“è tempesta nella Salmodia” uno sta con la parola di Dio e vengono 1000 pensieri inutili.
“Ritardo nella preghiera” aspetta c’è da fare, guarda un po’ il telefono..
“rilassamento e antagonista nell’ascesi” - l’ascesa, l’andare dalla parte degenere di sé alla parte nobile di sé, si tralascia
“Dormire quando non è il momento” “sonno che prende”
“Odio della cella”
“nemico della tolleranza” (uno vuole continuare a fare nulla)
“freno della meditazione” “ignoranza delle scritture” “collega di tristezza” “orologio della fame”

La pazienza invece secondo Evagrio Pontico è taglio dell’accidia “troncamento dei pensieri” “darsi cura della morte” “meditazione sulla croce” “inchiodarsi al timore” cioè tenersi strette le sane paure: la paura di perdersi, la paura di rovinarsi
“oro battuto” è oro ma lavorato - la pazienza è bella ma c’è da perseguirla
“regola delle tribolazioni” all’interno della tribolazione la pazienza ne trova la norma della vivibilità
“libro di rendimento di grazie” L’accidioso è un ingrato, il paziente ricorda le cose belle ricevute
“corazza della preghiera” “armatura dell’impegno ascetico” difende la vita spirituale, l’intimità con Dio; difende dagli attacchi la propria crescita.
“lavoro dignitoso e fervido” impossibile lavorare bene senza pazienza
“sottoscrizione di virtù” la pazienza ci fa arrivare a essere virtuosi
L’accidia è un bruttissimo modo di rovinarsi la vita. La pazienza è una strada di felicità
view post Posted: 7/10/2017, 14:18 Racconto di una conversione - Testi tosti
Sono ormai quattro anni che sono Cristiano, due anni che sono Cattolico.
Questa sera, durante la veglia pasquale, ho assistito al battesimo di un ragazzo, tra il venti e i trent'anni, moro, ricciuoluto, dallo sguardo vivace e dal sorriso facile. Vederlo ricevere i sacramenti per la prima volta mi ha sinceramente emozionato: questa è, per me, una grandiosa Pasqua ed è stato un meraviglioso triduo perchè, per varie ragioni, ha segnato una svolta, ulteriore, nel mio cammino, ormai lungo, nella Fede.
Giovedì mattina sono andato, da Arese dove abito, in processione al santuario di Rho, una delle chiese giubiliari, per varcare la Porta Santa. Durante il tragitto di andata, all'interno della chiesa, durante il ritorno, e tutto ieri, ho avuto modo e tempo di ripercorrere col pensiero tutta la strada fatta fino ad oggi. Una strada segnata di alti e bassi, cadute e risalite, errori e correzioni, ma soprattutto contraddistinta da un costante stupore.
La mia è stata una prima giovinezza tempestosa. A causa di una serie di fattori che non è qui il caso di stare ad analizzare, dal primo fino al terzo anno di Liceo mi ritrovai ad essere un ragazzo violentissimo e irascibilissimo, scosso da ogni parte da fortissimi sentimenti di risentimento ed orgoglio, dotato di una personalità superba e orgogliosa nonchè con una brutta inclinazione per una sensualità morbosa e cattiva: ciò mi portò a ferire parecchio le mie due fidanzatine dei tempi liceali. Senza entrare nei dettagli, basti dire che mi comportai nel peggiore dei modi con entrambe. Mi soffermo su questo punto non per morboso esibizionismo, ma perché la seconda di queste, con la quale mi fidanzai per motivi vili e disgustosi, fu il punto d'avvio della mia conversione.
Era, quella fanciulla della cui esistenza ancora ogni sera ringrazio, una giovanissima ragazza di educazione e ideali Cristiani, di una dolcezza paragonabile soltanto alla sua acerba bellezza: i suoi genitori, per mia e sua fortuna, intuirono, mi pare, quasi subito quali fossero le mie uniche intenzioni, e la misero in guardia. Io, al tempo, dall'alto della mia superbia e arroganza, dal basso della mia ignoranza, disprezzavo il Cristianesimo, lo ritenevo una favoletta buona per beoti e medievali, una sciocchezza creata per drogare i popoli, per fornire ai deboli una morale preconfezionata, e ovviamente non mancai di far pesare alla mia povera compagna questa mia concezione, tanto che per dimostrarle quanto assurda fosse la sua religione cominciai a leggere la Bibbia. Dopo pochissimo che ebbi iniziato questa lettura, la nostra relazione finì: era cominciata l'estate che intercorse tra il mio terzo e quarto anno di Liceo.
Per orgoglio, e per continuare la mia sistematica opera di demolizione e derisione della religione Cristiana, continuai a leggere la Bibbia: tutto era assurdo, tutto era demenziale, tutto era sciocco e banale, una vera favoletta per imbecilli, o almeno così credevo. Andavo tutti i giorni a leggere la Bibbia vicino al canale Villoresi, su una panchina, e passavo le notti insonni a leggere, afflitto dalla premura, fondamentalmente immotivata, di finire entro il rientro a scuola. Una mattina, saranno state circa le nove del mattino, dopo una notte in bianco, arrivai alla mia solita panchina. Ero arrivato al Primo libro dei Re, al capitolo 19.

"Giunto all'Oreb, [Elia] entrò nella grotta e vi passò la notte. Ed ecco, il Signore gli rivolse la sua parola e gli domandò: "Che fai qui, Elia?". Egli rispose: "Io mi struggo di zelo per il Signore, Dio degli eserciti, perché i figli d'Israele hanno abbandonato il tuo patto, hanno distrutto i tuoi altari, hanno ucciso di spada i tuoi profeti: sono rimasto io solo e cercano di togliermi la vita". Gli fu risposto: "Esci fuori e stà sul monte dinanzi al Signore". Or, ecco il Signore che passava. Lo precedeva un vento sì forte e violento da schiantare i monti e spezzare le rocce; ma il Signore non era nel vento. Dopo il vento venne un terremoto; ma il Signore non era nel terremoto. Dopo il terremoto apparve un fuoco; ma il Signore non era in quel fuoco. E dopo il fuoco, l'alito carezzevole di un'aura leggera. Sentita quest'aura, Elia si coperse il volto col mantello e, uscito fuori, si fermò all'ingresso della caverna."

Letto questo brano, mi fermai. Stanco per la nottata in bianco, mi stesi sulla panchina. Era una giornata tersa, un po' ventosa, senza una nuvola in cielo, e il sole filtrava tra le foglie degli alberi sulla mia panchina. Guardai verso la luce che trasudava tra le fronde mosse dalla brezza, sospirai e capii. Capii che fino a quel momento avevo letto la Bibbia, e la vita in generale, sotto un'ottica sbagliata. Sentii per la prima volta nel cuore, oltre che rabbia e furore, anche sofferenza e dolore. Compresi che avevo sbagliato molto, se non tutto nella mia vita fino a quel momento.
Guardai la bellezza delle foglie, la serena maestosità degli alberi, ascoltai il sussurro del vento, assaporai il tepore del sole sulla pelle e, per la prima volta, gustai la presenza di Dio.
Ripresi la lettura della Bibbia daccapo e a Settembre finii il libro dell'Apocalisse, ancora di fretta e furia, ancora mosso da un'immotivata premura. Con tanta, tantissima confusione in testa muovevo i miei primi passi nella Fede. Fu questa, dei primissimi tempi, una Fede più sentita che ragionata, più sentimentalmente assaporata che vissuta realmente, tant'è che il mio comportamento esteriore cambiò soltanto impercettibilmente e forse non mutò affatto, almeno durante questo primo periodo.

Sul mio peregrinare tra varie e diverse denominazioni, nel periodo successivo alla mia conversione, non intendo soffermarmi: dopo una brevissima permanenza presso una Chiesa Pentecostale, dopo una più lunga frequentazione di una Chiesa Evangelica Rhodense presso la quale addirittura mi battezzai, in seguito ad un lungo periodo di riflessione ed alla lettura delle Confessioni di Sant'Agostino, nonché ad una serie di incontri, mi convertii definitivamente al Cattolicesimo tra la fine della quinta Liceo e l'inizio del mio primo anno di Università.
Ricorderò per sempre il primo tempo forte che vissi interamente come Cattolico, il tempo di quaresima: la liturgia, fattore quasi completamente assente nelle Chiese protestanti Evangeliche, mi affascinò e tutt'ora, anche questa sera, mi regala meraviglia e stupore.
Meraviglia e stupore, gioia a sazietà: ecco ciò che provo, io, la sera di Pasqua.
"Cristo Signore è risorto!", ha annunciato questa sera Don Riccardo dall'altare, per tre volte, rivolto verso le diverse navate della chiesa.
"Cristo Signore è risorto!": anche io sono uscito dal mio sepolcro, un sepolcro fatto di rabbia e risentimento, di amore corrotto e vuoto, di narcisismo e superbia. Mi rivedo negli occhi felici e pieni di quel ragazzo che questa sera si è battezzato, che questa sera è entrato a fare parte del Corpo Mistico di Cristo; mi ricordo di quel giorno, steso su quella panchina, a guardare le foglie mosse dal vento, ad ascoltare per la prima volta la voce di Dio, e provo gratitudine. Gratitudine per l'occasione che mi è stata data quando niente meritavo, per aver avuto modo di capire i miei errori così profondamente da disprezzarli sinceramente e non soltanto per convenzione. Gratitudine per la Redenzione che mi è stata guadagnata per mezzo del sacrificio di Dio stesso: che follia la Croce, che scandalo per la logica umana, questo Dio che sacrifica Dio per me, miserabile e debole creatura, infinitesimo di fronte a qualsiasi cosa.
"Cristo Signore è risorto!".
view post Posted: 5/8/2017, 17:19 Lettera di Giuliotti a Papini - Buone Letture
A Giovanni Papini.
10 Gennaio 1920.
Anch' io, da quando non son più bestia, vo gridando disperatamente al deserto che abbiamo vissuto per far vincere i valori infernali, che moriamo di loro e per loro, che per vivere bisogna avere il coraggio di rinnegarli e che per rinnegarli bisogna diventare cristiani.
Ma con qual mezzo, o francescanofilo che non ti confessi, intendi raggiunger, tu, Gesù Cristo ?
E sento, pur troppo, la tua voce, che par quella d'un altro, che potrebb'essere infatti tanto quella del fu Giuseppe Mazzini che quella d'un mio cugino acquistato chimico-farmacista, ripetere, a dettatura d'un qualunque imbecille, queste putrefatte bestemmie :
«Roma è l'antitesi di Cristo. Il Vangelo (Vita) è l'antitesi della Chiesa (Sarcofago). Chi s'aggrappa alla basilica romana del primo apostolo mette la sua speranza nell'esteriore come tutti gli altri».
Ciò è pietoso.
Tu, sitibondo di verità, eccoti risprofondato, fino all'ultimo ricciolo della tua gran testa, piena di lampi e di buio, nel miasmatico pozzo nero dell'anticlericalismo che disprezzi.
Nonostante ascoltami:
Se tu fossi piccolo, faresti come tanti che si credon grandi, il letterato e basta. Se tu fossi grande (voglio dire: rinato spiritualmente, rinato uomo nuovo) sentiresti che dinanzi alla sapienza della Chiesa, sapienza non sua ma di Cristo, la nostra sapienza è presuntuosa ignoranza e impareresti il Catechismo e serviresti Iddio. Mediocre (tutti gli acattolici son mediocri e gli anticattolici porci), sebbene col desiderio d'esser grande, cerchi e non trovi. Ora cerchi Cristo, come annaspando fuor della chiesa, ora t'immagini che la Chiesa lo tenga prigioniero e fantastichi di liberarlo.
Il fatto sta che, non essendo cattolico, non sei cristiano ; che, non essendo cattolico, non capisci né senti il Cristianesimo; che, non essendo cattolico, non sei umile; e, non essendo umile, non ti riesce d'entrare, dalla porta stretta, nel regno dei cieli, per esser grande.
Sei ancora, sebbene non ti sembri, e ad onta del Battesimo, protestante, razionalista, modernista, insomma compositamente eretico.
I tuoi occhi non vedono, i tuoi orecchi, otturati dal cerume dell'ignoranza religiosa, non odono.
Hai percorso quasi tutte le strade del sapere, ti sei sperduto e ritrovato in tutti i laberinti del pensiero, conosci tutti i suoni, tutti i colori e tutti i sapori della vita; sei, eminentemente, un meditativo ed un artista ; ma quando parli del Cattolicismo sei mediocre. E sei mediocre perché lo ignori.
Leggi dunque (ne hai bisogno) un manuale della religione cattolica: per esempio: il Wilmers. Dopo, spero, ci riparleremo.
Ma, intanto, io ti dico (io che vedo oramai, per grazia di Dio, tutta la grandiosa, ferrea, delicata e soprannaturale struttura dell'edificio cattolico) che è più facile dubitare della nostra esistenza che della fondazione della Chiesa per opera di Cristo.
Il Cattolicismo è lo sviluppo legittimo, inevitabile, divino, voluto da Cristo, del seme evangelico. Nulla, che non sia nel Vangelo, è nella Chiesa Cattolica. Il Vangelo è il grano di senapa; la Chiesa è l'albero venuto su da quel seme. Nel seme era tutto l'albero. Se il seme è buono l'albero sarà buono. Se il Vangelo è la verità, la Chiesa, custode, lettrice, interprete e propagatrice (autorizzata da Cristo, e, perciò, unica] del Vangelo, è la verità.
Pietro è la pietra infrangibile. Cefas vuoi dir roccia. Quando Cristo disse : «Tu es Petrus et super hanc petram aedificabo ecclesiam meam » non lo disse per ridere. O l'anima nostra edifica, con Cristo, su quella pietra, o tutto, come si vede, ci ricasca addosso. Ogni altra pietra si consuma e si sfalda; quella no ; e quando sarà scalzata dalle iniquità del mondo, cadrà sul mondo e l'annienterà.
Esteriore è tutto ciò che è fuori della Chiesa; nella Chiesa c' è l'eterno, l'interno, l'assoluto, l'immutabile; perché c' è Cristo, invisibile, e, visibili, il suo Pastore e le sue pecore; e quello vigila su queste, e queste pascono nel lor pascolo e, se vanno altrove, s'ammalano e, se non ritornano, muoiono.
Nell'esteriore c'è l'Anticristo; formidabilmente, ma vanamente armato, e dietro a lui, con molti, con moltissimi, anche tu vai, pecora matta, sebbene tu creda, senza Pastore, di seguir Cristo.
Non hai dunque nulla da insegnare alle genti ; ma tutto da imparare dall'infimo dei cristiani. I quali cristiani (esistendo, fino a tutt'oggi, il mondo) esistono.
Hai dunque da imparare a farti il segno della Croce, da imparare a inginocchiarti, da imparare a comunicarti come le tue bambine, da imparare a credere nell'incomprensibile e da imparare, infine, corazzato dalla Fede, a combattere unicamente per la verità della Chiesa che è la verità di Dio.
Metà della tua vita l'hai spesa, deplorevolmente, per il mondo e per te stesso; ora bisogna, « ed è urgente ed improrogabile », che tu spenda la metà che ti resta per la salvazione delle anime e per la gloria di Dio.
La tua penna, per vent'anni, ha scritto a dettatura del Diavolo. Tu sei stato, per vent'anni, un avvelenatore di te stesso e degli altri.
Bisogna cancellare e riscrivere.
I tuoi libri, alcuni infami, altri vani, altri belli ma profani, buttali risolutamente, e con gioia, sul rogo delle vanità.
E ricomincia da capo.
Dopo la « Metà Nera » deve splendere, sulla tua vita nuova, la « Metà Bianca ».
Rovesciati, rinnovati, rimondati, internamente.
Spargi sulla tua anima, prima che imbachi, il sale della verità.
Fiutati: sentirai che ti strascichi dietro il cadavere di te stesso; che non sarai libero né sicuro finché tu non l'abbia seppellito e non gli abbia calcato la terra addosso.
Scrivi per rinnegare tutto ciò che hai scritto, per esser fòlle, tra i savi del mondo, della follìa di Cristo.
Mettiti contro-corrente. Lotta, ricoperto dagli sputi della marmaglia, sotto l'insegna della Croce, finché la marmaglia non t'ammazzi. Ecco la gloria.
Manca in questi tempi, satanicamente calamitosi, un grande ed eroico scrittore cattolico. Il Clero, in gran parte, è mediocre. Il laicato cristiano non ha voce ; il laicato anticristiano celebra, grugnendo, la melma, la broda e lo sterco del proprio trogolo.
Perché non saresti tu il Veuillot d'Italia ?
Non io ti direi queste cose se non ti credessi capace d' uccidere in te l'uomo vecchio e di buttarlo, con disgusto, nell'infetta sardigna degli scrittori cerebrali.
Il crederti capace di ciò vuol dir crederti potenzialmente grande. La tua mediocrità attuale (Carducci; per intenderci, in confronto al Beato Labre e un nachero sporco) deriva dal non essere stato investito ancora dallo splendore cattolico.
Ma la tua anima, profonda, inquieta, caotica (e tuttavia sempre assetata d'acqua viva, sotto agli scolaticci degli infiniti belletti che la imbrattarono) ha cercato, ha sofferto, ha desiderato, e cerca e soffre e desidera e forse, ora,
spera.
Ma se speri otterrai; se desideri la luce vedrai; se bussi ti sarà aperto.
È impossibile che Dio, che, certo, t'ama, non ti aiuti.
Va' dunque franco, quando sia l'ora (e sia prossima), a ricevere la nuova cresima che ti rifarà soldato del nostro signor Gesù Cristo.
Quanto a me, lo sai, quanto a me che ti scrivo unicamente in considerazione della tua salvezza e nell'interesse delle anime che, salvandoti, salveresti, non ho che il desiderio, sempre più grande e più acuto, di vedere il tuo ingegno, fino ad ora sciupato, mettersi al servizio di Dio.
Io sono un pover uomo molto debole e molto imperfetto e vivo più di pensieri che d'opere. La mia penna, che impugno di rado, e che mi pesa come una zappa, non ha splendore. Talvolta, urtato nella mia fede da questo atroce mondo d'arrabbiati ciechi, la tuffo nell'acido del disprezzo e sfregio, con gioia feroce, le facce sataniche o idiote degli sfregiatori del mio Dio.
Fo quel che posso; fo poco; fo male; forse fo del male. Però, se fossi un grande artista, non esiterei un istante, essendo cristiano, a far dell'arte mia la schiava di Gesù Cristo. Ma son piccolo, ripeto, e debole e quasi vecchio e quasi muto.
Tu, forte ed armato, potrai, convertendoti, ciò che io non posso.
E necessario, dunque, che tu ti converta ; è necessario per la tua anima, è necessario per le anime.
Molti, nel tenebroso caos che li travolge, aspettano una parola grande, forte, alta, cristiana, per ritrovarsi.
Il sacerdozio stesso par che stia in attesa d'una gran voce cattolica che lo chiami al trionfo o al martirio.
Da te può esser rotto il silenzio. Ma prima è necessario che tu cada in ginocchio.
Fallo.
Perché solo quest'umiltà è grandezza, e tutto il resto è letame.

POSTILLA :
A questa lettera, suggeritami dagli articoli famosi: « Amore e Morte » e « Non esistono cristiani », Giovanni Papini rispose lungamente, quasi commosso, e tuttavia non arreso.
Non disperai.
Sentivo che la sua nobile anima, già albeggiante, avrebbe finito col meritare una completa illuminazione divina.
Oggi mi scrive da Venezia : «Vo tutte le mattine in S. Marco. Stanotte la campana della basilica mi ha svegliato e m'è venuto sulle labbra, non so perché, improvvisamente, l'Ave Maria, che da tanti anni non dicevo più e che mi pareva di non poter ricordare fino in fondo».
E' il primo alito della Grazia, è il richiamo, irresistibilmente materno della Mater Salvatoris, della Virgo Potens.
Domani Giovanni Papini dirà: Credo.

Edited by Fra Roberto Brunelli - 5/8/2017, 18:48
view post Posted: 29/7/2017, 11:00 Giuliotti commenta Chesterton - Buone Letture
Inutile fantasticare su questo titolo fantastico.
La Filosofia delle Fate, ovvero filosofia del « se », o del « veto », che deriva dall'antichissimo principio della « gioia condizionale » e fu insegnata da Dio stesso, con un solo avvertimento (non osservato) ai Protoparenti, nel Paradiso Terrestre, non è dunque, come qualcuno (qualche linee della « terza pagina ») potrebbe credere, una spiritosa invenzione del celebre « umorista » inglese Gilberto Chesterton.
Esso (questo strano, profondo e piacevolissimo scrittore), nel suo libro fondamentale Orthodoxy (tradotto in italiano — e bene — da Raffaello Ferruzzi, Roma, Casa Editrice Ausonia, 1927) non ha fatto altro che riscoprirla nei « racconti della nutrice » o — come noi diremmo — nelle « novelle della nonna », a quel modo che il poeta (ed egli lo è radiosamente) ritrova in sé e intorno a sé, smatassandone i significati nascosti, il lontano ed arcano e divino mondo dell'infanzia.
Ma, prima di ricredere nelle Fate (ossia — per intenderci — nella dipendenza della natura dal soprannaturale, della Creazione dal Creatore — dal gran Mago invisibile, com'egli lo chiama, di questo incantato Universo), anch'egli come tanti, essendosi impaniato e spaniate tra le zirlanti uccelliere del pensiero moderno, né trovando ancora dove posarsi (il Cattolicismo, a quel tempo, doveva sembrargli una cosa da non pigliarsi sul serio), aveva voluto vedere se gli fosse stato possibile di fabbricare, col proprio cervello, una nuova eresia.
Senonchè (Dio è talvolta provvidenzialmente ironico) era successo a lui come ad uno (son presso a poco le sue parole) che, partitosi dall'Inghilterra con l'intenzione di scoprire un'isola non segnata sulle carte geografiche, aveva trovato, sì, dopo una lunga navigazione, l'isola del suo desiderio, ma essa altro non era che il luogo di partenza, era... l'Inghilterra; e, pure essendo l'Inghilterra, era proprio (oh prodigio!) quella dolce, incantevole e non più abbandonabile isola per la quale, avventurosamente, s'era messo in viaggio.
In altre parole, l'eretico infastidito delle eresie già esistenti, l'uomo che voleva inventare, come s'è detto, un'eresia nuova che lo soddisfacesse, era riuscito, infatti, ad inventarla, ma, dopo averla inventata, s'era dovuto accorgere che esisteva già, che esisteva, anzi, da venti secoli e che, per di più, non era un'eresia, ma la già disprezzata ed ora ammirabile ortodossia.
Fino allora questo mondo era apparso a Chesterton come un'immensa macchina paurosa e farraginosa, che girasse a scosse, a fatica e stridendo (e, peggio ancora, senza scopo), e ciò perché doveva avere — introvabile e inesplicabile — qualche imperfezione o mancanza nel proprio interno.
Ma dopo la comica e fortunata scoperta egli s'accorse, al tempo stesso, di due cose: primo, che nella macchina del mondo c'era un foro; secondo, che una specie di punta dura (il dogma cristiano) sembrava fatto apposta per incastrarsi ed ingranare in quel foro. E allora — avendo, infatti, la punta e il foro, combaciato l'una nell'altro — « tutte le altre parti ingranarono perfettamente, con meravigliosa esattezza.
Tutto il macchinario, pezzo per pezzo, si mise a posto col rumore caratteristico dell'assestamento. Messa a posto una parte, tutte l'altre parti ripeterono il movimento, con la stessa esattezza con cui tutti gli orologi battono mezzogiorno. E, istinto per istinto, dottrina per dottrina, tutto ricevè la sua risposta ».
Il Cattolicismo, dunque, (per uscir di metafora) gli appariva, in tal modo, come l'unica vera spiegazione dell'enigma cosmico.
Esso, col suo Dio personale, trascendente e creatore, con la sua Dottrina della Caduta, che ci offre il perché delle evidenti tracce d'un antico e generale naufragio, e col fatto storico — centrale e universalmente riparatore dell'Incarnazione — (un Dio-Uomo che rinsalda in sé la già spezzata catena spirituale) - chiariva tutto, armonizzava tutto, vivificava tutto ed era come un immenso radioscopio, pel quale il nostro sguardo, al di là delle apparenze e delle ipotesi, poteva penetrare, oltre la scorza, nell'intimo degli uomini e delle cose.
I creduti e sè credenti savi (per esempio) — scienziati, filosofi, letterati ed altre vessiche — che, osservati con la lente del Vangelo (che è quella stessa girata continuamente dalla Chiesa, sulla storia umana, per giudicarla), apparivano, quali erano in realtà, dei pazzi; e, viceversa, i creduti pazzi (i « pazzi di Cristo ») risplendevano in tutta la loro misconosciuta sapienza.
Gli ignoranti, gli umili, quella parte del popolo, non contagiata, che crede ancora nel soprannaturale, le « pastorelle » di Lourdes o della Salette, Giovanna d'Arco con le sue « voci » aeree, tutti coloro, radicati nella tradizione cristiana e digiuni di teorie o di sistemi, che affermavano, pronti anche a morire per ciò che affermavano, d'essere stati testimoni di questo o quel miracolo, dicevano, non potevano non dire, la verità.
Chi non diceva invece la verità, o la diceva deformata, frammentaria e irriconoscibile, era il « sacerdote laico » delle varie Sorbone che, mentre si sarebbe amaramente vergognato di credere in Dio, non provava il benché minimo ribrezzo a credere nell'inerranza del proprio vuoto dipinto.
C'era, per esempio, tra questi savi-pazzi, il « materialista » ; il quale s'era messo in testa — o non so dove — che il mondo fosse una specie di girarrosto a moto perpetuo: un girarrosto che si fosse fatto da sé, che non s'incantasse mai, perfettamente meccanico, perfettamente lubrificato, perfettamente girante con tutta l'umanità infilata nello spiede e, perciò, (dico io) perfettamente stupido come il suo inventore.

C'era poi l'« immanentista », animale religioso quant'altri mai, ma che poteva burlarsi dei due Testamenti e della Chiesa, anzi di qualunque chiesa, perché lui, Dio l'aveva trovato da sé, in sé stesso, e per ciò si gloriava d'essere il luminoso ostensorio ambulante d'un Dio natante nel suo dilatatissimo io.
C'era anche il « panegoista » — altra specie di quadrumane auto-divinizzato — che diceva d'essere « al di là del bene e del male », che faceva sé centro ed àpice del mondo, che assicurava che tutto incominciava in lui e che « non dubitava neppure d'aver creato suo padre e sua madre ».
Questo sott'uomo si chiamava anche con un altro nome: egli era il Superuomo.
Senonchè Nietzsche — il santo padre di tutto il cucciolume egoarchico, — nonostante « il desiderio dei galoppi
sfrenati sui grandi cavalli », nonostante « gli appelli alle armi », un giorno (dice Chesterton) mentre passeggiava, meditando, in aperta campagna, vide, ben cornuta e a testa bassa, una vacca; e Zarathustra (incredibile ma vero) si battè le gambe dans le derrière.
Ebbene: ci fu, invece, una volta, una povera ragazza contadina, quella tale Giovanna d'Arco (già sbavata, in orribili versi, dall'orribile vecchio di Ferney e riprofanata, in forbita prosa, dall'ormai defunto Anatolio e teatralizzata, ultimamente, con intenzioni non perfide, dal saltimbanco Shaw) la quale non ebbe mai paura (che si sappia) né di vacche, né di leoni, né di tutti i diavoli. Essa « non solo esaltò il combattimento, ma combattè », non solo non finì presunta luetica nel manicomio, ma vergine, sul rogo; e non solo fu un'eroina, ma è Santa.
Tale la differenza tra chi s'appoggia a Cristo e chi s'appoggia alla propria mota farneticante.
« Di quanto la religione s'allontana da noi, di altrettanto s'allontana la ragione ».
« Nell'atto di distruggere l'idea dell'autorità divina, abbiamo distrutto in gran parte l'idea dell'autorità umana... Con una fune lunga e resistente abbiamo cercato di rovesciare la mitra di sulla testa dell'uomo pontificante, ed è venuta giù anche la testa ».
Quindi, « il suicidio del pensiero ».
« Penso, dunque sono », disse il pio-empio Cartesio. E gli echi innumerevoli e sempre più deformati di quella celebre eresia hanno portato la gente in pazzeria.
Invece si doveva dire : « Dipendo da Colui che è, dunque, in quanto dipendo, sono; e sono finché dipendo».
Ma l'uomo moderno non ha voluto capire ciò che è successo e sta succedendo ogni giorno: che cioè « l'isolamento del pensiero nell'orgoglio conduce all'idiozia e che tutti gli uomini che hanno il cuore duro finiscono col cervello tenero».
Ma ecco, lasciati al loro destino i savi-pazzi, le meraviglie che vedono i pazzi-savi, nel paese delle Fate che è questo mondo, creato e retto dal gran Mago invisibile che è Dio:
« Il mondo è una cosa che colpisce, ma non è soltanto questo; l'esistenza è una sorpresa, ma è una sorpresa (per chi dice : « dipendo, dunque sono ») piacevole ».
«Tutte le mie convinzioni (parole testuali di Chesterton) sono rappresentate da un indovinello che mi colpì fin da bambino. L'indovinello dice : — Che disse il primo ranocchio? — E la risposta è questa: — Signore, come mi fai saltar bene! — In succinto, c'è tutto quello che sto dicendo io. Dio fa saltellarè il ranocchio, e il ranocchio è contento di saltellare ».
Ma che insegnano di diverso tutti i Santi e tutta la sapienza cristiana?
Questo mondo chestertoniano delle Fate è quello stesso della dipendenza da Dio, dell'obbedienza e dell'abbandono a Dio, e, soprattutto, della gioia che proviamo, come il ranocchio dell'indovinello ed esser fatti saltellare da Dio.
Non solo, ma, nel dominio delle Fate, accade questa cosa paradossale: Rinunziando alla libertà si acquista la libertà. Una cosa ti è proibita. Se non la farai, vedrai e opererai prodigi.
«Di tutti i frutti d'ogni albero del Giardino (disse il supremo Mago al primo abitante del primo regno delle Fate) puoi mangiarne, ma del frutto dell'Albero della scienza del Bene e del Male non mangiarne, perché, in qualunque giorno ne mangerai, indubbiamente morrai ».
Pensate alla nostra potenza, alla nostra intelligenza, alla nostra felicità, alla nostra innocente libertà, se non avessimo infranto, in Adamo, quel primo «veto»!
Chesterton, quando parla scherzosamente, ma profondissimamente, del paese incantato delle Fate, in cui la felicità dipende da un « se », da una condizione (« tu puoi vivere in un palazzo d'oro e di zaffiro se non dirai mai la parola vacca », « ti è concesso vivere felicemente con la figliola del Re, se non le mostrerai una cipolla »), vuol fermare la nostra attenzione, attraendoci col suo iridescente linguaggio figurato, su questa elementare verità cristiana: Obbedisci, senza cercare di voler comprendere, al tuo Creatore e Signore e comprenderai tutto; obbedisci a Lui e in Lui solo (che ti aprirà i tesori della sua sapienza per ricompensarti della tua obbedienza), potrai rallegrarti di tutto.
Perché sarai stato umile diventerai grande, perché sarai stato obbediente diventerai libero, perché avrai rinunziato a sapere il perché della condizione strana o stranissima che ti fu imposta, lo saprai; e saprai anche infinitamente più di tutto ciò che desideravi sapere.
È la posizione spirituale del cristiano, diametralmente opposta a quella del « pensatore » moderno ; il quale, edificando col fumo e accecandosi, diventa la scimmia impotente e ripugnante della «Simia Dei»; in cui, come in Dio, l'infelice non crede.
Il pensiero moderno si stacca da Dio, deifica sé e non capisce più nulla;
il pensiero cattolico pensa in Dio, abbraccia tutto in Dio e d'ogni cosa trova la spiegazione nel Libro di Dio.
Ora, questo Libro è letto e commentato dalla Chiesa, ch'è illuminata, perché non erri, dallo Spirito Santo. E ciascuno di noi, se lo legge e commenta dentro la Chiesa e con la Chiesa, può dar fuoco, se l'ha, alla propria biblioteca; perché, letto e compreso quel libro, tutti gli altri libri son carta sporca.
Ma Chesterton vede nell'ortodossia, vale a dire nel Cattolicismo, (oltre al paese delle Fate, in cui si può abitare sottostando, come abbiamo visto, ad una conditio sine qua non) anche la coesistenza e la conciliazione dei contrari.
Il Cattolicismo, infatti, è conservatore e rivoluzionario, statico e dinamico, pacifico e guerriero, aristocratico, e democratico, gerarchico e capovolgitore, tradizionalista e avvenirista. E perciò (sebbene i suoi raggi multicolori partano, per ritornarvi, da un unico centro, che è Cristo) esso par fatto apposta per essere, come il suo divino fondatore, accettato e rifiutato in ogni tempo, in ogni luogo e da tutti gli uomini.
Ma gli accusatori — vari e fra loro in contrasto — del Cristianesimo in genere e del Cattolicismo in ispecie, ne dimostrano involontariamente e, per di più, eloquentemente, la ricchezza, la complessità, la vitalità e l'origine non terrestre.
Succede alla Chiesa sposa di Cristo (e, dopo Chesterton, lo dimostrò un altro inglese convertito: Benson) come al suo Sposo divino.
Gli uni dicono: Essa prende gli uomini e li trasforma in pecore. E gli altri : Essa, con la sua intransigenza e violenza, sovverte le basi della famiglia, dello stato, della società. Gli uni: Essa è antiumana, perché predica la castità, la santità e la rinunzia ai piaceri. E gli altri: Essa è troppo umana, troppo terrestre, troppo interessata e mescolata alle cose del mondo. Gli uni : Essa si veste di sacco, va a piedi scalzi, digiuna, si batte il petto, disprezza « le nobili gioie della vita » e dice che i ricchi difficilmente entreranno nel Regno dei Cieli. E gli altri: Essa, fondata, secondo vuol far credere, da Cristo, il quale « non aveva una pietra dove posare il capo », ostenta un fasto, un lusso, una pompa e una ricchezza che sorpassano qualunque scandalo più scandaloso. Gli uni: Essa è cosi squilibratamente spiritualista da considerare la carne e il mondo come i due massimi nemici dell'uomo. E gli altri : Essa è tanto materialista da insegnare, nel suo Credo, che non solo le anime ma perfino i corpi entreranno un giorno nella Vita Eterna.

Così, da opposte parti e con armi diverse, la Chiesa è attaccata dai suoi nemici. Senonchè, mentre questi balbettano e ribalbettano, monotoni, fastidiosi e, in fondo, sempre sconfitti, le stesse cose, Essa, nella sua concordia discorde, nel suo miracoloso equilibrio, nel suo pauroso oscillamento, come un campanile troppo alto squassato da un continuo doppio di campane suonanti a gloria, Essa sola, in mezzo e al disopra delle tempeste, domina, illumina, prega, benedice, canta, adora.
Taluni, dice Chesterton, chiusi gli occhi dinanzi a questo singolare spettacolo, « hanno preso la stupida abitudine di parlare dell'ortodossia come di qualche cosa di pesante, di monotono e di sicuro. Non c'è invece niente di così pericoloso e di così eccitante come l'ortodossia: l'ortodossia è la saggezza, e l'esser saggi è più drammatico che l'esser pazzi; è l'equilibrio di un uomo dietro cavalli che corrono a precipizio, che pare si chini da una parte, si spenzoli dall'altra, e pure, in ogni atteggiamento conserva la grazia della statuaria e la precisione dell'aritmetica. La Chiesa, nei primi tempi, fu superba e veloce come un cavallo da guerra; ma è assolutamente antistorico dire che essa seguì puramente il dirizzone d'un'idea — come un volgare fanatismo. Essa deviò a destra e a sinistra con tanta esattezza da evitare enormi ostacoli; lasciò da un lato la grande mole dell'arianesimo, sostenuta da tutte le forze del mondo, per mettere il Cristianesimo più a contatto col mondo; un momento dopo doveva scansare l'orientalismo che l'avrebbe troppo allontanata dal mondo. La Chiesa ortodossa non scelse mai le strade battute né accettò i luoghi comuni; non fu mai rispettabile. Sarebbe stato facile accettare la potenza terrena degli ariani, sarebbe stato facile, nel calvinistico diciassettesimo secolo, cadere nel pozzo senza fondo della predestinazione.
È facile esser pazzi; è facile essere eretici; è sempre facile che un'epoca metta a capo a qualche cosa, difficile è conservare il proprio capo; è sempre facile essere modernisti, com'è facile essere snob.
Cadere in uno dei tanti trabocchetti dell'errore e dell'eccesso, che, da una moda all'altra, da una setta all'altra, sono stati aperti lungo il cammino storico del Cristianesimo, questo sarebbe stato semplice. È sempre semplice cadere; c'è un'infinità di angoli a cui si cade, non ce n'è che uno a cui ci si appoggia. Perdersi in un qualunque capriccio, dallo gnosticismo alla scienza cristiana, sarebbe stato ovvio e volgare. Ma averli evitati tutti è l'avventura che conturba; e, nella mia visione, il carico celeste vola sfolgorante attraverso i secoli, mentre le stolide eresie si contorcono prostrate, e l'augusta verità oscilla, ma resta in piedi ».
Spero che nessuno vorrà rimproverarmi questa lunghissima citazione. Essa era necessaria per far vedere con quale e quanto calore (e colore) Chesterton difenda la Chiesa, nella quale ha ritrovato la via, la verità e la vita.
Ma è dunque il suo libro una vera e propria apologià del Cattolicismo?
Un giorno l'autore passeggiava con un amico (un editore celebre) per le vie di Londra. A un tratto l'amico, a conclusione del suo discorso, disse : « È certo che il tal dei tali farà carriera: egli crede in se stesso ».
In quel momento lo sguardo di Chesterton si posò sopra un omnibus che passava e che portava scritto: Hanwel! (È il luogo di cura per gli ammalati di mente). Perciò rispose: «Ti devo dire dove sono gli uomini che più credono in se stessi? Te lo dico subito... Gli uomini che veramente credono in se stessi sono tutti nei manicomi ».
L'amico storse la bocca e ribattè qualche cosa.
Ma Chesterton : « Il credere in se stessi è la caratteristica più comune degli imbecilli ».
L'amico, il cui naso s'era allungato più d'un palmo, obiettò, lasciandosi cadere le braccia : « Ma allora, se l'uomo non deve credere in sé stesso, mi dici in che cosa dovrà credere? »
Chesterton pensò un poco, poi disse: « Vo a casa a scrivere un libro per rispondere al tuo quesito ».
E, dalla promessa mantenuta, saltò fuori « L'Ortodossia ».
Dunque Orthodoxy, che vuol dimostrare che l'uomo, invece di credere in se stesso, deve credere nel Credo, è, sì, un'apologià del Cattolicismo, ma come (fortunatamente!) più viva, più fresca, più agile, più pugnace, più acuta e più persuasiva delle solite apologie, scritte, di solito, con la proboscide, da certi elefanti ecclesiastici!
Con ciò non si vuol dire (ben inteso) che in questa Ortodossia — uscita, sfavillando, dalla penna d'un sottilissimo dialettico, d'un umorista prestigiatore e d'un poeta magico, quando stava con un piede sulla soglia della Chiesa e con l'altro, già alzato, per entrarvi — tutto sia impeccabilmente ortodosso.
Ortodossi sono, senza dubbio, moltissimi degli innumerevoli paradossi che crepitano, scintillando, lungo la muraglia dell'ortodossia; ma qualcuno, più grosso, e che, per ciò, scoppia più forte, vi produce, talvolta, sebbene inconsapevolmente, qualche crepa o spacco; e tuttavia, neppur lì, la muraglia frana.
Chesterton (per esempio) che si dichiara un seguace del liberalismo infastidito dei liberali, un democratico a tutta oltranza, cristianamente entusiasta del suffragio universale, ma in disaccordo coi democratici, e un ortodosso in religione eterodosso in politica, non esita ad affermare nel capitolo intitolato « La Rivoluzione eterna » (ossia, nel suo concetto, la rivolta cristiana contro le conseguenze [peccati] della Caduta) che Cristo, condannato « dall'autorità costituita » e dagli « aristocratici » (?!), «è l'eterna gloria di tutti i ribelli» (?!).
E qui (cosa inesplicabile, se si pensa al suo squisito buon gusto) par di sentir concionare un cialtrone in cravatta rossa, ritto sopra un tavolino, in mezzo al « popolo sovrano ».
Oppure, nel capitolo seguente (« Il romanzo dell'Ortodossia ») — del resto bellissimo, — dopo aver detto che, nel Getsemani, l'Uomo-Dio, tentato da Dio, ossia da se stesso, « dovè passare sommariamente attraverso il nostro umano errore del pessimismo » e che, poi, dall'alto della Croce, oscurandosi il sole e tremando la terra, confessò, con un grido, che Dio era abbandonato da Dio, così continua : « Ed ora lasciate che i rivoluzionari scelgano un credo fra tutti i credi e un Dio fra tutti gli dèi del mondo... Essi non ne troveranno un altro che sia stato in rivolta anche lui. Anzi (il tema si fa sempre più difficile per esser trattato in termini umani) lasciate che gli atei stessi si scelgano un Dio. Essi non troveranno che una divinità che abbia manifestato il suo isolamento; non troveranno che una religione in cui Dio sia apparso per un istante ateo ».
È chiaro che qui il paradosso, contorto fino all'assurdo, assume le proporzioni d'una bombarda e fa cadere parecchie pietre. Ma, lo ripeto, quando Chesterton scriveva queste cose, sebbene sul limitare della Chiesa, non era ancora, com'è oggi, un membro vivo del corpo mistico di Cristo.
In conclusione, Ortodossia, tardi conosciuta dagli italiani — ma meglio tardi che mai — (pochissimi i lettori del testo inglese, pochi più quelli della traduzione francese, qua è là inesatta, del Grolleau) è un grande, originale, e a volte strano o stranissimo ma sempre profondo libro.
E dunque non facile; e soprattutto non facilmente riassumibile. Malgrado la forma brillante, la cristallina chiarezza e iridescenza delle immagini, e quel continuo caprioleggiamento del pensiero, che sembra un giuoco ed è, invece, un modo bizzarro di procedere a zig-zag, verso o dentro la Verità, è un libro non già oscuro, ma luminosamente laberintico. (L'autore stesso lo chiama « caotico » — e non è —). Eppure, con un filo tra le dita, il cui capo ci viene offerto all'ingresso, possiamo, passando di meraviglia in meraviglia, girarlo tutto ed uscirne più agguerriti contro l'errore, più fiduciosi nella Provvidenza e più tranquilli e sereni, per continuare (fino all'apparizione della piena luce sul limitare della morte) il nostro breve viaggio su questo magico ed enigmatico mondo.
Le altre opere (le novelle poliziesche soprattutto, notissime all'estero e relativamente note, benché tradotte, in Italia) non ci danno, come qui, tutto Chesterton.
« Eretici » (un volume polemico e già filocattolico) aveva preceduto e quasi preparato il terreno per « L'Ortodossia»; poi, dopo «L'Ortodossia» (scritta, come abbiamo visto quando l'autore era, rispetto a ciò che è, mezzo topo e mezzo uccello, sebbene più uccello che topo) apparvero — perfettamente ortodosse, ma non per ciò meno chestertoniane — l'opere del cattolico praticante e militante; e, fra queste, «La Sfera e la Croce » (un romanzo-film di apologetica in azione, che è somma vergogna non conoscere) e quel recente « San Francesco », cui molto nuoce, a mio parere, un'eccessiva acrobazia dialettica intorno al « Concrocifisso », già troppo abbeverato d'inchiostro, dai suoi spietati ammiratori.
Ma « Ortodossia », fino ad oggi, anche con qualche pustola eterodossa, resta, come dicevo, il suo libro massimo e fondamentale. Libro che contiene, in germe, altri venti libri; tanto è ricco di pensieri, intuizioni ed accenni, tutti suscettibili di schiudersi in meravigliosi fiori di meditazioni e di poesia.
E perciò sia qui ringraziato Raffaello Ferruzzi, per avercene data una traduzione ch'è, insieme, fedele al difficilissimo testo e — com'è costume in riva ad Arno — splendidamente italiana.
(1927)

Edited by Fra Roberto Brunelli - 29/7/2017, 16:08
view post Posted: 28/6/2017, 13:45 Redenzione in Anselmo e Lutero - Teologia Fondamentale
LA REDENZIONE DELL'UOMO IN CRISTO NELLA TEOLOGIA MEDIEVALE

8.1 Anselmo di Aosta/Canterbury
Sulla dottrina soteriologica di Anselmo di Aosta, vescovo di Canterbury, in questi ultimi anni sono intervenuti diversi teologi, alcuni per criticarla e renderla responsabile di una distorsione giuridistica della profonda visione religiosa personalistica e dialogica presente nel Nuovo Testamento; altri per difenderla da tali accuse; altri, infine, per ricollocarla nel suo contesto storico e individuarne le vere intenzioni, i limiti, ma-anche la profonda portata teologica e antropologica ritenuta valida anche per il presente.

Più di un autore titola: la «teoria anselmiana» della redenzione. Tale linguaggio non è deviante? Tutto dipende da cosa si intenda per «teoria». È un fatto che Anselmo stesso parla della sua proposta teologica come di «una teoria che credo plausibile»2. Si potrebbe pensare senza dubbio a una costruzione teologica astratta, «logica», senza aggancio alla realtà della fede e al suo annuncio, frutto di pura elaborazione razionale. Ma non è così. Il motivo che spinge Anselmo alla sua elaborazione della redenzione è profondamente pastorale, più precisamente «apologetico», perché nella sua opera Cur Deus homo, ove la espone in modo sistematico, intende resgmgere le obiezioni di irrazionalità e assurdità che gli in-fedeli (giudei e musulmani) avanzano contro l'annuncio cristiano di Cristefrédentore, specialmente con la seguente formulazione: « Come si potrà provare giusto e ragionevole che Dio tratti, o per- 'f metta che venga trattato, così quell'uomo che il Padre chiamò Figlio diletto... e che il Figlio identificò con se stesso? ChegiustiziaJ condannare a morte il più giusto degli uomini in luogodel peccatore? Quale uomo non sarebbe giudicato colpevole, qualora condannasse un giusto per liberare un reo?»3. Come osserva giustamente . C. I. Gonzàlez, Anselmo intende difendere l'annuncio di fede da obiezioni che gli attribuiscono simili assurdità e che egli ovviamente non fa proprie4: su tale sfondo va valutato il suo tentativo.
La posizione anselmiana perciò va presa come elaborazione teologica che ha aggancio all'esperienza di fede, ma concede, molto alle esigenze della « razionalità » e, precisamente, di una razionalità culturalmente situata, in concreto quella della società medievale feudale. Bisogna aggiungere che Anselmo stesso è pienamente consapevole della relatività dei suoi ragionamenti. Tuttavia, è convinto che la fede non può lasciar correre le obiezioni dei «razionalisti», che, proprio in base al lume della ragione, muovono le loro critiche al cristianesimo e principalmente al suo nucleo: l'incarnazione e la croce del Figlio di Dio redentore; di queste, che accetta come dati di fatto per fede, vuole mostrare la «necessità» con un puro ragionamento3. Per questo parte dalla verità cristiana annunciata dalla Chiesa; poi si pone sul piano dell'argomentazione razionale per mostrare che la verità della fede sulla redenzione avvenuta attraverso l'incarnazione e la croce di Cristo è «ragionevole»6. È un'applicazione del compito della teologia che, secondo il vescovo di Canterbury, è fede che ricerca l'intelligenza. In che cosa consiste allora per Anselmo la dottrina cristiana della redenzione dell'uomo per mezzo di Gesù Cristo?
La necessità dell'intervento salvifico di Dio in Cristo a favore dell'uomo Anselmo la vede radicata nel peccato dell'umanità, più esattamente nel peccato di Adamojn guantojjeccaiaper-(jLtJ>£ sonale, a causa del quale, tuttavia, ai suoi discendenti ^trasmessa la_ «privazione, della, giuslizia^originale », quindi la «privazione defljjjrazia » che pone questi ultimi in stato di inimicizia "cog Dio e oTmorte spirituale e corporale. Anselmo dilata ifsùo sguar-doe include il cosmo in tale caduta. Col peccato l'uomo ha introdotto disordine e morte nel mondo di Dio, ha dissestato se stesso e l'orarne cosmico che poggia su Dio creatore, disonorando la creazione e quindi il suo Creatore7.
Nonostante tale disordine e una simile situazione di morte, r.ujr^jiià_iesta.dejlinj;ta^.ajk^beatitudine eterna_con il suo mondo: non è proprio «conveniente» alla sapienza e alla bontà di Dio lasciar^diejja.più.eccellente delle sue creature si perda con il cosmo intero8. Affinchè ciò non avvenga, si..richiede il perdono deffa colpa e la restituzione dell'ordine violato con il peccato mediante una riparazione di onore che sia una vera « soddisfazione» per l'offesa recata a Dio creatore9. Non è da pensare, infatti, cheDio_perdqni all'umanità con un atto di pura misericordia; inluivi sono anche le esigenze della giustizia «vendicativa», che non brama vendetta, ma è «vindice» del_giusto oromeò dell'ordine della giustizia che deve regnare tra Dio creatore e l'uomo sua creatura10. Il problema allora è chiarire come dovrebbe configurarsi una simile riparazione «soddisfatto-ria». Essa dovrebbe essere gratuita o supererogatoria, ossia non dovuta a Dio per altri motivi11; dovrebbe poi essere di valore infinito, data la dignità infinita di Dio, il cui onore e il cui ordì ne sono stati violati da Adamo e da tutti i suoi discendenti12. Org l'umanità, lasciata a se stessa, non è in grado di offrire a Dio una simile riparazione per il peccato e quindi si trova in una situazione di impotenza disperata. Per questo, per la reintegrazione dell'uomo e del suo mondo in un rapporto vitale, di salvezza con Dio, non èjiensabile. altra via che uà intervento redentore di Dio stesso.
A questo punto Anselmo apre il discorso sull'incarnazione di Dio, sul motivo del «Dio fatto uomo», dell'unione di Dio e dell'uomo nella persona del Figlio stesso di Dio, unione che, come si evince chiaramente dal contesto, ha una valenzlì fondamentalmente redentrice. L'incarnazione, tuttavia, da sola non ba-jtg; e in questo senso il titolo che Anselmo ha dato al dialogo non è in grado di far trasparire chiaramente la logica teologica del suo contenuto. L'incarnazione è la condizione basilare della possibilità di una vera, « satisf attoria » riparazione del peccato e del disordine a esso connesso, ma non sufficiente, perché anche il Figlio fatto uomo nel vivere la sua vita umana in quanto creatura deve al Padre obbedienza e onore e quindi non può compiere un'opera supererogatoria a favore dell'umanità lontana da Dio. Ma Anselmo aggiunge: Gesù, il Figlio di Dio fatto uomo, in quanto uomo giusto, senza_p_eccato, non era soggetto alla necessità della, morte, connessa al peccato nella storia delTùmanità13; perciò, avendola volontariamente accettata in obbedienza di amore al Padre, prestò a Dio quelTàttò'3Tomag-
gio, quel gesto di onore supererogatorio, di valore infinito, i cui vi era bisogno perché l'umanità e tutto il mondo fossero reintegrati in un rapporto vitale con Dio14. La_£gdenzione dell'uomo, allora, per Anselmo ha luogo nel volontario dono dysé a Dio fatto da Gesù, Figlio di Dio incarnato, nellajnorte perTu-manità lontana. da lui. Nella datio vìtae (dono della vita) e nel-l'acceptatiomortis (accettazione dellalnorfe) del Figlio di Dio fatto uomo ha avutojuogo la redenzione1'. Esse hanno valore salvifico, redentivo, perché in e per loro si verifica la satisfactio cum iustitia, ovvero la .restituzione «giusta^» di onore a Dio offeso per il peccato e perudisordine a essoconnesso. Nella libera accettazione della morte da parte del Dio-Uomo si da una «restituzione» e quindi un «merito» che «soddis£a» le esigenze della «giustizia di Dio». Con la sua morte Gesù ha riaperto agli uomini i ^torrenti della grazia divina. Tuttavia il Risorto e ló^pirito Santo quale suo dono per Fattiva remissione del peccato sono fuori della prospettiva soteriologica anselmiana. La redenzione è avvenuta nell' obbedienza di amore e nel gesto di omaggio di Gesù Cristo HièU^riorte! Dopo tale «opera reden-trice» posta dal Cristo crocifisso, Dio fa affluire di nuovo le ricchezze del suo perdono e della sua grazia nella direzione dell'uomo.
Non sarebbe esatto pensare che Anselmo veda la morte di Gesù solo nella prospettiva della satisfactio. Per lui essa ha diversi altri aspetti e dimensioni: è merito che Gesù si è acquistato davanti a Dio per sé e per i suoi fratelli; è prezzo di riscatto offerto a Dio per i figli di Adamo votati alla morte; è sacrificio offerto a Dio. Ma tutte queste dimensioni sono colte e valorizzate nella prospettiva predominante della satisfactio, che però * diventa efficace negli uomini se con la fede.entrano neljjatto '1 dì amore Veli onore' ristabilito tra Dio e Gesù crocirTs'so16. \
TU tèrmine di questa~ésposizione della visione anselmiana facciamo alcune considerazioni: il vescovo di Canterbury incorpora nella sua visione teologica diversi elementi della teologia e della sensibilità spirituale cristiana latino-occidentale, ordinandoli in una «teoria» ben strutturata, che deve essere considerata sostanzialmente una risposta alla domanda: cosa può dire la «ragione» della «follia della croce»? È ovvio ch'J tale «ragio-ne» non è una ragione astratta, ma l'autocomprensione dell'uomo propria del contesto culturale di Anselmo, vale a dire della sp-cietà feudale verticistica, le cui strutturazioni sociali e i cui relativi codici di comportamento si riverberano nella riflessione teologica.
i Al di là di luoghi comuni, bisogna dire però che Anselmo con Ile sue argomentazioni non imprigiona la trascendenza dell'azione ^divina entro gli schemi della ragione umana. L'iniziativa della salvezza è^di Dio e della sua grazia; la sua riflessione mira solo a mostrare la «ragionevolezza» dello scandalo della croce. La sua insistenza sulla giustizia divina, poi, va vista nel più ampio ,. contesto dell^mgj^e^Di^yersgJa^^a^reatura, un amore che intende coinvolgere attivamente e personalmente quest'ultima (ovviamente in e per Gesù uomo tutti gli altri uomini sono chiamati ^conformarsi a lui nel suo dono al Padre nella libertà) nel cammino che la riporta insieme con il suo mondo a un rapporto ordinato con il Creatore, garanzia dell'autenticità della sua vi- „, . ta. Nel dialogo preso in esame Anselmo fa dire a Cristo: «^! T'UKXJU / uomo:> prendi me e libera te»17. Gesù Cristo come grazia di e Dio donata dall'alto perché l'umanità si rimetta in rapporto ordinato con Dio e così lo onori e viva, compiendo con la sua attiva partecipazione il suo cammino di liberazione: ecco cosa significa per Anselmo la satisfactio come redenzione dell'uomo in Cristo per via di divino amore giusto e di divina giustizia di aipiore. La sostanza della visione anselmiana è sommamente religiosa ed etica18. Certo, il rivestimento giuridico ne appesan-tisce l'insieme dell'esposizione e forse è stato proprio esso che, fornendo «armoniosità» e «razionalità» all'insieme della dottrina, ha fatto sì che essa da una parte sia stata e sia ancora squalificata da diversi teologi come «giuridistica» e dall'altra abbia «retto per lungo tempo e abbia costituito la trama di tutte le spiegazioni scolastiche della redenzione»19 sino a qualche decennio fa.

8.2 Tommaso d'Aquino
II Dottore Angelico presenta una cristologia fondamentalmente soteriologica, una cristologia redentrice, perché per lui il fine dell'incarnazione del Figlio di Dio è la redenzione dell'uomo dal peccato originale e da quelli personali nonché dalle loro conseguenze nella vita del singolo e dell'umanità intera20.
8.2.1 Gesù redentore nei suoi misteri salvifici
Nel riflettere sul Salvatore, Tommaso parte dal dato di fede di Cristo quale Verbo incarnato. Nel suo percorso di riflessione per lo più procede in questo modo21: prima s^preoccupa di illuminare la conyenientia (congruenza) datale iniziativa divina
conja bontà di Dio e con il bene delljjomo22; successivamente si deiaìca ad approfondire il mistero dell'essere di Cristo:.na-tura divina e natura umana, loro unità nella persona del Figlio ctilJio, conseguenze di tale unionejper l'essere e l'operare della natura umana quale « strumento congiunto » (instrumentum có-niunctum) con il quale il Figlio deve operare la salvezza dell'uomo: è il momento della riflessione specificamente cristologica che ha l'evidente scopo di mettere in chiaro la profonda, divina identità di colui che è il Salvatore; infine dedica la sua attenzione alla portata salvifica di ciò che Gesù ha operato e patito (acta et passa Jesu) per la salvezza dell'uomo. A questo punto inizia la riflessione propriamente soteriologica. La precedenza riservata al momento cristologico non ha solo una motivazione metodologica e una spiegazione di carattere storico, ma anche e principalmente una ragione dottrinale, di cui il Dottore Angelico è profondamente convinto: egli vuole prima ben identificare il Salvatore e poi mettere in luce quanto egli ha operato e sofferto per la salvezza degli uomini; la dignità e l'eminenza della persona garantiscono l'eminenza eia profondità del suo operare a beneficio dell'umanità23.
La sua visione più chiara della redenzione si trova nelle questioni 27-59 della terza parte del suo capolavoro teologico, la Summa theologiae. A essa l'Aquinate approdò gradualmente, maturando idee e convinzioni di gioventù, depositate in particolare nel terzo libro del Commento alle Sentenze di Pietro Lombardo2^. Nel suo scritto più significativo, troviamo in forma più sviluppata che nelle altre opere i seguenti contenuti soteriolo-gici: Gesù è salvatore dell'uomo nell'inteeral^à-del suo miste.-^ ro; eventi che hanno operato fa salvezza dell'uomo sono l'unione del Figlio di Dio conja natura umana nel seno di Maria, con la quale la natura umana e assunta come «organo congiunto^» delia divinità per la salvezza dell'uomo, Ta sua nascita in questo mondo e la sua morte riparatrice, ma anche tutta la sua vita storica (i misteri di Cristo), la sua passione/morte25, la sua risurrezione26, la sua ascensione27 e il suo ritorno escatologico28. A tutti questi misteri come «azioni» (acta) e «passioni» (passa) del Verbo incarnato Tommaso attribuisce cau-saJità salvifica esemplare ed (effigiente, a quelli terreni sino alla morte compresa anche causafeà^morale29. Così per lui l'intero realizzarsi storico del Verbo incarnato ha avuto e continua ad avere una portata salvifica, perché la sua umanità fu e resta lo « strumento congiunto » (instrumentum coniunctum) con il quale il Figlio di Dio operò e opera ancora nella Chiesa e nel mondo la salvezza30.

8.2.2 La passione come l'evento salvifico per eccellenza
Ciò detto, però, non si può fare a meno di rilevare che anche per il Dottore Angelico, come in genere per i teologi occidentali, la passione/morte di Gesù costituisce l'evento della redenzione per eccellenza, che ovviamente non va isolato dagli altri. Ciò appare dall'insistenza con la quale nelle sue opere connette la salvezza alla forza (vis) di essa; in particolare, in un articolo della Summa theologiae, che porta questa titolazione significativa: «SeJ sacramenti della nuova legge [praticamente gli strumenti e i momenti di grazia della vita redenta] ricevano la loro forza (virtus) dalla passione di Cristo»31. Tommaso, pur tenendo presente che tutto l'evento Cristo è strumento di grazia e pur richiamando esplicitamente la portata salvifica della risurrezione, indica nella passione/'evento dal quale in particolar modo (speciali quodam modo/ scaturisce la forza che rimette i peccati dell'uomo (virtus remissiva peccatorum}*2. Quindi si deve dire che, pur se per l'Angelico l'intero evento Cristo è stato ed è redentore, la passione possiede uno spessore soteriologico, una ricchezza di contenuti teologici e una portata per la vita spirituale cristiana quale vita redenta singolari.
8.3 Bonaventura da Bagnoregio
Richiamiamo gli elementi fondamentali della concezione di Bonaventura da Bagnoregio sulla redenzione dell'uomo (e, aggiungiamo, del mondo, perché egli lo inserisce con insistenza nella dinamica della salvezza, molto più decisamente di Tommaso e degli altri teologi latini)33. Il Dottore Serafico ha un'ampia visione soteriologica e cristologica34. Pur avendo optato per la tesi che vede nella redenzione del peccato il motivo principale (ratto praecipua) dell'incarnazione del Verbo35, con il -no pensiero e il suo cuore guarda sempre ai n^'ùo ^ Lhu incarnato come al centro e al fine di tutta la storia della salvezza, dalla prima alla seconda creazione36. Tale Cristo, tuttavia, è "i principalmente il Cristo crocifisso, espressione^massima dell'a-; • „' e dell'umiltà di Dio verso l'uomo e della risjpl)stà~dTarno-re che l'uomo è chiamato a dare all'amore di Dio e che hia avu-m T' icesco di Assidi povero, umile, stigmatizzato la concretizzazione più alta37. Sarebbe comunque errato ridurre la figura del Cristo salvatore bonaventuriano al Crocifisso, benché il Dottore Serafico affermi che nella Croce si ha la rivelazione di ogni cosa38. Per lui tutta_la_yita di Gesù, letta nel segno della testimonianza dell'amore povero e umile di Dio per l'uomo, ha_ valore esemplare e salvifico. Questo tipo di lettura del mistero dTCrìsto ejrierge in particolare nelle sue opere ultime, nei suoi cosiddetti Opuscoli mistici^, ove ridonda la sua contemplazione devota dell'amore di Dio che nel Figlio nato povero, vissuto povero e mqrto_nudo e crocifisso ha rivelato e offerto agli uomini il documgnj;Q_più sincero della sua volontà di salvezza e li stimola a intraprendere un iter di conversione nel quale con generosità e impegno devono staccarsi da quanto può distrarli da Dio, lasciarsi afferrare dal suo amore e corrispondere a esso con una redamatio affettiva che tende a sfociare nei one mistica con il Crocifisso e quindi in e per lui con Dio (Padre, la 'irihità)4u. jf
II Dottore Serafico, tuttavia, non ha solo una visione mistica della salvezza dell'uomo in Cristo. Ha anche profondi elementi teologici, in particolare nel terzo libro del suo Commento alle Sentenze e nella sua piccola somma teologica, intitolata Bre-viloquium*1. Nelle sue posizioni42 Bonayentura, come Tomma-so, esalta la sovranità della libertà di Dio e superaci! pericolo insito nella posizione anselmiana di vedere nellamorte del Figlio come satisfactio l'unica via aperta a Dio per la salvezza delTuomo43. Tuttavia, a differenza dell'Angelico, che nella croce di Cristo vede l'espressione massima della carità di Dio e di Cristo44, il Serafico da francescano legge e contempla nel Crocifisso rumiltà, la povertà, la nudità dell'amore divine ""' ~ ' posizioni'teologiche di Tommaso e Bonaventura, pur se correttive nei riguardi di quella anselmiana, di fatto non si pongono al di fuori della sua impostazione e anche nella teologia successiva l'ottica del vescovo di Canterbury rimane la cornice entro la quale si muove la teologia, sia cattolica che protestante.
44 Quella di Tommaso è l'ottica della carità di Dio e di Cristo per noi, che si manifesta in modo sommo nella passione del Figlio di Dio: cfr. Summa tbeologiae, p. Ili, q- 46,3.
45 Contemplando l'amore di Dio e di Cristo rivelatosi nella croce, scrive il Dottore Serafico: «Christus... volens tamen summae paupertatis nuditate vitam concludere, nudus elegit in cruce pendere»: Apol. paup., 7,13; VIII,276. Commentando la «dipartita» (excessus) di Gesù a Gerusalemme sulla croce, Bonaventura afferma: «Excessus recte nominai passionem, quia in ea fuit excessus humilitatis... fuit etiam excessus paupertatis... fuit excessus doloris... fuit etiam excessus amoris... Istum excessum com-plevit in Jerusalem, ubi crucifixus est, in quo fuit consummatio nostrae redemptionis »: Com. Lue, e. 9, n. 54; Vili,234. La realizzazione piena e definitiva dell'opera reden-trice di Cristo per l'uomo fu la passione quale segno supremo dell'amore, ma di un amore dolente, umile, povero: in ciò l'anima francescana della teologia bonaventuriana si rivela nella sua forma più chiara.
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GESÙ CRISTO REDENTORE
NELL'ESPERIENZA E NEL PENSIERO
DI LUTERÒ E CALVINO
L'esperienza e il pensiero di Martin Luterò sulla redenzione possono essere considerati la sostanza della prospettiva soterio-logica del movimento della Riforma del secolo XVI; per questo ci limiteremo all'esposizione di essi, aggiungendo alcuni dati della visione soteriologica di Giovanni C alvino.
L'esperienza di Cristo redentore e salvatore fatta e comunicata da un pensatore quale Martin Luterò ha una grande importanza non solo per la confessione cristiana che a lui risale o per la Riforma in genere, ma anche per l'intera cristianità. Al di là di posizioni dottrinali da lui sostenute, che non tutti i cristiani si sentono di condividere e di fare proprie, sta il fatto che egli ha sperimentato con profondità la salvezza che Cristo offre all'uomo e ha espresso tale esperienza nella sua teologia in modo egregio.
La figura e l'opera di Luterò vanno collocate nel loro contesto storico. La sensibilità culturale occidentale, al suo tempo, si era ormai avviata per il sentiero di una visione antropocentrica della realtà che comportava tendenzialmente l'emarginazione di Dio e l'esclusione di qualsiasi riferimento a lui nonché la perdita del senso del peccato e l'estinzione del bisogno di una redenzione divina. La_teologia ufficiale dell'epoca, d'altra parte, si era fossilizzata in formule che, pur essendo ortodosse, non riuscivano a esprimere un contenuto reale e vivo di esperienza di fede1. In questo contesto culturale e teologico uomini assetati di Dio e animati da una forte tensione spirituale si accosta-rono_a Cristo per fare un'esperienza personale di lui quale salvatore e da tale esperienza trassero forza e luce per rivedere la loro vita, il loro pensiero e la loro testimonianza, in modo da porre un argine alla montante marea culturale anticristiana o acristiana2 e ridare vitalità alla comunità e al pensiero cristiani incentrati in Gesù Cristo3. Su questo sfondo storico, culturale ed ecclesiale-teologico mettiamo in evidenza gli elementi fondamentali dell'esperienza e della riflessione teologica di Luterò sulla funzione salvifica di Gesù Cristo.
9.1 Martin Luterò: la riscoperta di Cristo salvatore
M. Luterò costruisce la sua teologia su due pilastri: la Sacra Scrittura e la sua vicenda personale4. La sua esperienza fòncla-mentaie^ chiave dì lettura della sua teologia, è pervasa sin dall'inizio e sostanzialmente per tutta la vita da un profondo senso di oppressione sotto il peso della tentazione (AnfechtungP e del peccato e dall'ardente desiderio nonché dall'impellente bisogno di trovare un «Dio misericordioso», un Dio redgrr|ore e salvatore6. Il problema della redenzione e della salvezza è il dato centrale della sua vita di cristiano e di teologo. Proprio l'intimo bisogno della salvezza lo porta ad avvertire sin dai primi anni dei suoi studi il fastidio per la filosofia e per la teologia scolastiche del tempo e a desiderare una conoscenza viva di Gesù Cristo redentore e salvatore.
9.1.1 Gesù Cristo riconciliatore e redentore1
Tra gli studiosi del pensiero di Luterò c'è un largo consenso nel ritenere che per il Riformatore l'opera, salvifica di Cristo sia riconciliazione e redenzione e, delle due dimensioni, la riconciliazione sia la_prima e la più importante8. «La riconcilia-zione^è riferita alla collera di Dio contro il peccato dell'uomo; la redenzione è riferita alle "potenze", di cui la collera divina si serve come di strumenti: legge, peccato, morte, diavolo. In quanto riconqliatore Cristo ha a chfi faye con Dio, opera nella" direzione di Dio; in qualità di redentore operanelTuomo. La riconciliazione per L\atero~:e~t^R>na£!mento della redenzione e per questo, quale decisivo pensiero teologico in lui, sta in primo piano»9.
L'ojjera salvifica di Cristo, come detto riconciliazione e redenzione, si fon^a sulla dignità della persona divina di Cristo; per questo Luterò accoglie la cristologia di Calcedonia delle due nature unite nella persona del figlio, ma ne mette sempre in rilievo la portata salvifica. Gesù Cristo, vero Dio e vero uomo, vero Dio per il quale il mondo è stato fatto e vero uomo nato

da Maria, è il riconciliatore che rappresenta tutti gli uomini davanti, a Dio e ha prestato soddisfazione al Padre, stornando la sua collera contro di loro e rendendolo favorevole nei loro confronti10. Ciò è avvenuto in quanto solo egli, collocandosi tra i peccatori e facendosi carico dei loro peccati ma rimanendo completamente puro, senza peccato e sempre unito a Dio, ha osservato in pieno la legge divina e infranto la maledizione di essa, portandola su di sé in tutta la sua serietà: dolori fisici, sofferenze morali, tentazione riguardo alla propria predestinazione, collera di Dio, senso di condanna e di riprovazione eterna11. Attraverso questa prestazione a beneficio degli uomini egli ha placato la collera divina, ha soddisfatto alla sua giustizia e ha guadagnato la salvezza per gli uomini che aderiscono a lui con fede12. L'opera riconciliatrice di Cristo da Luterò è espressa con diversi termini: placatìo, reconciliatio ecc. e Cristo per essa è denominato mediator, propitiator, liberator, redemptor, salvator.
Va osservato che per il Riformatore l'iniziativa della riconciliazione «satisf attoria» ha alla_ radice ramorecTi Dio e ^mitigazione della collera divina da parte di Cristo non e conseguen-za-TTeira~prlelstazione di lui, ma iniziativa di Dio_ stesso13. Il pas-saggio_dalla collera alla misericordia ha il suo primo momento in Dio stèsso; fl Cristo lo ha reso efficace sul piano storico con la sua prestazione «satisfattoria» per l'uomo a nome del Padre e lo rende sempre presente e operante con la sua intercessione eterna di Sommo Sacerdote14.
Qui si vede quanto Luterò debba ad Anselmo, ma anche in
quale misura si distanzi da lui: l'idea .della satisfactio è comune; ma jiel vescovo di Canterbury è preponderante la preoccupa-zione di illustrare la realizzazione della salvezza «oggettiya» e di mettere in chiaro le condizioni necessarie per la costituzione dell'evento salvifico, che si compie fondamentalmente nella morte di Cristo; nel Riformatore, invece, prevale la preoccupazione di mettere in risalto le condizioni affincKe' l'evento salvifico Gesù Cristo diventi salvezza per me^; egli poi ha cura di..sottolineare che la concretizzazione del per me viene operata dal Cristo Sommo Sacerdote celeste nel corso del tempo16; questa .' visione implica unà'valorizzazipne chiara della risurrezione di Cristo quale evento.^salvifico, di fatto da Luterò strettamente connesso alla sua morte nonché visto come momento in cui trova compimento la funzione riconciliatrice di Gesù e grazie al quale Cristo, in definitiva, redime l'uomo dal peccato17.
Sebbene subordinata alla riconciliazione, la redenzione costituisce l'altra dimensione dell'opera di Cristo a favore dell'uomo. Per comprendere la posizione di Luterò al riguardo, bisogna individuare le potenze schiavizzanti dalle quali Cristo redime l'uomo. Il Riformatore, come Paolo, tende a personificarle
con un linguaggio spesso di sapore mitologico e dal tono drammatico. Le «potenze» da cui Cristo libera l'uomo sono il pecca-to, la legge, la morte, il diavolo, nemico sul quale insiste molto più dell'Apostolo. Data la visione fortemente agonica della vita cristiana, Luterò dipinge con colori drammatici il cammino di redenzione dell'uomo. Iljjeccato è il primo nemico. Cristo
10 havinto radicalmente con la sua giustizia e obbedienza18 e porerTè è stato costituito «giustizia» per gli altri, può liberarli da tale potenza asservante. Lajegge, altro nemico dell'uomo, è stata vinta da Cristo in quanto ne ha messo in pratica tutti i precetti; per questa sua vittoria egli ha cancellato il giudi-zio di condanna che pendeva sull'uomo e ha liberato quest'ultimo per un'osservanza dei comandamenti divini in libertà e letizia19. La morte è stata ingoiata dalla risurrezione di Cristo;
11 diavolo e Finterno sono stati da lui sconfitti in quanto è rimasto fermo nell'amore di Dio. E il Cristo Re che trionfa di questi mali e nel corso del tempo dona all'uomo di riportare vittoria su di essi: «Attraverso la sua signoria e la sua guida quale pastore ci protegge da ogni male in tutte le cose, e,attraversa if suo sacerdozio ci protegge da tutti i peccati e dalla collera di. Dio, intercede per noi e offre se stesso perjriconciliare Dic>>>20. Cristo ha operato la redenzione non solo una volta per sempre i in un dato momento storico, ma la^opera anche ora, come Ri- '• sorto. Re e Sacerdote, dando all'uomo la possibilità di trionfa- ' re delle potenze che alienano e asserviscono la sua esistenza.
Sintetizzando, possiamo dire: per Luterò, Gesù Cristo riconcilia gli uomini con Dio e li redime dal peccato, dalla morte e
dal diavolo come anche dalla potenza mortifera della legge quale strumento della collera divina indirizzata contro il peccato;
» in questa missione salvifica egli.è la manifestazione dell'amore diJDio nei nostri confronti, è il nostro riconciliatore e il nostro mediatore, intercessore, sacerdote e salvatore. Il Riformatore riassume tutti questi predjcatì-n«|la sua visione del duplice ufficio di Cristo d£ Re e, Sacerdote,)
A quali condizioni la sua azióne può diventare efficace nella vita dell'uomo? Qui tocchiamo l'aspetto più personale e più originale della visione luterana della redenzione in Cristo. Luterò
, afferma: è con la fede fiduciale (fides apprehensiva) che l'evento redentore «Gesù Cristo in sé» (Christus extra nos) diventa il «Cristo in noi» (Christus in nobis) che opera la salvezza. È il momento del progne della redenzione, caratteristico della riflessione teologica luterana, anzi di tutta la Riforma.
9.1.2 La salvezza di Cristo sperimentata nel «prò me» della fede fiduciale
Prima di tutto, riportiamo alcune affermazioni significative di Luterò: «Npn_gioya a nulla credere che Cristo è stato consegna-to_per i peccati di altri santi mettendo in dubbio che egli sia stato consegnato per i tuoi peccati... No, devi accettare in tutta fiducia il fatto che egli è stato consegnato anche per i tuoi peccati. e che tu sei uno di quelli per i cui peccati è stato consegnato. Questa fede ti giustifica e permette a Cristo di abitare, di vivere e di regnare in te»21. «Non ha dato una pecora, o un bue, o oro o argento per me. Ma chi era completamente Dio, ha dato tutto quello che era, ha dato se stesso per me — per me, dico, un povero e maledetto peccatore. Sono risuscitato per questo dono del Figlio di Dio, che si consegnò alla morte, e ora lo applico a me stesso. Questa applicazione è il vero potere della fede»22. «La vera fede dice: Credo fermamente che il Figlio di Dio abbia sofferto e sia risorto, ma tutto questo lo_ha_fatjx^per; me, per i miei peccati; di questo sono certo»23. La retta fede è «quella che rende Cristo efficace in noi contro la morte, il peccato e la legge»24. «In quanto
il Cristo... per mezzo della sua grazia regna nei cuori dei fedeli, non si da nessun peccato, morte, maledizione. Ove in verità Cristo non è conosciuto, restano queste cose. Per questo sono privi di tale beneficio e vittoria tutti coloro che non credono. Giovan-ni dice che la nostra vittoria è la fede»25. "C '"
L'insieme di questi passi luterani, e sono solo alcuni dei tantissimi presenti in tutte le opere di Luterò26, dice una cosa fondamentale del suo pensiero teologico: la riconciliazione con Dio e la redenzione dalle potenze che assoggettano l'uomo realizzate da Cristo non sono veramente realtà concrete ed efficaci fin tanto che non siano diventate realtà operanti nel soggetto umano mediante la sua fede, che è fiducia incondizionata e certa che tali benefici valgono per lui, sono per lui. Luterò accentua talmente W i\prerme e il conseguente in me del dato salvifico da dare l'impres- I sione di non attribuire sufficiente consistenza all'opera redentrice/J di Cristo in sé. Si tratta ovviamente di semplice impressione. Gli | studiosi del suo pensiero hanno considerato con cura questa « appropriazione soggettiva» della riconciliazione e della salvezza da lui richiamata con insistenza. Le conclusioni delle loro ricerche dicono che il Riformatorejionngga affatto lo spessore oggettivo (extra me) dell'opera di salvezza di Cristo. Anzi, si deve dire che quella che raccomanda è una fede che ritiene per vere verità cri-st'ològiche oggettive27; tuttavia la_connette così strettamente ali'«appropriazione soggettiva» da parte del credente, che sarebbe un'astrazione considerarla separata, come semplice «in sé»28.
Questa «appropriazione», «identificazione personale» e comunione con Cristo, dall'accentuata coloritura mistica29, ha luogo per la fede quale opera dello Spirito Santo nell'uomo che fa di Gesù Cristo redentore il principio vitale, la fonte della sua vita redenta. Nell'essere di Cristo in noi, oppure nel nostro essere presso di lui grazie alla fede personale insostituibile30, ha luogo per Luterò quel meraviglioso scambio (admirabile commer-ciumlwunderbarlicher Wechsel) nel quale l'uomo fa esperienza della potenza redentrice e salvifica di Cristo31.
In tale scambio, che da Luterò è visto come un'immanenza reciproca di Cristo e dell'uomo credente, Cristo comunica al-ruorno i suoi doni e l'uomo deposita in Cristo il suo peccato; Cristo fa suo e annienta tale peccato e l'uomo fa sua la giustizia di Cristo ed è salvato.
In tal modo Luterò sperimenta e testimonia agli uomini la redenzione portata da Cristo. Tuttavia, non va dimenticata una caratteristica fondamentale di tale esperienza: la viva coscienza della frammentarietà, DgrziaHtà, limitatezza della redenzio-ne dell'uomo in questo mondo; la piena, e per lui solà"« era», liberazione dell'uomo, si avrà nejjmQndo_escatologico. In_cjjieJ.-lo presente, essa è sempre frammista al peccato, che resta nella vita del credente e deve essere quotidianamente rimesso, « coperto» da Dio/Cristo e anche continuamente «assoggettato» (re-gnatum) con il dono dello Spirito32.
La redenzione è in cammino, in divenire33. Unito a Cristo, il credente combatte la sua battaglia contro le potenze avverse a Cristo e a sé. Con la sua fede deve costantemente aderire a lui, affinchè la vittoria di Cristo Redentore e Signore sia anche la sua vittoria ed egli pregusti già ora, benché in forma limitata, quella piena sconfitta dei nemici che avrà luogo con la piena realizzazione del regno di Cristo e della redenzione dell'uomo e del mondo in lui e per lui alla fine dei tempi34.
Questo inizio e cammino di redenzione, reale pur se limitato, è, però, esperienza che il soggetto credente fa solo nella sua interiorità, nella sfera intima della sua vita, oppure riguard,a ,anche il pia; io storico, sociale e politico? E lo spinoso e controverso problema" ctèlla posizione luterana su una componente fondamentale della salvezza cristiana. Per lo più gli studiosi sostengono che il Riformatore, per formazione teologico-spirituale (orientamento agostiniano), per esperienza personale anteriore (vita monastica) e a motivo della sua tesi teologica centrale della giustificazione dell'uomo davanti a Dio per la sola fede fiduciale come atto spirituale intcriore, cui tuttavia devono far seguito le opere35, tende a collocare l'esperienza della salvezza in Cristo nella sfera intcriore individuale dell'uomo; la sua iasistenza sulle opere che devono far seguito alla fede, e quindi manifestarla, certamente gli impedisce di chiudersi nella sfera dell'«interiorità», ma l'«esteriorità» delle opere non è connessa essenzialmente all'«in-teriorità» della fede e le opere non sono colte e valorizzate nella loro insopprimibile dimensione socio-politica. La dottrina luterana dei «due_ regni» o, meglio, dei «due regimi» (vita cri-stiana e vita civile, Chiesa e autorità politica) di cui il cristiano fa parte, considerati chiaramente separati e fondati su principi, norme e comportamenti diversi e in buona parte addirittura opposti36, ha reso problematica l'estensione della redenzione di Cristo da parte del cristiano alla compagine sociale e politica, di cui pure fa parte; questo orientamento il Riformatore lo ha lasciato in eredità al luteranesimo.
9.2 La redenzione in Cristo in Giovanni Calvino
La soteriologia di Calvino37 è ricca di motivi; tuttavia si muove entro il modello anselmiamo della satisfactio e sottolinea in particolare la figura di Cristo mediatore^ II riformatore di Ginevra dipinge un quadro_fosco dell'uomo sotto il peccato: in lui non è rimasto quasi nulla cfél bene che Dio Creatore vi aveva jmmesso. Gesù si offrì al Padre per tale uomo, soffrendo i più atroci dolori, i tormenti stessi dei dannati; non assunse tuttavia, come diceva Luterò, i peccati stessi degli uomini, perché rimase sempre il Santo; essi gli furono solo imputati, come d'altra parte agli uomini viene imputata la sua giustizia, che però deve diventare realtà in loro. Gesù Cristo ha principalmente l'ufficio di mediatore tra Dio e gli uomini peccatori, che si ramifica in tre funzioni (munera): sacerdotale, regale, profetica. Egli fu
mediatore già in terra, ma cojitinua a esserlo in cielo. La salvézza dell'uomo è realtà che si'ventica già ora nell'unione vitale di Cristo con i credenti: in essa questi, aderendo vitalmente a Cristo che è «fuori di noi» (extra nos), vivono inTuì (extra se). SnFatta~Ui un inserimento dell'uomo irTClTsto per la fede a opera dello Spirito Santo. Calvino sottolinea continuamente questa funzione dello Spirito: «Lo Spirito Santo è per così dire la~l ^*>&t^<!, fascia con la quale il Figlio di Dio ci_unisce efficacemente a I ^^sc' . f sT»3"8. Nello Spirito, tra Cristo e il credente, ha luogo urvunio- -i '
ne mistica, che Calvino qualifica come «comunione vera e sostanziale» (vera et substantialis communicatio)^. Si tratta di un'unione relazionale-ontologica che unisce intimamente Cristo al credente e viceversa.
Cristo ha meritato la redenzione. Per questo egli ne è lo strumento, ma con l'azione del suo Spirito. Nell'uomo la redenzione diventa realtà mediante la grazia della giustificazione del mediatore e_quella della santificazione dello Spirito, due grazie e due momenti di un unico processo che parte da Dio e termina in un rinnovamento dell'uomo a immagine di Cristo, che co- r
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mincia a essere reale già m questa vita .
In questo rinnovamento dell'uomo Calvino inserisce con chiarezza la funzione salvifica della risurrezione di Cristo: esso è una mortificatici., e .una vìvificatio ; la prima e rapportata alla morte di lui, la seconda alla sua risurrezione. Quest'ultima è una componente indissociabile dalla sua morte, di modo che Cristo va visto redentore e salvatore sia per l'una che per l'altra e precisamente per la prima (morte) in vista della seconda (risurrezione): Cristo redentore opera la giustificazione (iustìtia) e per il suo Spirito anche la santificazione (sanctificatió) del credente; entrambe costituiscono un'unità inscindibile41.
La redenzione dell'uomo in Cristo è donojdella grazia prede^ ?ìì.minte di Dio. Ma come si può essere sicuri di tale preoTesti-nazione? Calvino invita a noji indulgere a speculazioni curiose, ma a considerare GesuTlrlsto via della salvezza e specchio in cui i credenti ne acquistano sicurezza. Per quanto riguarda la dimensione storica e socio-politica della redenzione portata da
view post Posted: 27/6/2017, 15:05 Il Redentore di Giobbe - Antico Testamento
GIOBBE 19, 25-27

La strofa che ora commentiamo è stata vista agli albori stessi dell'esegesi come una cesura; come l'approdo ad una certezza e ad una speranza. Ancor oggi, pur nella distanza delle coordinate culturali e spirituali, un grande scrittore latino-americano, Jorge Luìs Borges, la citava come un emblema di fiducia. Nel racconto La casa di Asferione egli scriveva: « La solitudine non mi duole, perché so che il mio redentore vive... Se il mio udito potesse percepire tutti i rumori del mondo, io sentirei i suoi passi ».

Traduzione di Ravasi

Io, io so che il mio go'el è vivo
e, ultimo, sulla polvere si ergerà.
E poi dopo che la mia pelle avranno abbattuto
questo dalla mia carne vedrò Eloah
che lui io vedrò per me e non un altro (straniero);
i miei reni languiscono nel mio seno ...

E ovvio che il testo si rivela confuso e le varie versioni successive non hanno fatto che manipolarlo e correggerlo secondo le tesi preconcette con cui lo affrontavano.

STORIA DELL'ESEGESI. Possiamo rintracciare quasi due filoni interpretativi. Il primo legge nel testo una solenne affermazione di fede nella risurrezione ed è testimoniato soprattutto dalla scuola patristica latina da Clemente Romano ad Agostino ma con puntate anche in Origene (Comm. a Mt 22,23ss) e Cirillo Gerosolimitano. La più viva dimostrazione di tale impostazione è la Vulgata di Gerolamo la cui versione è stata normativa anche per l'uso della pericope di Giobbe nella liturgia funebre. Eccola:
25 Scio enim quia redemptor meus vivit et in novissimo die surrecturus sum

L'altro filone, più libero rispetto alla versione dei LXX e più preoccupato dell'oscuro originale ebraico, nega qualsiasi riferimento alla risurrezione, preparando così l'attuale posizione della maggioranza degli esegeti. Capofila di questa linea è il Crisostomo, legato alla scuola più « letteralista » di Antiochia. Anche Luterò, come tutta la liturgia e l'innografia cattolica e protestante, ha continuato a seguire la prima ìnterprelazione: « Io so che il mio Redentore vive e che mi desterò dalla terra e poi mi rivestirò della mia pelle e vedrò Dio nella mia carne ». Anche la spiritualità ebraica ha mantenuto la prima prospettiva. M. Buber in un contesto resurrezionistico scriveva: « (La redenzione ebraica) sola può dire come Giobbe: Io so che il mio redentore vive ».

UNA SOLUZIONE NEGATIVA. Per dare una risposta alla lettura tradizionale resurrezionistica ne dobbiamo mostrare innanzitutto l'inconsistenza, anche nelle varianti moderate più recenti. E per raggiungere questo scopo dobbiamo procedere per esclusione.
Giobbe a più riprese ha dichiarato la sua assenza totale di speranza (3,11-22; 7,6-7; 9,25...). A più riprese ha anche dichiarato l'irreversibilità del cammino che porta allo Sheol (7,9-10; 10,21; 14,20; 22; 17,1.13-16; 21,23-26), anzi in 16,18-22 ha esplicitamente richiesto un aiuto immediato prima sia troppo tardi. Se ora egli mutasse bruscamente opinione, il nostro passo diverrebbe il vertice del libro e la sua chiave di soluzione e dovrebbe illuminare il resto del dialogo punteggiandolo di riferimenti. La cosa però non avviene e l'ipotesi si rivela fragile.

4. UNA SOLUZIONE POSITIVA. Con molti esegeti riteniamo che esista una sola via praticabile. Ed è la più semplice: Giobbe afferma con forza la sua speranza di vedere Dio manifestarsi prima della sua morte come difensore del suo diritto. Prima Giobbe aveva invocato la terra perché non coprisse il suo sangue lasciandolo gridare (16,18), ora invoca il vendicatore del suo sangue nella certezza che è « vivo » e può ascoltare la sua richiesta. Più che la questione della morte a Giobbe sta a cuore la questione della giustizia che deve ora attuarsi « prima che me ne vada per una via senza ritorno » (16,22). Dopo essersi augurato nei versetti precedenti (vv. 23-24) che almeno la storia successiva riconosca la sua innocenza, Giobbe intravede all'improvviso una certezza più forte di quella delle epigrafi storiche: Egli sa che il suo difensore esiste (v. 25a). Egli sa che il suo difensore entrerà in azione, anche se tutti finora l'hanno irrimediabilmente condannato: ultimo, si ergerà sulla terra (v. 25b). Egli sa che, sia pur in articulo mortìs, egli vedrà questa arringa difensiva di Dio nei suoi confronti: « Anche con questa pelle in rovina, anche senza la mia carne, io vedrò Dio». È questa la certezza intoccabile ribadita con fierezza: « Io, io lo vedrò e i miei occhi lo contempleranno non da straniero » (v. 27). Questa interpretazione conserva il testo originale e soprattutto tiene conto del genere letterario giuridico entro cui la strofa si svolge.
Il personaggio centrale della strofa è senz'altro il go'el con cui ci siamo già incontrati durante l'immenso contendere di Giobbe (16,19). Il termine nel diritto sociale indica la persona che vendica l'omicidio di un parente sulla base dell'etica del taglione (Dt 19,16; Nm 35,9ss), riscatta i beni familiari alienati (Lv 25,15.47ss; 27,13ss; Rut passim) e da una posterità al parente morto senza prole sposandone la vedova secondo la legge del levirato (Dt 25,5-6). Applicato a Dio, il termine rivendica una vera parentela, un'alleanza di sangue tra Dio e Israele per cui il Signore si impegna a liberare il suo popolo dalla schiavitù d'Egitto (Es 6,6; 15,13), dall'esilio (Gr 1,34), dalla diaspora (Is 43,1; 44,6.24; 48,20; 52,9: è un vocabolo caro al Secondo Isaia. Applicato a Dio, il termine rivela una nuova dimensione, il vendicatore del sangue diventa il difensore della giustizia (Gr 50,34; Pr 23,11; Sl 119,54; Is 41,14).
Questo go'el è haj « vivo », è pronto ad entrare in azione. Il titolo non è solo teologico, destinato dall'apologetica anti-idolatrica ad esaltare la personalità di Dio contro la materialità degli idoli-oggetto, ma è soprattutto giuridico, usato nei giuramenti solenni anche dallo stesso Giobbe (27,2; cfr. Gdc 8,19; 1 Sm 14,39.45; 2 Sm 2,27; 1 Re 1,29; 2 Re 2,2.4.6; 2 Cr 18,13; Ru 3,13; Gr 4,2; Os 4,15 etc.). L'intervento di Dio sarà, quindi, dinamico ed efficace. Il go'el si leverà (qwn) come il testimone o l'avvocato difensore nei processi in difesa dell'assistito ingiustamente accusato (Sl 27,12; 35,11; Dt 19,15-16; So 3,8). Ma l'arringa di Dio sarà quella definitiva e decisiva.
Infatti il go'el si alzerà come 'aharon, «ultimo», dopo tutti i pronunciamenti negativi degli amici: un certo senso l'Autore anticipa sulle labbra di Giobbe il vertice del dramma, la grandiosa deposizione finale della teofania conclusiva (cc. 38-42). Il senso non è, perciò, escatologico come ha inteso la Vg (in novissimo die) e come il termine in sé preso potrebbe suggerire, ma è quello giuridico dei testi di sfida in cui Dio si presenta come la prova definitiva, « l'ultimo e il primo » (Is 44,6; 48,12). È da notare che sulla base della terminologia mishnaica e talmudica, Pope ha proposto una resa del vocabolo con « garante » in ottimo parallelismo con go'el. Il go'el si ergerà « sulla polvere » (al-afar), cioè sulla terra, ma con una duplice connotazione. La prima è di riferimento alla condizione umana perché, secondo l'antropologia di Gn 2,7, l'uomo ha una parentela profonda con la 'afar, con la materia. La seconda connotazione è, invece, di riferimento al destino dell'uomo che, come inizia dalla polvere, così si spegne nella polvere (Gn 3,19; Qo 3,20; 12,7). Non è, quindi, un intervento metastorico ma temporale, non è escatologico ma legato alla « polvere » della terra su cui vive l'uomo. Il go'el parlerà ad un Giobbe « senza carne », ridotto magari all'estremo come aveva preannunciato il v. 20, ma ad un Giobbe ormai soddisfatto di « vedere Dio ». L'espressione, di origine cultica, ha de se il significato di « accedere al Tempio » (Sl 42-43 e il relativo desiderio di ritorno al Tempio in 42,3.5; 43,3.4). Qui, però, ha il valore teofanico presente nell'esperienza di Mosè (Es 33: « Fammi vedere la tua Gloria! »): Dio si alzerà a giustificare il suo servo davanti al mondo e Giobbe finalmente sperimenterà la sua presenza giusta e benefica.

Il go'el divino, « vivo », cioè pronto ad entrare in azione, « si alzerà » come in un dibattimento processuale dopo tutti gli altri difensori-accusatori umani (gli amici) e difenderà Giobbe ormai vicino alle soglie della morte giustificandolo davanti a tutti. Giobbe, ridotto allora a pelle e ossa, sentirà la parola giudicatrice e liberatrice di Dio. Questa speranza anticipa l'incontro finale risolutivo tra Dio e il sofferente.

Edited by Fra Roberto Brunelli - 27/6/2017, 16:22
view post Posted: 23/6/2017, 17:17 Redenzione - Teologia Fondamentale
La cultura
Redenzione
I - IL PROBLEMA NELLA CULTURA MODERNA
La cultura contemporanea è una cultura della crisi: facendo dell'uomo il redentore di se stesso e, d'altra parte, registrando le sue continue sconfitte, essa non sa offrire speranza e accentua le ragioni dell'insicurezza, del disorientamento, del dubbio. Diventa persino cultura nichilista. Il grande filosofo marxista eterodosso E. Bloch ha disegnato la figura dell'uomo della crisi nel suo "eroe rosso", così descritto: « Confessando sino alla morte la causa per la quale ha vissuto, egli avanza chiaramente, freddamente, verso il Nulla cui gli si è insegnato a credere in quanto spirito libero. Perciò il suo sacrificio è diverso da quello degli antichi martiri: questi morivano, quasi senza eccezione, con una preghiera sulle labbra, credendo così di aver guadagnato il eie-Io. Mentre l'eroe comunista, sotto gli zar, sotto Hitler o sotto un altro regime, si sacrifica senza speranza di risurrezione». L'eroe rosso è l'uomo adulto, razionale, disilluso, ma anche nichilista della cultura moderna che lotta per un mondo più giusto e umano, sapendo di andare verso il Nulla. È l'uomo che pretende di redimere se stesso, qui e ora, e non di attendere la salvezza da un altro.
La 'redenzione', di cui indaghiamo il senso biblico, è invece l'azione liberatrice di Dio che ci raggiunge qui e ora, affidandoci il dono-compito di testimoniare, con una prassi rinnovata, i cieli nuovi e la terra nuova che sono già germinalmente presenti in speranza, ma troveranno pieno compimento alla venuta del Signore Gesù.
All'eroe rosso blochiano si contrappone la speranza dell'apostolo Paolo: «Se avessimo speranza in Cristo soltanto in questa vita, saremmo i più miserabili di tutti gli uomini. Ma invece Cristo è stato risuscitato dai morti, primizia di quelli che dormono. Poiché se per un uomo venne la morte, per un uomo c'è anche la risurrezione dei morti; e come tutti muoiono in Adamo, cosi tutti saranno vivificati in Cristo» (ICor 15,19-21). Dall'uomo viene la morte, da Cristo viene la vita; dall'uomo non viene la speranza, ma Cristo da motivo di sperare anche al di là della morte, perché egli ha vinto la morte. Di fronte alla sfida della cultura moderna, il cristiano è chiamato a rispondere della propria fede nel Redentore. La fede cristiana, infatti, non crede soltanto in un Dio che dona, come anche Aristotele ammetteva, ma che perdona! E dal perdono redentivo di Dio nasce la speranza del cristiano. Ma Dio redime attraverso l'evento storico, particolare e singolarissimo della morte-risurrezione di Gesù: da quell'evento scaturisce la salvezza per tutti. È una redenzione divina attuata attraverso la mediazione umana e storica della vicenda di Gesù, per la cui comprensione occorre interrogare tutta la Bibbia.

II - TEMA E METODO — 'Redenzione' è un vocabolo che trascina con sé un grappolo di altri termini appartenenti alla stessa area semantica: liberazione, riscatto, salvezza, espiazione, acquisto, giustizia, giustificazione, purificazione, ecc. La varietà e la ricchezza del vocabolario biblico, che interessa questo campo semantico, mette in guardia dall'assolutizzazione di una sola categoria o termine o immagine ed è anche indizio dell'inesauribile e proteiforme misteriosità dell'inafferrabile, eppure realissima, azione di Dio per l'uomo peccatore. È appunto l'uomo peccatore che viene redento, ma qui non approfondiremo il concetto biblico di peccato.
Più che inseguire la varietà terminologica con l'intento filologico dell'esatta determinazione dei differenti aspetti dell'approccio biblico alla 'realtà' della redenzione, scegliamo di lasciarci guidare dall'idea che è soggiacente e comune. Intendiamo, quindi, per 'redenzione' l'azione con cui Dio, direttamente o per mezzo di mediazioni/mediatori, viene in soccorso dell'uomo e lo libera dalla colpa/peccato, inteso ultimamente come rifiuto dell'offerta divina di farci partecipare alla sua vita. In altri termini, redenzione è il sì vittorioso e perennemente valido di Dio nella assoluta e definitiva dedizione per la vita dell'uomo, il quale si oppone, in quanto peccatore, al suo Dio con la chiusura e il rifiuto.
Dal punto di vista terminologico per l'AT studieremo soprattutto ì testi dove appare il verbo redimere (ga'al e padah) e salvare (js'), mentre per il NT seguiremo i diversi modelli interpretativi messi in atto da un lessico diversificato e proporremo brevi sintesi.

III - ANTICO TESTAMENTO - 1.
I VERBI "GA'AL" E "PADAH": SOLIDARIETÀ E REDENZIONE - Due radici verbali ebraiche, ga'al (118 volte) e padah (70 volte), hanno una funzione peculiare nel determinare il concetto veterotestamentario di redenzione. In ambedue i casi, comune è l'idea di 'riscatto' da una situazione giuridica di schiavitù, di debito, in generale di necessità. Ma mentre padah non è tipico ed esclusivo di un determinato settore del diritto, ga'al nasce e si sviluppa soprattutto nell'ambito del diritto di famiglia, del clan, della tribù. Trattandosi di verbi 'giuridici', siamo rimandati al contesto della legislazione israelitica e perciò alla 'liberazione' o al 'riscatto' oneroso di proprietà o di persone per opera di altri uomini in vista della libertà o per salvare la vita stessa.
La storia umana dei rapporti sociali crea condizioni di schiavitù, di ingiustizia, di miseria dalle quali il diritto israelitico sprona ad uscire mediante una serie di obblighi giuridici. In particolare, due principi ispirano il diritto d'Israele: a. la libertà dell'individuo suppone un minimo di indipendenza economica; b. soltanto in un armonico rapporto con la comunità (famiglia, clan, tribù) l'individuo è in grado di realizzare la propria libertà. La 'redenzione' è dunque restituzione della libertà in un contesto di armoniche relazioni con la comunità.
Ad esempio, l'utopica legislazione sull'anno sabbatico e sull'anno giubilare (Lv 25) tende a garantire la proprietà familiare che, con il giubileo, torna alle famiglie di origine: Se un tuo fratello si trova in difficoltà e vende una parte dei suoi possedimenti, venga il suo parente più prossimo (go'aló haqqarob) a esercitare il diritto di riscatto (ga'al) su quanto vende il suo fratello» (Lv 25 25). Dunque, la famiglia israelitica vive liberamente soltanto sulla base di una proprietà terriera. L'istituto giuridico del go'el (= parente prossimo che riscatta) - che ritroviamo nello stupendo raccondo di Rut - si fonda sia sulla solidarietà familiare sia sul principio del radicamento della famiglia nella proprietà terriera. La redenzione è quindi un atto di solidarietà in vista della restituzione della libertà dalla miseria, dalla schiavitù o, in una parola, dall'emarginazione sociale dalla comunità degli uomini liberi con pieni diritti.
Non soltanto le proprietà, ma le persone stesse possono essere vendute e perciò aver bisogno di riscatto: «Se un ospite o un residente presso di te raggiunge l'agiatezza e un fratello si trova in difficoltà nei suoi riguardi e si vende schiavo a tale ospite o residente presso di te o a un membro della famiglia dell'ospite, dopo che si è venduto avrà possibilità di riscatto (ge'ullah); uno fra i suoi fratelli lo può riscattare, o suo zio o suo cugino o qualche altro membro della sua famiglia lo può riscattare; o, se ne avrà i mezzi, si può riscattare da sé» (Lv 25,47-49). È sempre la solidarietà familiare che fonda il diritto-dovere del riscatto, anche nel caso della "vendetta del sangue" (cf. Nm 35,9-29).
Il senso della 'redenzione', nei rapporti sociali, può essere definito come «liberazione dal potere estraneo di ciò che appartiene alla famiglia» (K. Koch). Se poi la grande famiglia è la nazione, allora il go'el di tutti gli oppressi è il re: «Sì, egli libererà il povero che grida aiuto, il misero che è senza soccorso. Avrà pietà del debole e del povero e porrà in salvo la vita dei miseri: dall'oppressione dalla violenza egli riscatterà la loro anima, che prezioso sarà ai suoi occhi il loro sangue» (Sal 72,12-14).
La proprietà, la libertà delle persone, la vita umana sono beni fondamentali che impegnano tutti i membri della comunità (famiglia, clan, tribù, nazione) nella reciproca corresponsabilità e solidarietà. Sulla base della solidarietà di tipo familiare che unisce gli israeliti tra loro, nasce e si afferma il diritto-dovere della redenzione.
Presenti soprattutto nei testi giuridici, compresa la legislazione cultuale (cf. per es. Es 34,19-20 sul riscatto dei primogeniti), le due radici verbali suddette sono usate anche nel linguaggio religioso per designare il riscatto da parte di Dio. Poiché il diritto israelitico è di carattere religioso, cioè è considerato legge divina, è logico che Israele abbia considerato la redenzione interumana come riflesso e imitazione dell'azione redentrice di Dio. Storicamente, tuttavia, è dimostrato che alcuni costumi di affrancamento di cose o persone (cf. per es. Es 21,30), per mezzo di una somma di riscatto, corrispondono alle leggi babilonesi di Esnunna (par. 54) e del codice di Hammurabi (par. 251).

2. IL DIO LIBERATORE IN ESODO
- L'uso religioso del termine/concetto di 'redenzione', espresso oltre che dai verbi ga'al e padah anche da jasa' (= far uscire), jaSa' (= salvare) e nasal ( = sottrarre), perde la sua connotazione giuridica e soprattutto lascia cadere l'idea di un pagamento di un controvalore per il riscatto. Dio libera e salva gratuitamente, senza essere debitore di nulla a nessuno. Anche nell'uso religioso dei verbi indicati, rimane invece l'idea della solidarietà quale ragione dell'intervento liberatore.
Nell'ambito religioso, l'evento fondamentale di salvezza-redenzione è la liberazione dalla schiavitù d'Egitto finalizzata alla 'formazione' del popolo di Dio. È nelle tradizioni eso-diche, infatti, che ricorre con frequenza il lessico della redenzione.
La liberazione esodica è totalmente libera e gratuita iniziativa di Dio: «Perciò di' ai figli di Israele: "Io sono il Signore, li farò uscire (js') dalle fatiche dell'Egitto, vi libererò (nsl) dalla loro servitù e vi riscatterò (g'l) con braccio teso e con grandi castighi. Vi prenderò per me come popolo e sarò per voi Dio, e saprete che io sono il Signore vostro Dio, che vi ha fatto uscire (js) dalle fatiche d'Egitto" » (Es 6,6-7). Qui la liberazione dall'Egitto è paragonata, in forza dell'uso dei verbi indicati, a un riscatto dalla schiavitù, ma non c'è alcun pagamento di prezzo: Dio agisce da 'padrone', con grande forza e potenza, prendendo quel che è suo. Al v. 5 — «Mi sono ricordato della mia alleanza » - si afferma esplicitamente che Dio trova in se stesso, nella sua libera promessa di salvezza, la ragione del suo intervento redentivo. Precisamente perché ha voluto impegnarsi con Israele, sceglierlo come sua 'famiglia' o '"popolo" ('ani), stabilendo così una solidarietà familiare indissolubile, Dio è diventato il go'el di Israele. Jhwh è il redentore perché è il 'creatore' di Israele, ossia ha scelto e benedetto Israele perché da sempre egli pensava, nel suo piano redentivo, di prenderlo come suo popolo e di essere il suo Dio. La comunione o alleanza con Israele è il fine di tutta l'azione redentiva divina.
Dall'azione redentrice di Dio Israele impara quindi a conoscere chi è il suo Dio: «Saprete che io sono il Signore, vostro Dio, che vi ha fatto uscire dalle fatiche di Egitto». Dalla soteriologia, cioè dall'azione salvifica di Jhwh, Israele ha accesso al mistero ontologico di Dio: soltanto Jhwh salva, perciò egli solo è Dio.
La redenzione del popolo dall'Egitto è avvenuta « perché il Signore vi ama e per mantenere il giuramento fatto ai vostri padri» (Dt 7,8). Israele è stato salvato perché era l'eredità di Jhwh, che egli ha redento con la sua grandezza (Dt 9,26). L'israelita deve, dunque, fare sempre memoria della redenzione esodica: « Ricordati che tu fosti schiavo nella terra d'Egitto e che il Signore tuo Dio ti ha liberato (padah)» (Dt 15,15; cf. 24,18). Per il Dt il verbo preferito per indicare la liberazione esodica è padah: Dio appare così come colui che fa valere i suoi diritti sul popolo che gli appartiene.
L'epopea esodica culmina, ed è riassunta, nel canto di Es 15,2: «Mia forza e mio canto è il Signore: è stato la mia salvezza». Israele farà continuamente 'memoria' dell'esodo per proclamare e affermare la sua fede nel Dio che salva.
La redenzione dalla schiavitù d'Egitto non fu una liberazione soltanto sodale-politica, ma anche 'interiore', nel senso che mirava a creare il "popolo di Dio", cioè la comunità di coloro che credono in Jhwh loro redentore. La schiavitù d'Egitto non è soltanto socio-politica, ma è anche schiavitù dell'idolatria e dei peccati che ne sono il frutto: Dio libera, infatti, dando una legge al Sinai, istituendo una relazione vitale intima con i suoi fedeli (il culto), stabilendo la sua presenza in mezzo al popolo (tenda sacra). Interiormente e socialmente, per dono gratuito di Dio ma anche mediante l'appello divino all'attiva responsabilità e all'impegno generoso, il popolo liberato dalla schiavitù d'Egitto diventa una comunità nuova, integralmente rinnovata e strutturata dall'azione del suo Dio. Il popolo di Dio è, quindi, simultaneamente "mistero", in quanto creatura di Dio che sceglie di abitare in mezzo ad esso, e "soggetto storico", in quanto comunità storica che fa storia. Ciò che caratterizza il popolo di Dio è la permanente e vissuta memoria della redenzione divina che lo ha fatto nascere e, insieme, la missione di testimoniare, di fronte a mondo, le meraviglie del suo Dio.
La redenzione divina non esclude, anzi implica una mediazione umana: « Israele vide la grande potenza che Signore aveva usato contro l'Egitto il popolo temette il Signore e credette a lui e a Mosè, suo servo » (Es 14,31). Così pure Dio, nel deserto dona la legge liberatrice mediante Mosè. Ed ogni israelita credente che osserva la legge sul riscatti diventa, in qualche modo, 'mediatore' e rappresentante della divina redenzione ricevuta per dono.

3 DEUTERO-ISAIA (Is 40—55) E ALTRI PROFETI - Con particolare insistenza, il Deutero-Isaia richiama l'attenzione sul tema di Dio come redentore (go'el), uno dei titoli preferiti insieme con 'creatore'. Anzi, si può riassumere il pensiero dell'anonimo profeta dell'esilio congiungendo l'idea di creazione e di redenzione: «Dalla nuova redenzione di Israele alla creazione dell'intero mondo di Israele; dalla creazione dell'intero mondo di Israele alla creazione del mondo intero simpliciter; dalla creazione del mondo intero alla redenzione di questo mondo» (C. Stuhl-mueller).
Jhwh riscatta il suo popolo perché è il suo go'el, legato da una 'familiarità' generatrice-creatrice: «Così parla il Signore, il tuo redentore, colui che ti ha formato fin dal seno materno: "lo sono il Signore che ha creato tutto, che da solo ho disteso i cieli, ho fissato la terra: chi era con me?" » (Is 44,24). Jhwh è unito a Israele perché egli l'ha creato e redento, ne è come una madre (cf. Is 49,15).
Tuttavia la solidarietà quasi familiare non è per Jhwh una necessità di intervenire: «Per amore di me stesso, solo per amore di me stesso l'ho fatto!» (Is 48,11).
Dio è mosso soltanto dal suo liberissimo e incondizionato amore. Nulla al di fuori di lui lo necessita ad agire. Egli salva perché ama.
Per la redenzione d'Israele, Dio non deve pagare nessun prezzo: «Così parla il Signore: "Voi siete stati venduti senza compenso e sarete "scattati (ga'al) senza denaro"» (Is 52,3). Dio infatti è il padrone sovrano, non è debitore a nessuno. L'azione redentiva equivale a un plasmare, a creare o a chiamare all'stenza: «Ora così parla il Signore che ti ha creato, o Giacobbe, che ti ha formato, o Israele: "Non temere perché ti ho redento, ti ho chiamato per nome, tu sei mio". (ls 43,1)
La redenzione conduce al 'matrimonio' con lo sposo divino: «Tuo sposo è il tuo creatore, il cui nome è Sigore degli eserciti; il tuo redentore è il Santo di Israele, chiamato Dio di tutta la terra» (Is 54,5). Un'intima, amorosa, sponsale relazione unisce Jhwh al suo popolo redento. Jhwh infatti 'salva' la vedova Israele sposandola!
Nella redenzione divina è in gioco la situazione spirituale di Israele peccatore: «E tu, Giacobbe, non mi hai invocato, anzi ti sei stancato di me, o Israele!... Mi hai molestato con i tuoi peccati e mi hai stancato con le tue iniquità. Sono io, sono io che cancello i tuoi misfatti, per il mio onore non ricordo più i tuoi peccati » (Is 43,22.24-25).
L'interesse principale del libro del Deutero-lsaia è quello di proclamare la capacità di Jhwh di salvare dalla necessità, dal pericolo mortale simboleggiato dalla mancanza di acqua: « I miseri ed i poveri cercano acqua e non c'è; la loro lingua è inaridita per la sete. Io, il Signore, li esaudirò; io, Dio di Israele, non li abbandonerò» (b 41,17).
Dio non cessa di essere potente, capace dì aiutare: la polemica del Deutero-Isaia contro l'inanità e vacuità degli idoli (cf. per es. Is 41, 21-29) e il richiamo all'idea di creazione hanno la funzione di rimarcare energicamente l'idea che Jhwh vuole e può realizzare il suo piano di salvezza: «Forse che la mia mano è troppo corta per redimere (padah), non ho io la forza per salvare? » (50,2).
Ciò che fa resistenza alla redenzione divina è il peccato, la ribellione di Israele. Lo stesso esilio non è soltanto una vicenda politica, ma la conseguenza di una condotta peccaminosa: «Parlate al cuore di Gerusalemme e annunziatele che la sua schiavitù è finita, che la sua colpa è espiata, ch'essa ricevette dalla mano del Signore il doppio per tutti i suoi peccati» (Is 40,2; cf. 50,1: «Ecco, a causa delle vostre iniquità voi siete stati venduti »).
Il ritorno spirituale di Israele produrrà anche il ritorno geografico in patria: "la via del Signore" (40,3) è la via sulla quale il Signore viene con potenza a salvare, ma è anche il cammino dì conversione con cui il popolo toglie ogni ostacolo che impedisce la venuta redentrice del Signore. La redenzione del Signore è dunque inseparabile dalla conversione religioso-morale e dal perdono.
Il potere salvifico divino, che non arretra neppure di fronte alla morte, era stato cantato dal profeta Osea in modo da mettere in luce la forza irresistibile di Dio: «Dal potere dello Se'ol li libererò (padah)\ Dalla morte li salverò (ga'al)'. Dov'è la tua peste, o morte? Dov'è il tuo maleficio, Se'ol» (Os 13,14). La redenzione non avviene perché il popolo ne ha bisogno o la invoca, ma perché Dio è il redentore (go'el) del suo popolo. In Os 7,13 è ripetuta la promessa divina: « Io vorrei riscattarli (padah), ma essi dicono menzogne contro di me».
Con il Deutero-Isaia la salvezza di Jhwh si manifesta come redenzione per tutti gli uomini: « Allora ogni uomo saprà che io sono il Signore, tuo salvatore, il tuo redentore, il forte di Giacobbe» (Is 49,26). Così in Is 52,10: «II Signore mette a nudo il braccio della sua santità davanti a tutti i popoli e tutti i confinì della terra vedranno la salvezza del nostro Dio». L'orizzonte universale della redenzione e la sua natura divina in Deutero-Isaia fanno comprendere che non si tratta ovviamente di una liberazione soltanto politica di Israele. È infatti l'intera storia umana che sta sotto l'amore salvifico di Dio che libera l'uomo dal male, non solo politico, in senso radicale.
All'Israele disperso, in esilio, è annunciata la liberazione dal più forte di lui: « Chi ha disperso Israele lo raduna e lo custodisce come fa un pastore con il gregge, perché il Signore ha redento (padah) Giacobbe, lo ha riscattato (ga'al) dalle mani del più forte di lui» (Ger 31,10-11). Il rimpatrio degli esiliati, la riunione del popolo, la liberazione del "più forte" sono il contenuto della redenzione, vista nella prospettiva dell'unità e della vita del popolo di Dio, non tanto della 'nazione' in senso politico.
Il popolo di Dio è costituito da coloro che sono liberati e si convertono alla giustizia divina: «Sion sarà scattata con la giustizia, i suoi convertiti con la rettitudine» (Is 1,27) Soltanto la potenza salvifica divina può infatti stabilire una vita comunitaria armoniosa e solidale cioè la giustizia. Immediatamente la 'redenzione' è politica, ma la prospettiva è ultimamente escatologica, come in Zc 10,8: «Con un fischio li chiamerò a raccolta quando li avrò riscattati (padah) e saranno numerosi come prima». Ancora una volta, la redenzione si attua nella riunione del popolo di Dio.
4. I SALMI - Nei Salmi [IV, 2], soprattutto nelle suppliche o lamentazioni, è invocata con ostinata fiducia la redenzione. Essa da corpo al grido dell'orante: «Riscattami (padah) ed abbi pietà di me» (Sal 26,11); «Avvicinati all'anima mia e riscattala» (Sai 69,19); «Riscattami dall'oppressione dell'uomo» (Sal 119,134).
L'orante non porta ragioni, non pretende e non avanza diritti: « Sorgi in nostro soccorso, riscattaci per la tua misericordia» (Sal 44,27). Egli confida nella misericordia (hesed) divina, che è l'unica ragione cui appellarsi per invocare la redenzione. La misericordia di Dio, ossia la sua capacità e disponibilità a salvare, è il fondamento della fiduciosa preghiera dell'israelita.
Il salmista, nelle suppliche, si trova in stato di necessità per causa dei 'nemici', proiezione di tutti in che lo angustiano e lo minacciano. Ed egli grida: « Nelle tue mani affido il mio spirito; riscattami, o Signore, Dio fedele» (Sal 31,6). La menzione dei nemici è chiara nei vv. 9.12 in questo caso probabilmente i nemici sono la proiezione della malattia (cf. vv. 10-11) che l'ha colpito.
Tra la colpa e i mali che si abbattono sull'uomo c'è una segreta connessione, anzi il peccato è il male profondo: «Se le colpe tu custodisci Signore, chi potrà sussistere? Egli redimerà Israele da tutte le sue colpe (Sal 130,3.8). Perdonando i peccati e liberando dalle colpe, il Signore compie la redenzione radicale che pone termine allo stato di necessità dell'orante. Perciò i suoi servi, che confidano in lui, sperimentano la redenzione vera: «Redime il Signore la vita dei suoi servi; non subiscono alcuna pena quanti in lui si rifugiano» (Sai 34,23).
«Le dichiarazioni di liberazione dei salmi si riferiscono per lo più a stati di necessità concreti e terrestri, tra cui, oltre alla malattia e alla morte sono in primo piano i nemici. Dichiarazioni generali, che vadano al di là del caso singolo, sono rare. Ne troviamo soltanto in Sal 34,23, entro un orizzonte che a malapena si può dire oltrepassi questo mondo, e in Sal 130,7s in una visione timidamente orientata in senso escatologico. Il fatto che sia dominante la situazione concreta e terrestre non costituisce un limite. È conseguenza della consapevolezza che l'uomo in tutto è affidato a Dio, il quale gli va incontro nella fortuna e nella sventura. Anche se in tal modo la sventura, lo stato di bisogno e le ostilità perdono il loro carattere di vicoli ciechi senza speranza, non per questo essi allentano la loro salda presa. Del che da la misura proprio il fatto che la loro rimozione viene presentata non soltanto come un salvare (nasal hifil / molat piel), ma anche come un riscattare o liberare» (J.J. Stamm).
I redenti dal Signore cantano nella preghiera di ringraziamento la misericordia salvante del loro Dio: «Lodate il Signore perché è buono, poiché eterna è la sua misericordia. Lo dicano i riscattati dal Signore, i riscattati dalla stretta dell'angustia» (Sal 107,1-2). La redenzione divina sperimentata storicamente da Israele non solo diventa l'oggetto e la ragioel ringraziamento, ma anche la sostanza della memoria cultuale: "Ed io ti renderò grazie con l'arpa, per la tua fedeltà, o Dio, canterò a te sulla cetra, o Santo d'Israele. Grideranno di gioia le mie labbra cantando a te con la mia anima da te riscattata (Sal 71,22-23). La supplica ha la garanzia dell'esaudimento nel fatto che il Signore già in passato ha riscattato i suoi servi che sono ricorsi a lui con fiducia. E nell'accoglienza e riconoscimento della redenzione divina, l'uomo percepisce concretamente e riconosce il proprio bisogno di redenzione e fa l'esperienza più radicale della sua colpa di fronte all'amore gratuitamente libero, non dovuto e non condizionato, del suo Dio.

IV - IL NUOVO TESTAMENTO — 1. PROBLEMA TERMINOLOGICO - La realtà della redenzione, cioè il perdono e l'autocomunicazione liberatrice e vivificante di Dio all'uomo, è espressa dal NT con una notevole ricchezza di vocabolario, indicante sia l'evento o l'atto della redenzione sia la condizione oggettiva di essere-redento. Limitiamo la nostra riflessione all'evento della redenzione, volendo illustrare - ovviamente nei limiti impostici o rimandando ad altre voci (Liberazione, Giustizia, Fede, Riconciliazione, Peccato, Misericordia) - l'azione e l'offerta di perdono divine alla libertà dell'uomo.
Gli scritti del NT fanno ricorso a schemi o modelli interpretativi differenti:
a. Modello sociale: fa uso dei vocaboli redimere/redenzione (apolytroun), liberare/liberazione (eleutheroùn), comprare (exagoràzein). Il suddetto vocabolario rimanda all'esperienza della liberazione degli schiavi o dei prigionieri, ma è innegabile l'evocazione dell'istituto del go'el dell'AT. Ad es. leggiamo in Rm 3,24: «Tutti vengono giustificati gratuitamente per suo favore, mediante la redenzione che si trova per mezzo di Gesù Cristo». La redenzione (apolytròsis) suppone una condizione di schiavitù, da cui Cristo libera 'gratuitamente', ossia liberamente o per solidarietà amante («per suo favore»). In Rm 6,18 leggiamo: «Liberati dal peccato, foste asserviti alla giustificazione ». Liberazione-schiavitù, peccato-giustizia descrivono ambiti di esistenza opposti.
b. Modello giuridico: fa uso dei vocaboli giustificare/giustificazione (dikaiosyne), giustizia, giudicare, giudizio. Il vocabolario forense è piegato al servizio della logica divina, che non condanna l'empio, ma lo trasforma e lo rende giusto mediante la fede. Così Rm 4,5: «Dio giustifica l'empio»; Rm 3,28: «Noi riteniamo che l'uomo sia giustificato mediante la fede, a prescindere dalle opere della legge». Nel "processo forense" tra Dio e l'uomo non avviene soltanto la condanna dei colpevoli e l'assoluzione degli innocenti, anzi, mediante la fede, la redenzione dei colpevoli, resi giusti dal giudice divino.
e. Modello rituale: fa uso dei vocaboli espiare/espiazione (hilàskomai), purificare/purificazione. Riteniamo che con espiazione sia evocata la festa del kippur (cf. Lv 16), cioè la libera iniziativa con cui Dio offre ad Israele la possibilità di uno scambio come gesto di pacificazione con lui. Leggiamo, ad es., Rm 3,25: «Dio lo (Gesù) ha prestabilito a servire come strumento di espiazione [hilastérion] per mezzo della fede». L'espiazione non implica una sostituzione dell'innocente che paghi il fio al posto del colpevole, ma indica la mutazione e la riduzione della pena fino alla sua cancellazione in vista della riconciliazione.
d. Modello interpersonale: fa uso dei vocaboli riconciliare/riconciliazione (apokatallàssein), pacificare/ pacificazione. È un modello che si ispira ai rapporti tra amici, tra marito e moglie, tra gruppi sociali, tra stati. L'iniziativa è di Dio che elimina la rottura, separazione, allontanamento. Leggiamo, ad es., 2Cor 5, 18-20: «Dio ci ha riconciliati con sé mediante Cristo, ed ha affidato a noi il ministero della riconciliazione; è stato Dio, infatti, a riconciliare con sé il mondo in Cristo, non imputando agli uomini le loro colpe e affidando a noi la parola della riconciliazione. Noi fungiamo quindi da ambasciatori per Cristo, ed è come se Dio esortasse per mezzo nostro. Vi supplichiamo in nome di Cristo: riconciliatevi con Dio».
e. Modello esperienziale: fa uso dei verbi strappare, sottrarre (rhyomai) e salvare (sòzeiri). Si sottintende la minaccia d'un pericolo mortale dal quale si è salvati. La redenzione è dunque uno sfuggire alla morte totale grazie a un intervento liberatore divino. Si legga, ad es., Ef 2,5-8: « Per quanto morti in seguito ai traviamenti, (Dio) ci ha fatto rivivere col Cristo: foste salvati gratuitamente... Infatti siete salvi per la grazia, tramite la fede: ciò non proviene da voi, ma è dono di Dio». La redenzione strappa alla morte e fa vivere, fa passare dalla morte alla vita (cf. Gv 5,24: «Chi crede... è passato dalla morte alla vita»). Il lessico neotestamentario di vivere, vita, vita eterna rientra esso pure nel linguaggio di redenzione; soprattutto s. Giovanni vi fa ampio ricorso.
La multiforme varietà del linguaggio di redenzione conosce due punti fermi fondamentali: in primo luogo, l'evento redentivo si radica e principia da una libera volontà divina di perdono che muta le condizioni dell'uomo a cui termina; in secondo luogo, l'amore misericordioso di Dio viene incontro ad ogni uomo a partire dalla particolare vicenda storica concreta e singolarissima di Gesù di Nazaret. Di conseguenza, Gesù è dunque la figura storica piena e definitiva di mediatore della salvezza divina per tutti gli uomini. L'intera vicenda storica di Gesù è il 'luogo' particolare e singolare da cui sgorga la divina iniziativa salvifica a favore dell'umanità.

2. GESÙ REDENTORE NEI VANGELI
I vangeli sono il messaggio della salvezza operata da s Gesù, il cui nome significa "Jhwh salva" (Mt 1,21). La persona di Gesù, nei vangeli, si confronta con le varie forme di malattia e di peccato, di miseria e di oppressione, di angoscia e di morte dell'umanità. Gesù viene per cambiare la qualità della vita umana delle persone che incontra mediante la liberazione soprattutto dal peccato: « Egli salverà il suo popolo dai suoi peccati» (Mt 1,21).
È dunque dalla storica vicenda della vita di Gesù che viene il perdono di Dio: « Coraggio, figliolo — dice Gesù — sono rimessi i tuoi peccati!... Non sono venuto infatti a chiamare i giusti, ma i peccatori» (Mt 9,2.13). Non è la storia umana a condizionare o determinare, in qualche modo, la volontà di perdono di Dio, ma la liberissima divina iniziativa d'amore: «Dio, infatti, ha tanto amato il mondo, che ha dato il Figlio suo unigenito affinchè chiunque crede in lui non perisca, ma abbia la vita eterna» (Gv 3,17). L'autocomunicazione vitale di Dio è lo scopo della missione-vita di Gesù: «Io sono venuto perché abbiano la vita e l'abbiano in sovrabbondanza» (Gv 10,10). Per darci la vita divina, Gesù ha dato la propria vita fino alla morte in croce. Egli è vissuto ed è morto e risorto "per noi"!
La salvezza, dunque, nasce dalla prò-esistenza storica di Gesù; essa è la dedizione di Dio a noi fino a modificare o cambiare le condizioni di vita dell'uomo (malattia, angoscia, peccato, morte). Con Gesù la salvezza di Dio è giunta agli uomini, come viene detto a Zaccheo: « Oggi la salvezza è entrata in questa casa» (Le 19,9).
Con Gesù, il Dio d'Israele «ha visitato e redento il suo popolo» (Le 1,68): alla luce della liberazione esodica (cf. Sal 111,9), Luca vede in Gesù colui che da libertà al popolo di Dio. Gesù, dunque, porta a compimento l'attesa della redenzione di Gerusalemme (Le 2,38; cf. Is 52,3.9): la profetessa Anna rappresentava i poveri di Jhwh che speravano nella salvezza del popolo di Dio. La redenzione, operata da Dio attraverso Gesù, ha di mira non tanto i singoli, quanto piuttosto il popolo. Crediamo di non andare errati se intendiamo questi passi nel senso che Gesù realizza la redenzione riunendo e formando intorno a sé il popolo di Dio, la chiesa.
Il nesso tra redenzione e comunità cristiana è ribadito dal detto di Mc 10,45: « II Figlio dell'uomo non è venuto per essere servito, ma per servire e per dare la sua vita in riscatto Per molti» (cf. Mt 20,28). Questo detto compare nel contesto della regola comunitaria (vv. 43-44: «Fra voi non è così... »), della quale fornisce la motivazione (v. 45a: gàr = infatti). «La morte espiatrice di Gesù viene indicata come fondamento della comunione di vita e dello stile di vita del cristiano. Lo stesso Gesù compare come il 'grande' (v. 43) e il 'primo' (v. 44), che si è rivelato il servo della comunità e lo schiavo di tutti nella sua missione di Figlio dell'uomo, che ha dato la propria vita in luogo e a favore dei molti, e nel suo servizio caratterizzato dalla morte espiatoria ha indicato il modello di servizio da seguire all'interno della comunità: "In questo abbiamo riconosciuto l'amore, che quegli ha dato la sua vita per noi. Anche noi dobbiamo dare la vita per i fratelli" (IGv 3,16). Non l'affermazione di se stessi nell'emulazione (cf. 8,35-37), bensì l'abnegazione in favore di altri fa della comunità cristiana la nuova società della salvezza» (R. Pesch).
Anche la comunità cristiana è esposta all'odio e alla derisione, alla calunnia e alla persecuzione, ma essa è invitata ad alzare il capo, « poiché la (vostra) redenzione è vicina» (Le 21,28). Il contesto è quello comunitario, non individuale. La redenzione è connessa con la venuta del Figlio dell'uomo con grande potenza e gloria (v. 27). Luca non lascia capire chiaramente se si tratta della morte-risurrezione di Gesù o degli avvenimenti parusiaci: la venuta di Gesù nella carne e la sua venuta nella gloria non sono indipendenti. Quel che importa qui è l'assicurazione, data alla comunità cristiana, della redenzione come evento unico e definitivo operato dalla venuta di Gesù, Figlio dell'uomo.
3. LA MORTE DI CRISTO È REDENTRICE - L'amore misericordioso di Dio si manifesta e si realizza splendidamente e in modo storicamente irreversibile nella morte di Gesù che da la propria vita: « Il Figlio dell'uomo è venuto... per dare la propria vita in riscatto per molti» (Mc 10,45). L'evento storico della morte di Gesù 'compie' il suo servizio e la sua autodedizione incondizionata per la vita degli uomini. La 'verità' di Gesù emerge e rifulge nel suo amore fino alla morte e da 'quella' morte particolare, datata eppure singolarissima, viene la salvezza per tutti.
Gesù è morto in croce come mediatore di salvezza: « Uno solo è Dio e uno solo è il mediatore tra Dio e gli uomini, l'uomo Cristo Gesù, il quale ha dato se stesso in riscatto per tutti »(1Tm 2,5-6). È l'uomo Cristo Gesù, è la sua morte in croce che realizza la redenzione, precisamente in quanto è il dono di sé totale e irreversibile. 'Riscatto' non significa 'pagamento' a qualcuno, ma è metafora della liberazione attuata. Gesù ha dato la sua vita in quanto è l'uomo Cristo Gesù, in tutto solidale con gli uomini, eccetto il peccato.
La redenzione ha come risultato l'appartenenza a Dio e la costituzione del popolo di Dio: « Gesù ha dato se stesso per noi, per redimerci da ogni iniquità e formarsi un popolo puro che gli appartenga» (Tt 2,14).
Con la sua morte, Gesù non è tanto colui che 'sacrifica' qualcosa a Dio nel culto, ma è colui che dona se stesso come sacrificio vivente e personale. La morte di Gesù è il sacrificio 'esistenziale', reale, non rituale, perché non viene offerta una vittima diversa dal sacrificatore. È dunque tutta l'esistenza umana di Gesù culminata nella sua morte che, donandosi per noi, ci riconcilia con Dio.
Il dono libero e volontario di sé fino alla morte è un tema sviluppato soprattutto da Giovanni (18,4-8) al momento dell'arresto di Gesù, il quale si consegna con sovrana libertà ai suoi accusatori. L'amore di Dio, incarnato in Gesù, è giunto fino al télos e compimento perfetto (tetélestai) nella morte di Gesù in croce (Gv 19,30). E Gesù muore per amore e per comunicare l'amore di Dio, ossia lo Spirito che sgorga, simboleggiato dall'acqua (Gv 19,37), dal costato trafitto del Crocifisso.
La morte di Gesù è una morte 'particolare', non è soltanto un caso particolare della morte di un giusto; e la risurrezione fa risaltare la singolarità della morte di Gesù. La singolarità della morte di Gesù è messa in luce dalle parole stesse del Crocifisso: «Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno» (Le 23,34); «Padre, nelle tue mani raccomando il mio Spirito» (Le 23,46). È la morte del Figlio che può gridare 'Abba' a Dio! La morte di Gesù è salvifica, redentrice perché in essa Dio non è assente, anzi è presente e operante come Dio che salva. «Per la grazia di Dio la sua morte fu di vantaggio per tutti » (Eb 2,9). E la risurrezione di Gesù non è soltanto una ratifica successiva, ma lo 'sbocciare' della presenza divina vittoriosa nella morte di Gesù.

4. LA REDENZIONE IN PAOLO - Già si è fatto cenno alla ricchezza terminologica del NT e, in particolare, di Paolo per esprimere il mistero della redenzione. È possibile tentare una breve sintesi del pensiero paolino? Osiamo proporre alcune linee di fondo. Innanzitutto, il protagonista della redenzione è Dio Padre: Gesù Cristo non riceve mai il titolo di 'redentore'. Fuori del corpo paolino sia a Dio (ITm 1,1; Tt 1,3; 2,10) sia a Gesù (Tt 1,4; 2Pt 1,11) è dato il titolo di 'salvatore'. Negli scritti paolini, soltanto in Fil 3,20 Gesù è chiamato 'salvatore'. L'autore della redenzione, che si attua mediante Gesù come 'strumento' o mediatore assoluto di pacificazione (kapporet), è Dio Padre: «(Tutti) sono giustificati gratuitamente per suo favore, mediante la redenzione che si trova per mezzo di Gesù Cristo» (Rm 3,24). Da Dio Padre ha origine la libera iniziativa gratuita di togliere ogni ostacolo alla rappacificazione con gli uomini. E « per opera di Dio (Padre) che (Gesù) è diventato per noi sapienza» (del Padre), che implica per noi «giustizia, santificazione e redenzione» (1Cor 1,30). L'unico desiderio di Dio Padre è di salvarci: « Se Dio (Padre) è per noi, chi sarà contro di noi? Egli che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato per tutti noi, come non ci donerà ogni cosa insieme con lui? Chi accuserà gli eletti di Dio? Dio (Padre) giustifica» (Rm 8,33). Attraverso il dono del Figlio si rivela e si comunica a noi l'amore del Padre: « (Niente) potrà mai separarci dall'amore di Dio (Padre) in Cristo Gesù, nostro Signore (Rm 8,39). la divina redenzione è cristocentrica, ossia si realizza mediante Gesù Cristo, nella cui morte-risurrezione è operante Dio Padre, il Redentore. Come è detto in Rm 5,9 noi siamo «giustificati mediante il suo sangue». Gesù, nostro Signore, «è stato messo a morte per i nostri peccati ed è stato risuscitato per la nostra giustificazione » (Rm 4,25). Morte e risurrezione di Gesù è, per Paolo, il centro dell'evento redentivo. È nell'evento storico della morte-risurrezione di Gesù che la volontà di perdono di Dio entra definitivamente nella storia e si offre ad ogni uomo che crede. Gesù infatti «ha dato se stesso per i nostri peccati, per strapparci da questo mondo perverso, secondo la volontà di Dio e Padre nostro» (Gai 1,4). Coerentemente, Paolo afferma: «Io vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me » (Gal 2,20). La risurrezione di Gesù è il compimento salvifico della morte: l'agire redentivo di Dio, che era presente nella morte di Gesù, si manifesta in forma definitiva e vittoriosa nella risurrezione. Dio ha vinto la morte, «l'ultimo nemico» (1Cor 15,26).
Gli effetti della redenzione sono la liberazione dal peccato (« In lui, mediante il suo sangue, otteniamo la redenzione, il perdono dei peccati, secondo la ricchezza della sua grazia»: Ef 1,7; cf. Col 1,14; inoltre cf. Tt 2.14; Eb 9,12-13), dal diavolo («Egli ci ha strappati dal dominio delle tenebre e ci ha trasferiti nel regno del suo amato Figlio, nel quale abbiamo la redenzione, il perdono dei peccati»: Col 1,13-14; 2,15; cf. Eb 2,14) e dalla morte (« L'amore di Dio è stato manifestato ora mediante l'apparizione del Salvatore nostro Gesù Cristo, che ha distrutto la morte ed ha fatto risplendere la vita e l'immortalità per mezzo del vangelo»: 2Tm 1,10; cf. Eb 2,14-15). Diavolo, peccato, morte sono, nel pensiero paolino e in generale neotestamentario situazioni negative oggettive, potenze di distruzione, dati oggettivi. la redenzione di Gesù — col compimento del suo destino nella risurrezione — cambia radicalmente la 'situazione' storica dell'umanità: ogni uomo, mediante la fede nel Signore Gesù, può far propria la nuova 'situazione' di salvezza realizzata mediante Cristo. Il peccato da cui siamo redenti è la condizione di alienazione da Dio, che ha relazione profonda col diavolo e conduce alla morte totale. La redenzione è dunque 'riconciliazione' con Dio (2Cor 5,18-20).
L'effetto positivo fontale della redenzione è il dono dello Spirito di Cristo: « In lui anche voi, dopo aver ascoltato la parola della verità, il vangelo della vostra salvezza e aver in esso creduto, avete ricevuto il sigillo dello Spirito Santo che era stato promesso, il quale è caparra della vostra eredità, in attesa della completa redenzione di coloro che Dio si è acquistato, a lode della sua gloria» (Ef 1,13-14). Lo Spirito di Cristo è un "marchio di proprietà" posto sul popolo di Dio riscattato: come figli mediante lo Spirito (Gal 3,2-3; 4,6-7; Rm 8,12-17), i redenti formano il popolo di Dio, cioè il popolo che è proprietà di Dio.
Un testo non paolino, la lettera agli Ebrei, in una solenne e profonda meditazione del mistero cristologico della redenzione, dipinge davanti agli occhi dei cristiani la figura di Gesù Cristo sacerdote e l'evento del suo sacrificio sacerdotale come evento di solidarietà con l'umanità: « Perciò doveva rendersi in tutto simile ai fratelli, per diventare un sommo sacerdote misericordioso e fedele nelle cose che riguardano Dio, allo scopo di espiare i peccati del popolo. Infatti proprio per essere stato messo alla prova ed aver sofferto personalmente, è in grado di venire in aiuto a quelli che subiscono la prova » (Eb 2,17-18). Indubbiamente, anche per Paolo la solidarietà di Gesù Cristo, « nato da donna, nato sotto la legge » (gal 4,4) per riscattarci e farci figli di Dio è l'orizzonte in cui pensare correttamente la redenzione. La solidarietà di Dio con gli uomini peccatori è giunta fino al punto che « colui che non conobbe peccato Dio lo fece peccato per noi, affinchè noi potessimo diventare giustizia di Dio in lui» (2Cor 5,21). Gesù ha solidarizzato anche con gli effetti nefasti del Peccato, la potenza produttrice di morte e rovina. Così Dio «ha condannato il Peccato nella carne» (Rm 8,3) del Cristo, divenuto uomo passibile e mortale come noi peccatori, ma innocente e senza peccato. « La stessa creazione sarà liberata dalla schiavitù della corruzione per ottenere la libertà della gloria dei figli di Dio... Non solo essa, ma anche noi che abbiamo il primo dono dello Spirito, a nostra volta gemiamo in noi stessi, in attesa dell'adozione a figli, del riscatto del nostro corpo» (Rm 8,21.23). li destino dell'uomo è legato al suo cosmo e, di conseguenza, la creazione intera parteciperà alla redenzione definitiva dell'uomo operata da Cristo. È sintetizzata qui la visione paolina sul futuro dell'uomo e del cosmo.
La salvezza, che riguarda l'uomo solidale con il cosmo, è salvezza nella speranza (Rm 8,24). « È la speranza dell'uomo nella risurrezione (Rm 8,17-18.23.25) che permette a san Paolo di parlare della speranza di tutta la creazione: la speranza cristiana porta l'universo al futuro della salvezza» (J. Alfaro). La redenzione del 'corpo' dell'uomo è già presente e non ancora compiuta e, mediante la corporeità umana, è lo stesso cosmo che è già — sebbene non ancora perfettamente — integrato nel destino dell'uomo.
La redenzione di Gesù Cristo coinvolge tutto l'uomo, sia come individuo sia come comunità, sia come anima sia come corpo legato al suo cosmo, sia nel suo "tempo perduto" nel peccato sia nell'aprire un futuro di speranza. Mediante la redenzione di Cristo, Dio sta facendo nuove tutte le cose per far nascere «un cielo nuovo e una terra nuova» (Ap 21,1).

(A. Bonora, Dizionario di teologia biblica, Paoline 1988)

Edited by Fra Roberto Brunelli - 24/6/2017, 16:00
view post Posted: 18/4/2017, 10:58 Papini - Testi tosti
NOTOMIA DEI PROTESTANTI
Da “La pietra infernale” di Giovanni Papini (1934)
Combattere il Protestantismo ‑ come fanno ancora certi cattolici attardati e inesperti ‑ dimostrando che Lutero era un epilettico e Calvino uno schizotimico, non serve a nulla e può esser pericoloso. Anche i cristiani dei primi secoli furori detti pazzi e la psichiatria da un bel pezzo pretende di ridurre a malattia mentale il genio e la santità. Vecchi archibugi che bisogna lasciare sulle spalle gobbe degli ultimi scamozzi di Lombroso.
Affermare, poi, che la Riforma fu principalmente dovuta all'ingordigia degli appaltatori d'indulgenze o a quella dei principi, vogliosi di arricchirsi coi patrimoni ecclesiastici, é un cascare nelle fallaci escogitazioni del materialismo storico. Il quale é valido soltanto per alcuni ordini di accadimenti e, nella maggior parte dei casi, non é che un elemento (e tutt' altro che il primo) nel complesso delle cause.
Può meglio servire la polemica teologica purché si riesca a far accettare dall' avversario certe premesse e un comune metodo d'esegesi biblica e di ricerca metafisica.
La storia delle teorie può aiutarci a smantellare certe casematte dei protestanti: si può, col Bossuet, mettere in chiaro che neppur loro si sottraggono all'accusa (o alla necessità) delle variazioni dottrinali; si può, col Denifle, portar le prove che Lutero non ha inventato nulla, neanche gli errori. Ma si può tentare anche un'altra via: vedere cosa c'è dietro le dottrine. Cioè i significati psicologici e i sottintesi morali (o immorali) della grande rivolta anticattolica. Invece della psichiatria la psicologia; invece della metafisica l'etica; invece della storia il catechismo. E del catechismo una pagina sola, e la meno contestata: la lista dei peccati capitali. Fare in pace il porco in terra senza perdere affatto la speranza di fare il beato in cielo: questo, in parole finalmente chiare, il segreto di Martin Lutero. Se nell'uomo c'è una bestia che recalcitra e un angelo che trasogna il Luteranismo li contenta tutt'e due: il bruto pigro e carnale in questa vita, lo spirito desideroso in quell' altra. Basta lasciar fare a Gesù. Finché siamo nel mondo presente a peccare è Lui che si carica d'ogni nostra colpa; dopo morti, fatti candidi dal suo sangue, ci accoglierà nel suo Regno.
Teologia luterana: peccato franco e paradiso gratis. Una dell'opere più famose di Lutero è il De servo arbitrio. Non staremo a riferire i suoi ingegnosi ed eloquenti sofismi: c'importa soltanto la conclusione e le sue conseguenze. Se non esiste libertà non si può parlare di colpa, e non c'è peccato. Cioè quel che si chiama peccato non è peccato ma semplice effetto dell'inguaribile infermità umana o astuzia del diavolo. Si può peccare, dunque, senza essere accusati, senza esser puniti, senza perdere la speranza della beatitudine eterna.
Comodissima teoria, come si vede, ispirata dalla repugnanza a ogni sforzo di riforma interiore e dalla paura delle responsabilità. Dottrina, sia detta passando, fanciullescamente contraddittoria. Se l'uomo, qualunque casa faccia, è schiavo, perché rifiutare di sottometterlo a una servitù ragionata (disciplina morale, ascesi) che può diminuire i danni evidenti della servitù maggiore (concupiscenza)?
L'opinione di Lutero intorno alle «opere» ha variato attraverso gli anni, con ondeggiamenti e ritorni, ma quella che meglio concorda colla sua «scoperta » teologica iniziale si riduce al rifiuto. E Calvino è ancor più reciso di lui: l'uomo non può aver nessun merito, se Dio non gli accorda un atomo del suo. Le «opere» comandate dal Vangelo e dalla chiesa non consistono, come certi protestanti vorrebbero far credere, soltanto nelle devozioni e nei riti. Sono, prima di tutto, opere di carità, opere d'amore, opere di misericordia e, non separate da queste e anzi a queste necessariamente unite, quelle opere di perfezionamento interno che giovano ad avvicinare l'anima, attraverso i fratelli, al Padre.
Negare ogni valore a quest'opere significa, cioè, cancellare almeno una metà del Vangelo e confessare l'impotenza (o la non volontà) di mutare sé stessi e di combattere il male fuori e dentro di noi. Siamo, anche qui, di fronte a una giustificazione teologica della pigrizia; o, peggio ancora, alla egoistica viltà dell'inazione nobilitata a regola di vita cristiana. L'individualismo anarchico della Riforma viene a combaciare col motto della plebe dei diacci di cuore: Ciascuno per sé e Dio per tutti.
I protestanti hanno dimenticato ‑ hanno voluto e dovuto dimenticare ‑ che la Redenzione implica due attori: Dio e l'uomo. Uno di essi grandissimo, l'altro piccolissimo ma tutt’e due necessari. Senza l'Incarnazione e la Grazia l'uomo non può salvarsi; ma senza una collaborazione attiva, una concreta accettazione da parte dell'uomo non è pensabile la salvezza. La Redenzione è una scala che dal cielo è scesa sulla terra perchè sia possibile la risalita del caduto dall'ali mozze: se la creatura non s'aggrappa alle stagge rimarrà sempre a marcire nelle tenebre inferiori.
Il protestante vuole, invece, che Dio faccia tutte le parti. Non gli basta ch'Egli chiami a sé e insegni la strada; pretende d'esser portato in collo fino alla mèta. Cristo ha versato il sangue per noi ma Lutero non è ancora soddisfatto: esige che Cristo medesimo ci lavi con quel sangue, senza che da parte nostra si faccia nulla per renderci degni di tal miracolosa lavanda. Basta che l'uomo abbia la fede e può tranquillamente poltrire sui guanciali del peccato senza muovere un dito per vincere i suoi istinti e per avvicinarsi a Dio. Cristo non è soltanto Salvatore, ma il facchino che deve prendersi sulle spalle tutti i pesi delle nostre colpe, anche di quelle che si potrebbero, con piccolo sforzo, evitare.
Ma se l'uomo non può salvarsi senza Dio è anche vero che Dio non può salvar l'uomo se l'uomo non vuole. Per motivi di comoda accidia i luterani hanno soppresso la libertà del volere e per conseguenza ogni obbligo di cooperare alla propria salvezza.
I protestanti rifiutano, con un pretesto teologico, di compiere la parte loro, necessaria, nell'opera teandrica. Sono i disertori confessi nella battaglia per il riacquisto del cielo.
Per sfuggire al pericolo di cadere nel pelagianismo ‑ efficacemente allontanato dalla gagliarda polemica di Sant'Agostino ‑ i luterani rischiano di cadere nel quietismo, nel fatalismo. Non per nulla Lutero fu avvicinato da qualche controversista a Maometto. Se l'uomo è un automa del quale Dio e il Demonio tirano i fili, se il destino di ciascuno è segnato ab aeterno, a che pro affaticarsi, con quale fiducia adoperarsi a lavare sé e gli altri ? Se basta la persuasione interna che Cristo provvede a tutto non c'è altro da fare: il vero cristiano è Belacqua.
All'ira ‑ più calcolatrice che generosa - s'ispirò il motivo polemico protestante più adatto a sobillare il popolino: la corruzione del clero.
Che i costumi dei chierici, cominciando dal Papa, fossero, in quel principio di secolo, disgustosi e vergognosi, nessuno nega. Ma non era, purtroppo, cosa nuova. Fin dal IV secolo, dopo la vittoria ufficiale della Chiesa, cominciano le accuse contro sacerdoti e monaci, talvolta esagerate ma più spesso, purtroppo, vere. Decisioni di concili, decreti di papi, rampogne di moralisti, documenti storici, invettive di asceti denunziano l' indegnità d' una parte del clero e cercano di rimediarvi. Si potrebbe fare un'antologia anticlericale del Medio Evo altro non riportando che pagine scritte da Santi e sarebbe terribile. I protestanti, su questo punto, non son riusciti a superare, almeno in violenza verbale, un San Pier Damiani.
Ma ci son diversità profonde tra i denunziatori santi e gli accusatori luterani. Importanti queste due: i primi si proponevano di correggere i fratelli caduti in peccato e non già di prevalersi di quell'esempio per far del peccato necessità legittima e per distruggere la gerarchia ecclesiastica.
Inoltre non collegavano le dolorose lamentazioni sulla marciosità chiericale con novità dogmatiche: lo stesso Savonarola che i luterani, grossolani o subdoli, pongono tra i precursori della Riforma, non pensò mai di mutare una virgola sola della dottrina ortodossa.
C'è un'ira giusta, ardimentosa e vangelica che si propone il disbarbicamento del male ed é quella dei cristiani veri che vogliono, per spirito di carità, servirsi anche del fuoco per stagnare le piaghe. C'è poi un'ira di compiacimento e di malanimo, che vuol distruzione e non correzione, ed è soltanto un pretesto per rifuggire dalle discipline e dalle leggi, per negare ogni autorità ‑ ed è quella dei luterani.
Nella terrena città di Dio s'era sparsa la peste e la lebbra. I pretesi riformatori (non riformati) non pensano a curar gli infermi e a vincer la pestilenza. A somiglianza dei dieci del Boccaccio abbandonano la città infetta per creare un accampamento fuor delle mura. E per colmo di cristiana carità scagliano contro i lebbrosi e gli appestati, nel posto di medicine, sassi d'ingiurie e freccie avvelenate. Non si capisce bene, poi, su quali principi poggiasse la virulenta riprovazione dei costumi romani.
Secondo Lutero gli uomini hanno perso, dopo Adamo, il libero arbitrio: come si può condannare uno schiavo perchè fa quel che non può fare a meno di fare? La concupiscenza, sempre a dar retta a Martino, è invincibile: se fosse vero ne deriverebbe, nientemeno, la riabilitazione di Alessandro VI.
Diranno che il salvacondotto per commettere impunemente peccati è la fede nel Cristo: ma chi può mai sostenere e provare che, anche nei più laidi chierici, codesta fede fosse del tutto rinnegata e spenta? Lo stesso papa Alessandro di tutto fu accusato meno che d'incredulità. Vari atti del suo pontificato testimoniano che, pur sopraffatto dalla carnalità, preservò e difese la purezza della dottrina e tanto poco aveva perso la fiducia in Dio che scelse a suo motto le parole del Salmo: Ad Deum cum tribularer clamavi: et exaudivit me.
Non asserì lo stesso Lutero che una fede viva può esistere in colui che pecca secondo la legge anzi che il molto peccare è una sfida al demonio?
Non per soli motivi nazionalisti ed economici i protestanti son contro Roma: da Lutero fino ai luterani razzisti dei nostri giorni. Roma antica è la legge civile, la legge dell'uomo; Roma cattolica è la legge teocratica, la legge di Dio. La Riforma è, nel suo spirito, anarchia: e dev'essere per forza contro ogni forma di legge e, per cominciare, contro l'eterna capitale della legge, contro Roma.
Il luteranismo dichiara l'uomo schiavo per concedergli, senza timore di sanzioni, tutte le libertà ‑ e principalmente quella più cara alla carne della bestia non doma: la libertà del peccato.
La famigerata «libertà d'esame » ‑ che non tutti i protestanti ammisero: basti l'esempio di Calvino ‑ proviene, com'è chiaro, dall'orgoglio. Supporre che ciascun fedele, anche ignorante, possa intender meglio il senso delle scritture colle sole sue forze, sdegnando i risultati di almeno quattordici secoli di riflessione e di esegesi, sovrapponendosi ai padri, ai santi, ai dottori, ai concili, é atto di superba demenza. Eppoi : se l'uomo é così profondamente caduto come Lutero afferma, devono essere in lui ottuse e ferite anche le potenze intellettuali: come sarà capace d'intendere, senza il soccorso d'una tradizione, il senso della Bibbia e dei dogmi? Se le Scritture sono ispirate da Dio é chiaro che il primo venuto non può intenderne sicuramente i misteri; se invece sono opera umana perché voler tutto fondare, vita e fede, sopra di esse?
Alla condanna del culto dei Santi corrisponde ‑ ma non sola ‑ l'invidia: una delle mille varietà di questo peccato particolarmente attaccaticcio e contumace.
Come i mediocri invidiano il genio e i demagoghi il dominatore e i borghesi gli straricchi, anche i protestanti ‑ plebe democratica insorta contro il capo legittimo ‑ invidiano i Santi, quei beati che il popolo ama, che la Chiesa consacra e incorona.
Il luterano che per astuta poltronaggine ha persuaso se stesso che l'uomo non potrà mai raschiarsi di dosso la crosta stercosa acquistata sullo stabbio delle concupiscenze, doveva per forza negare la superiorità di quei privilegiati che, a forza di amare Dio e Dio negli uomini, eran riusciti a nettarsi, a sollevarsi, a scarcerarsi, a recuperare qualcosa della perfezione perduta, a conquistare qualcosa della beatitudine promessa.
I deboli invidiano, e detestano, gli eroi; i vigliacchi invidiano, e odiano, i forti e i temerari; gli infingardi invidiano, e condannano, gli operosi e i vittoriosi. E i luterani rigettarono, rifiutarono, negarono i Santi. Tanto più che costoro ‑ superbi da quanto invidiosi ‑ non volevan saperne d' intermediari: s'illudevano, ubriacati da un democratico misticismo, di poter trattare con Dio da soli, faccia a faccia. Via i sacerdoti, che sono i mediatori naturali tra i fedeli e la Divinità; via i Santi che sono gl'intercessori misericordiosi tra il dolore dei figlioli e l'amore del Padre. L'invidioso protervo é diffidente; non sopporta aiuti, neanche fraterni: vuol far da sè, per sfuggire a ogni vigilanza e sottrarsi ad ogni gratitudine. Il protestante è disposto a subire Dio ‑ in quanto di Lui si serve ‑ perchè d'altra natura e a tutti superiore. Ma i Santi furono uomini; quel che loro hanno fatto ciascun di noi, se volesse, potrebbe fare. Sono, cioè, un rimprovero manifesto a coloro che non vogliono affaticarsi per collaborare all'opera della redenzione. Per crearsi un alibi non ce che un mezzo: buttarli giú dagli altari.
Questi fracassanti riformatori voglion riformare la dottrina evangelica, l'esegesi biblica, la teologia della Redenzione, la gerarchia ecclesiastica, i rapporti tra la Chiesa e lo Stato, la disciplina e la liturgia. Voglion riformare ogni cosa ‑ eccettuato se stessi. Tutto e tutti voglion riformare ‑ meno l'anima propria. Sono irosi e vogliono sfogarsi contro innocenti e corrotti; sono carnali e permettono ai frati di sposar le monache; son golosi e s'empiono il ventre di vino e di cervogia; sono invidiosi e non vogliono saperne di santi; son superbi e presumono di fare a meno della guida dei sacerdoti.
Storia eterna: è piú facile riformare le istituzioni che l'anime; piú comodo distruggere le cose esterne che cambiare in meglio la vita interiore. Meno faticoso, meno penoso. Seguendo gli istinti si scende comodamente giù per la china; combattendoli si tratta di ansimare su per una salita. Dietro a ogni facciata protestante si ritrova la riluttanza allo sforzo: l'accidia. All'origine della Riforma si scoprono più pretesti che ragioni vere. Pretesto il traffico dell'indulgenze: Lutero fin dal 1514 aveva scoperto la sua teoria; pretesto la corruzione del clero; pretesto di copertura la distorsione operata da frate Martino delle parole di San Paolo e di Sant'Agostino sulla fede giustificante.
C'erano, sotto i pretesti, motivi reali (non ragioni) ma puramente soggettivi, fondati nella natura dei primi riformatori: non sempre confessabili e solo involontariamente e indirettamente confessati. E verrebbe la voglia di cambiare il nome stesso dei Protestanti. Basterebbe un piccolissimo mutamento: e invece di o. Pretestanti: quelli che vanno in cerca di pretesti per fare il comodo loro. Coloro che avvicinano troppo l'uomo a Dio come facevano i pagani e come é avvenuto nel Rinascimento e ne' tempi nostri ‑ sbagliano, cioè non hanno una concezione alta e giusta della divinità.
Ma quelli che pongono tra Dio e l'uomo un abisso incommensurabile e invarcabile ‑ come tutti i protestanti dell'estrema destra, da Calvino a Kierkegaard e a Barth ‑ fanno forse peggio.
L'uomo è nulla e Dio è l'essere per eccellenza, infinito e perfetto: d'accordo. Ma non bisogna dimenticare che questo tutto ha dato a quel nulla ch'è l'uomo qualcosa di sè, una parte, sia pur minima, del suo Essere. L'ha creato, per cominciare, a sua immagine e somiglianza; ha mandato il Figliolo suo con l'immagine e la somiglianza dell'uomo; gli ha promesso, e permesso, una via per recuperare quella somiglianza: la dottrina della deificazione dell'uomo è insegnata da secoli dal Cristianesimo ed é la contropartita, parlando all'ingrosso, di quella umanificazione di Dio che fu la discesa di Cristo. Vuol dire che, malgrado l'infinita distanza, c'è qualcosa di comune tra l'uomo e Dio: c'è se non altro, quel che Santa Caterina da Siena chiamava il “ponte”. La teoria calvinista, che contrappone Dio all'uomo come l'essere e il nulla, senza comune misura, senza possibilità di rapporti, è un' idea spaventosa, presa alla lettera, e si capisce che Kierkegaard, spirito consequenziario, sia potuto arrivare alla terribile formula: Dio é il nostro nemico. Un passo di più e Proudhon scriverà: Dieu c'est le mal.
Ma se guardiamo l'altro lato, quello delle implicite illazioni, si rivela, in fondo, idea praticissima e vantaggiosa per coloro che rifuggono, come i protestanti, da ogni attività difficoltosa. Dio é talmente d'altra natura che ordina all'uomo cose impossibili: ottima scusa per dispensarci anche dalle possibili.
Dio è talmente diverso da noi, talmente imperscrutabile alla ragione umana, che le sue parole sono indicibilmente misteriose, i suoi pensieri incomprensibili e, per il nostro basso e carnale intelletto, notte profonda: ottima scusa per non accettare nessun dogma.
Dio é talmente altro dall'uomo che la sua giustizia sembra a noi ingiustizia, la sua saggezza é pazzia ai nostri occhi, il suo amore stesso apparisce a noi crudeltà incomportabile. Magnifico pretesto per adagiarsi in un quietismo di semplice attesa, per separare a poco a poco la vita della fede da quella quotidiana, pratica e puramente umana.
Non per caso il capitalismo moderno è nato sotto il segna del Calvinismo. Non essendoci più contatti naturali e diretti tra Dio e l'uomo si pensò che l' unico indizio della benevolenza divina è la riuscita: non riuscita nella santificazione (chè all'uomo è impossibile procacciarsi qualsiasi merito) ma, in mancanza d'altro, nella vita pratica. «La mia azienda è prospera e nelle mie mani si moltiplicano le sterline: vuol dire che Dio, per un capriccio della sua impenetrabile volontà, mi protegge ».
E così, per una di quelle ironie immanenti nella storia degli errori, una dottrina che pretendeva giungere alla massima purezza dell'assoluto ‑ e schifava le “superstiziose devozioni romane” perché troppo materiali e mercantili ‑ a poco a poco diventò il misticismo giustificante dei trafficatori e dei manifatturieri. L'uomo é nato per operare: la condanna delle “opere” di carità portò alla glorificazione delle «opere » di arricchimento.
Finalmente inorriditi i nuovi teologi protestanti d'oggi ‑ Barth, Gogarten, Thurneysen tentano di rinverginare l'assolutezza inumana di Calvino ma è troppo tardi. Nella stessa patria di Lutero il protestantesimo si sfarina e si stempera sotto l'offensiva del risorto paganesimo razzista, male arginato dall'opportunismo d'una chiesa da tempo disseccata nelle radici, povera di linfa, disertata dai fiori, spoglia di frutti, non fusto unico con la sua cima illuminata e dominatrice, ma serpaio di polloni putrescenti e bistorti.

Edited by fra roberto - 18/4/2017, 13:37
view post Posted: 20/3/2017, 15:30 E LO VEDEMMO VOLARE - Santi e testimoni


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LA VERA VITA DI SAN GIUSEPPE DA COPERTINO


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Sette anni fa nell’Archivio del Santuario di San Giuseppe da Copertino di Osimo riemerse dalla polvere il Summarium dei processi per la beatificazione di san Giuseppe da Copertino. Questo testo, pubblicato nel 1713 dalla tipografia vaticana con tiratura di pochissime copie, era stato lo strumento necessario ai teologi per verificare le virtù di fra Giuseppe Desa. Esso è il riassunto dei tre processi locali che si svolsero nel 1664, un anno dopo la morte del Santo dei voli, a Nardò, Assisi e Osimo. Dopo la riscoperta del volume dimenticato fra Roberto Brunelli ha lavorato a lungo per riassumere e riorganizzare questo testo fondamentale. L’intento è stato quello di raccontare la vita del Santo facendo parlare direttamente coloro che lo avevano conosciuto: quelli che avevano visto con i loro occhi fra Giuseppe rimanere in estasi o sollevarsi da terra, che avevano ascoltato profezie che si erano immancabilmente verificate o i detti sapienziali che mostravano quella scienza infusa donata da Dio all’umile ed illetterato francescano salentino. Il libro racconta la prodigiosa vita di questo francescano conventuale che è senz’altro uno dei più grandi mistici della storia del cristianesimo. Oltre ai processi, sono stati utilizzati per la composizione della biografia anche le altre fonti antiche: la vita di san Giuseppe scritta da p. Roberto Nuti, Custode del Sacro Convento, che conobbe il Santo nella sua permanenza assisana, e quella del p. Giacomo Roncalli, Provinciale delle Marche e confidente del frate copertinese. Altri brani sono tratti dai Diari compilati dall’abate Rosmi, amico di fra Giuseppe, che raccolgono molte notizie su estasi, visioni e detti, trascritte dal benedettino quando il frate era ancora in vita.
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